lunedì 12 dicembre 2016

Arriva John Doe!




Genesi e caduta del grande sogno collettivo in quello che, ancora oggi, mi pare il film più complesso, più oscuro, più inquietante di Frank Capra. A rivederlo, "Arriva John Doe" si rivela, una volta di più, un film di un'attualità sconcertante. E' un'opera alimentata da continui slittamenti, un quarto potere che non ha paura di farsi spudorata parabola cristica, demistificante sogno americano, inscenando una vera e propria politologia dalle tinte foschissime (i potenti di turno che, nel finale, sembrano orride emanazioni pinguinesche). Il John Doe di Gary Cooper non è in fondo così distante dal suo Mr.Deeds di E' arrivata la felicità. Al cinema, almeno al cinema, bisogna credere nell'utopia, e questo Capra l'avevo capito meglio di tutti. Trovo quindi straordinario che il finale scelto per il film (si parla di quattro finali alternativi) rappresenti in definitiva la rottura di un circolo, la vittoria del singolo uomo su un intero sistema: se l'amore non potrà salvare il mondo potrà almeno salvare John Doe, che significa ognuno di noi.

venerdì 2 dicembre 2016

I Cormorani di Fabio Bobbio




L'ho sentito molto "I Cormorani" di Fabio. Perché è un film che richiama alla mente un mondo altro, dove i genitori non esistono, dove il pedinamento di due ragazzini tra boschi, supermercati e luna park si fa ipnotico e dolce, ondivago e sussurrato. C'è una verità profonda nel rapporto tra Matteo e Samuele, i due giovanissimi protagonisti, fatta di giochi, sguardi, piccole sfide e complicità infantili. Sembra quasi che il tempo si fermi, inghiottito nella bolla di un'estate infinita, quella dell'ultima infanzia: Fabio Bobbio lascia liberi i suoi bimbi sperduti, liberi di esplorare un set che non è mai tale ma che riflette, in fondo, la loro vita quotidiana. Il suo sguardo è colmo d'affetto e delicatezza, memore di tante suggestioni cinefile (Comodin, Gus Van Sant, il Lisandro Alonso de "La Libertad") che però non inghiottono mai il film, lasciandolo vivo, palpitante, continuamente in fieri. Questo è il cinema italiano che continuo a sognare. Bellissimo.

giovedì 1 dicembre 2016

Su Elle di Paul Verhoeven




C'è un mondo di pulsioni libidinali e fantasie proibite nello sguardo algido, robotico e crudele di Isabelle Huppert in "Elle", nuova conturbante opera di Paul Verhoeven. Con una furia che non risparmia nessuno, il regista olandese mina le fondamenta stesse della società borghese contemporanea: nel mirino c'è il nucleo di una famiglia che non potrebbe essere più disfunzionale, c'è lo spettacolo quotidiano dei media e il pasto mediatico della Chiesa, le perversioni della gente comune e del "buon" vicino, le nuove vite di gilf grottesche con toy-boy da strapazzo, le chiacchiere vane, sempre uguali, sempre vuote, sulla letteratura e sull'arte. La Lei del titolo è un'entità tutta cinematografica che, come una mina, fa detonare l'intero mondo - e l'intera, fasulla morale - che la circonda. Assassina di un padre e di una madre, di un amante e di un intero corollario di valori. Verhoeven firma uno dei film più politici della sua carriera, mettendo al centro un mondo - il nostro mondo - dove è il sesso a regolare rapporti di potere, gerarchie e successi. Ogni dinamica carnefice-vittima viene ribaltata, Verhoeven mischia le carte, lontano anni luce da una prevedibile storia di vendetta. Il film, proprio come uno dei videogiochi della protagonista, vive nel continuo ribaltamento di ruoli, generi, superfici. Al cinema ogni reincarnazione è possibile, ogni mondo sotterraneo ha il potere famelico di inghiottire l'intera realtà. Con lo spettro della morte sempre in agguato, la vita continua, trasformando il trauma di un passato lontano nell'innesto stesso di una furia distruttrice, di una bambina dall'infanzia rubata, nuovo angelo sterminatore, nuova, inumana configurazione di un (s)oggetto del desiderio che sembra uscire dalle pagine di Bataille.

Katherine transgender




Mi piace "Il diavolo è femmina" per come sia il film di Cukor che più deraglia, apre parentesi, esce fuori dal tracciato in maniere imprevedibili. Dalla commedia transgender, in anticipo sui tempi, al dramma familiare, dal melò all'avventura comica. Katherine Hepburn, travestita da uomo, emana un fascino quasi inammissibile per l'epoca. E' lei, costantemente sopra le righe, a cospargere d'ingenuità un film popolato da porci (parafrasando una battuta di Cary Grant). E le sequenze teatrali, con gli spiragli musical, sono istanti che bloccano il tempo della narrazione nutrendosi di nient'altro che il cinema.

Sulla fede, su Monte, su Naderi e su Tarkovskij




Ogni atto di fede è gesto gratuito e ossessivo, ogni santo è un folle. Abbattere una montagna per spezzare una maledizione, fare sesso con una strega per impedire la fine del mondo. Agostino in Monte rimane a combattere assieme alla sua famiglia (che non lo abbandona), mentre tutti gli altri se ne vanno. Egli è l'incarnazione del guerriero santo, del profeta che non oppone alcuna resistenza al compiersi - strutturalmente irrazionale - del miracolo ( è una figura quasi abramitica). Solo la fede cieca e incrollabile può donare lui la salvezza. Il Monte stesso sembra suggerirgli ciò che deve fare, fino chiamarlo a sé, alla sua necessaria morte/rinascita. Alexander in Sacrificio arriva perfino a bruciare la propria casa per portare a compimento la profezia. Sia Alexander che Agostino credono prima di vedere, sentono prima di pensare, agiscono - fuori dal mondo - per il mondo. Ecco perché Monte è un film profondamente, sensibilmente religioso, come lo sono tutti i film atletici, sportivi e maratoneschi. E' già lì, mentre prova sulla propria pelle le origini gratuite e irriducibili della fede.

lunedì 21 novembre 2016

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I cavalli ricominceranno a correre, i bambini torneranno amici dei lupi.

La La Land




Non l'avrei mai creduto, eppure "La La Land" di Damien Chazelle è davvero un film bellissimo. Perché è un film in cui si vorrebbe vivere in una bolla fuori dal tempo, in quel sogno lungo un giorno di coppoliana memoria, eppure la realtà irrompe sempre, magari con un cellulare che suona al momento sbagliato, magari con una sala vuota al debutto di un'attrice. Il musical si fa terra dei sogni e del cinema, isola che non c'è in cui restare o andarsene, almeno per un attimo, anche solo per uno sguardo. Dall'altra parte Stanley Dolen e Gene Kelly stanno a guardare, ma c'è sempre la consapevolezza amarissima che ieri non potrà essere mai più domani. E allora si balla tra le stelle, pronti a sognare un what if impossibile, un altro mondo in cui tutti vissero felici e contenti. Pronti a sognare il cinema, si potrebbe dire. Solo per un ultimo ballo. Uno solo, per tornare felici a cantare sotto la pioggia.

Les Beaux Jours d’Aranjuez di Wim Wenders.




Parigi è vuota, le strade sono deserte, il mondo si è fermato (il mondo è finito?). Uno scrittore modella nuove realtà, incasella ricordi ed emozioni, mette in scena un dialogo a due in un giardino desolato, nient'altro. Attraverso l'immaginazione ricrea mondi e ricordi, lasciandosi andare a un flusso di coscienza che è l'unico residuo, l'unica traccia, l'unico modo di tenersi in vita. Un perfect day che lascia spazio a una parola continuamente squarciata dal silenzio, e viceversa. E ciò che rimane del mondo, alla fine, non sono che le emozioni. Le lacrime rigano il viso di quest'ultimo (o primo) demiurgo. Silenzio, alla fine resta solo silenzio.

Prevenge: feto, questo ospite estraneo




"Prevenge" di Alice Lowe. Purissimo, divertentissimo weird-movie che porta avanti una riflessione non banale sulla gravidanza come invasione del corpo femminile, sottomissione a un feto pensato come ospite estraneo venuto da un altro mondo (omaggi a Rosemary's Baby, ossessioni ipodermiche del primo Cronenberg e intuizioni alla Porky College). Tra tinte horror, fughe demenziali e squisite incursioni splatter, il film di Alice Lowe ha il grandissimo merito di non prendersi mai sul serio, mentre ci avvolge in un incubo grottesco e indemoniato. Splendido.

p.s. la sequenza di Halloween, che vale da sola tutto il film, è una goduria infinita.

Animali notturni di Tom Ford




Se l'eleganza stilistica di A Single Man mi risultava indigesta, mai mi sarei aspettato un film come questo. Strutturalmente coercitivo, ricattatorio dall'inizio alla fine, la cosa che più mi disturba del film di Ford è il suo essere così profondamente crudele: odia i propri personaggi, li chiude in circoli senza via di fuga, li intrappola inquadratura dopo inquadratura, senza alcuna speranza, senza un residuo d'ossigeno. E' interessato solo alla geometrica implacabilità della sua struttura, applicando uno sfiancante codice di giustizia perfino ai rapporti umani, ai tagli di montaggio, agli sguardi degli attori. Tutto ritorna, tutto si fa circolare, tutto è scritto, pensato, teorizzato, prima ancora di essere sentito o vissuto. Un cinema così interessato alla perfezione da dimenticarsi che bisognerebbe saper amare e credere nei propri personaggi prima di distruggerli e mandarli alla deriva

Brimstone




Mi risulta un po' incomprensibile tutto l'astio che ha suscitato questo western classico più che mai. Non che il film non abbia evidenti problemi, a partire dalla sua struttura narrativa: perché non seguire l'ordine cronologico degli eventi e incastrare, ribaltare i tempi? perché questo continuo dover complicare a tutti i costi, come per paura che il flusso degli eventi, da solo, non basti? Oppure l'ostentazione - quella sì un po' compiaciuta - della violenza...eppure nei 150 minuti di Brimstone non ho mai guardato l'ora, il film scorre a un ritmo implacabile regalandoci anche alcune sequenze davvero belle. Dal cattivissimo Guy Pierce nel suo ruolo migliore da tanti a questa parte, che rimanda a La morte corre sul fiume piuttosto che, come molti hanno detto, all'ultimo Tarantino. Il suo pare un vero e proprio demone, l'incubo perverso che non muore mai. Certo manca l'ironia, tutto si prende maledettamente sul serio, ma da qui a definirlo osceno ce ne vuole...

Hacksaw Ridge di Mel Gibson




"Hacksaw Ridge" di Mel Gibson. Pazzesco film redentivo dove Mel Gibson mostra una consapevolezza dei suoi parossismi davvero esemplare. La fiera del grand guignol non è fine a se stessa come nei due film precedenti, ma è perfettamente circoscritta al contesto bellico in cui si trova. E avere un protagonista che non tocca un'arma per tutto il film è un conflitto in cui Gibson si pone in prima persona. Si tratta del suo film più personale, disseminato di suoi alter-ego che fanno da specchi, riflessi di un'intera esistenza. Pare quasi una terapia, un gioco di rimandi, un film in lotta con il suo stesso autore. A vincere è il cinema americano dal nitore più classico che si fa esemplare parodia di se stesso nei venti minuti finali più cinetici, più esaltanti della sua filmografia.

Tremori: The Assassin di Hou Hsiao-hsien




e così ti scopri a tremare per ogni immagine, ogni velo, ogni quinta, ogni ombra già impressa su pellicola. The Assassin di Hou Hsiao-hsien è cinema di folgorante bellezza, quello che ripensa ogni immagine a partire dalla sua persistenza, dalla sua durata, dalla sua traccia che è un residuo, un'ancora, un ultimo tremore del cuore e della mente. E alla fine è il tempo stesso ad astrarsi, fino a concentrarsi in un volto, in un campo, in un piano lungo dove, in lontananza, echeggiano i duelli marziali del wuxia che fu. Hou Hsiao-hsien firma uno dei suoi film più erotici, perché rimanda sempre al momento successivo, quello in cui tutto esploderà. Eppure non c'è esplosione, non c'è detonazione, non c'è "storia" se non la carica sensualissima, ardente e incendiaria, di un'attrazione che non ha mai fine.

Scrivimi fermo posta




rimane sempre il film da vedere a casa mentre fuori piove, magari rannicchiati sotto una coperta, magari d'inverno, magari con la persona che si ama. Istante dopo istante, battuta dopo battuta, rivivono le immagini-fantasma di corpi attoriali perfetti sempre pronti a prendere nuova vita. "Scrivimi fermo posta", come tutto il cinema di Lubitsch, rinasce a ogni nuova visione e ha il potere incredibile di essere, di volta in volta, un film nuovo e mai visto. E, come non tutti i fantasmi, appare sempre in forma smagliante. Per dirla alla Billy Wilder: il Paradiso? Un film di Lubitsch.

Susanna di Howard Hawks




"Susanna" di Howard Hawks. La regina delle commedie degli equivoci, quella che porta ogni situazione a un tale livello di parossismo da anticipare in cento minuti tanto, tantissimo cinema che verrà (Katharine Hepburn mai stata così in anticipo sul tempo in questa commedia così situazionista, così assurda, così superbamente esagerata). A rivederlo oggi rimane un film sfrenato, impudico e crudelissimo, con un ritmo indiavolato che solo uno come Howard Hawks poteva sostenere. Il film si accende, fugge senza spegnersi mai, cambia traiettorie, reitera ossessivamente una serie di sfortune incessanti, come un "Fuori orario" prima del tempo (il meccanismo, in fondo, è proprio quello: rimango convinto che Martin Scorsese abbia avuto, tra i suoi riferimenti primi, proprio "Susanna!" per la sua memorabile avventura notturna).

La Hepburn posseduta di Incantesimo




Ancora una volta il cinema che più mi manca è quello americano degli anni '30, le grandi commedie di Hawks (di cui "Susanna!" è forse la stralunatissima vetta), il garbo di Lubitsch (e la Garbo di Lubitsch!), le vite meravigliose di Capra...penso questo mentre vedo "Incantesimo" di George Cukor, film troppo spesso dimenticato, ma oscuro, misterioso, conturbante nella sua identità scissa, in bilico tra dramma estatico e commedia sentimentale. Il titolo originale era "Holiday", geniale perché la vacanza, il sogno del protagonista/idealista Cary Grant è sempre fuori-campo (del resto è un film che vorresti continuasse per ore, perché il finale è così perfetto, così conclusivo, che lascia la voglia di sapere come, dove e quando, i nostri beniamini continueranno a viaggiare). Eppure "Incantesimo", il titolo italiano, rende perfettamente le atmosfere oniriche, il fascino spettrale della villa in cui è ambientato quasi tutto il film. Che è un film di fantasmi, di sogni nel cassetto, di bassezze morali e arrivismi sfrenati. C'è un'amarezza, una malinconia di fondo continuamente celata dal ritmo comico indiavolato del duo Grant/Hepburn. E Katherine sembra come posseduta, la sua recitazione è completamente fuori dalla norma, come in preda a uno stato d'estasi o di ipnosi. "Incantesimo" diviene quasi la storia di una santa, di una figlia che sfugge alle ricchezze materiali della casa paterna, per gettarsi tra le braccia del povero sognatore di turno. Un capolavoro sulla seduzione dove ogni primo piano di Katherine Hepburn è un tentativo d'ipnosi sullo spettatore, un assalto allo sguardo che rompe qualsiasi barriera protettiva. Un volto, il suo, che pare l'emanazione di una luce violenta e bellissima, di un dolore antico che rivive, ogni volta, sullo schermo.

p.s. la stanza dell'infanzia, il fratello deluso che soffoca i propri dolori nell'alcool ma non ha il coraggio di rinunciare a quella vita, il pater familias che non può urlare in chiesa...sono troppe le cose memorabili del film per elencarle tutte. Rimangono i ricordi.

lunedì 13 giugno 2016

Parentesi: Dog eat Dog




Un passo dopo il noir, uno prima del western: "Dog eat Dog", l'ultimo esaltante Schrader, restituisce l'amore e il piacere inenarrabile di far cinema credendo ancora nel cuore selvaggio dei propri personaggi. Nella nebbia, verso il destino del samurai, c'è un mondo grondante di bellezza e malinconia. Schrader è vivo, incazzato nero ed esilarante come mai.

The Neon Demon




Guardarsi allo specchio e innamorarsi del proprio riflesso: simbolismi d'accatto, piroette visive che saccheggiano Argento e De Palma, parabole che sfuggono il genere perché incastonate in uno sguardo così totalizzante da essere già confezionato per il marchio di fabbrica (NWR). Mi dispiace, ma sotto la patina di The Neon Demon non ho visto nulla, né disgusto, né paura, né violenza, né ardore e, cosa più grave, nessuna carne, nessun senso del sangue, nessun lavoro sulla pelle o sui demoni sottocutanei (grave per un film che dovrebbe essere una vera e propria esplosione organica). Permane il gusto di un gioco perverso che non sopravvive allo sguardo dell'altro, perché preoccupato solo di ostentare il proprio statuto d'autore.Tutto si fa oggetto, i personaggi si riducono a pedine di un teatrino della crudeltà che non ha armi per essere davvero crudele. E la riflessione sulla bellezza naufraga, si banalizza, muore immediatamente svelata da un mondo di dialoghi e situazioni che definire pretestuose sarebbe un eufemismo. E mentre ogni superficie si fa simbolo di un gioco chiuso, emerge un cinema sempre più arido (e scrive uno che aveva apprezzato alcuni film di Refn) che nasconde la propria mancanza d'immaginazione in immagini opache, seducenti, volte a negare qualsiasi libertà di sguardo.

mercoledì 18 maggio 2016

Mauro Santini - Fermo del tempo




Riconoscersi in un volto al punto di sdoppiarsi, smarrirsi in una nebulosa di immagini fino a scoprire, nell'altro, te stesso. In un mare di dissolvenze, il "fermo" è quel volto che si scioglie di continuo, che si apre al nostro sguardo disvelando tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Riguardando "Fermo del tempo" di Mauro Santini. https://vimeo.com/72885528

La foresta dei sogni di Gus Van Sant




Ci sono dei film palesemente imperfetti che smontare sarebbe facilissimo. Eppure, delle volte, questi stessi film "non riusciti" possono regalarti piccoli grandi momenti, attimi sfuggenti che s'insinuano dentro di noi al solo scopo di permanere. Il bistrattatissimo "La foresta dei sogni" di Gus Van Sant mi è parso proprio questo. Didascalico, apparentemente univoco, rischiosissimo, ma scritto, girato, pensato con lo sguardo di chi piange e trema di fronte alle proprie immagini. E' un film di assonanze, di richiami, un - non ovvio - gioco di rimbalzi, un continuo alternarsi tra i sentieri tortuosi di una foresta vivente e le complicazioni infinite di una relazione in dissolvenza. Accusarlo di freddezza mi pare fuorviante, questa è un'opera fatta di lacrime, carne e sangue, dove tutto è detto e ridetto, tutto è sottolineato, eppure...eppure c'è qualcosa che continua a sfuggire, che non è il semplice "giallo del fantasma" ma un'idea che eccede sempre la presunta unilaterialità del film. Un'idea quasi solarisiana, di una foresta/limbo creatrice di immagini e tempi, di un passato/presente/futuro che nascono come proiezione degli antichi alberi di un'ennesima selva oscura. Non solo la trita e ritrita metafora di uno smarrimento esistenziale, ma la consapevolezza di non essere altro che fantasmi, immagini, apparizioni fugaci che non possono fare a meno dello stesso copione, delle stesse battute, delle stesse coincidenze impossibili. Come i personaggi di Matthew McConaughey/Ken Watanabe che, nelle loro elementari dicotomie, sono assolutamente ciò che ti aspetteresti, come se non ci fosse scampo poi dalla proiezione automatica della foresta. E sostenere che questo film sia lontano anni luce dall'universo filmico di Gus Van Sant mi sembra davvero una follia. Potremmo passare ore a parlare di tutto ciò che non funziona ne "La foresta dei sogni" ma per me non cambierebbe nulla: vive il ricordo di qualcosa che rimane, nonostante tutto, o forse, proprio grazie a questo tutto.

Due cose su Alienween




Tra le cose recuperate al Future, un posto a parte merita Alienween di Federico Sfascia. Cinema di puro, appassionatissimo artigianato che riporta alla mente meraviglie splatter anni '80, che guarda a Raimi e al primo Cronenberg senza paura di precipitarsi in un melò fieramente fuori tempo massimo. In Alienween percepisci tutto il gioco del fare cinema tra amici, con purezza, freschezza e goliardico, esaltante ludismo. Ennesima dimostrazione di come il cinema "fatto in casa", se nelle mani giuste, possa rappresentare l'ultimo avamposto delle nostre gioie cinefile. Anche perché, durante la visione, hai davvero la sensazione bellissima di sentirti a casa.

Un sogno lungo un giorno




Disegni di luce, piroette di colore, forme scintillanti di vero amore.
Un sogno lungo un giorno, capolavoro estremo di Francis Ford Coppola, rappresenta il punto di convergenza massimo tra il cinema classico e quello del futuro: qui c'è già la virtualità del nostro presente, c'è già Holy Motors, c'è già il ventunesimo secolo che, nell'arco di un canzone di Tom Waits, si sposa con la Hollywood di Minnelli & Co. Un sogno lungo un giorno è un film di magici incontri, di sguardi indietro che rivelano il loro statuto di profezia (è o non è questo un dono dal futuro?). Siamo in una fiaba ipercinetica che, come un razzo impazzito, si lancia nel cuore stesso del cinema.
Mai un film è stato così macchina del tempo, così viaggio interstellare: d'altronde quello di Coppola è un musical di fantascienza sapientemente iscritto all'interno di una storia d'amore. Storaro disegna emozioni con la luce, crea set immaginari e impossibili, sovverte il giorno e la notte, fa del cinema una magnifica ossessione.
Il cibo è incollato ai piatti, il sole è la potente, inebriante luce di un proiettore, il mondo si trova tutto in un teatro di posa: il massimo dell'artificio, mescolato ai cromatismi estremi della nostra immaginazione (qui vedi Fellini, lì vedi Fassbinder), regala la più piccola, la più universale delle storie d'amore.
Ogni teoria crolla e ti scopri, ancora una volta, a credere negli ennesimi lui e lei che devono, necessariamente, tornare insieme. Il più grande "fallimento" di Coppola è in fondo il suo film più illuminato, più definitivo, più "ultimo", perché ci ricorda come ogni "storia del cinema" sia in realtà una storia di luce, una storia d'amore.

Peggy Sue si è sposata




C'è sempre uno scarto inevitabile all'interno della filmografia di Francis Ford Coppola, quello tra il desiderio di reversibilità e l'impossibilità di alterare il proprio destino. "Peggy Sue si è sposata", in fondo, è una fiaba che ci proietta indietro nel tempo, nell'improvvisa, esaltante prospettiva di rivivere il nostro passato. Il meccanismo del what if è portato alle estreme conseguenze per regalare a Peggy piccoli momenti, ipotesi altre, realizzazioni dei propri sogni repressi. Il desiderio di avere altro tempo, nell'età giusta, al momento giusto, di poter reinventare la propria vita, di ricominciare da capo...Coppola, cineasta immenso dal cuore amaro, sa bene che questo what if è un "sogno lungo un giorno", un mese, forse solo il tempo di un grande sonno. Sa che il passato di Peggy, gli anni '60, sono una magnifica ricostruzione cinematografica, un grande, sfavillante set, un nostalgico regno dei fantasmi. L'immaginario ha sovvertito la realtà, la grande rêverie cinematografica è sempre pronta a riscrivere la storia, le mode, i costumi, colorando una gioventù perduta, quella delle grandi infatuazioni, dei primi baci, dei balli di una volta...proprio per questo, allora, vale la pena vivere questo sogno, senza temere le conseguenze, per poi risvegliarsi e forse amare ancora di più ciò che si ha. In fondo, ancora una volta, non è "Peggy Sue" l'ennesimo, grande film di Coppola sul cinema stesso e sul suo desiderio di regalarci un altro tempo, un'altra vita, un'altra giovinezza?

mercoledì 20 aprile 2016

Veloce come il vento




Che bello quando il cinema italiano riesce a riprendere il gusto della velocità, il sapore della ruggine, la fatica dello sforzo "impossibile", mentre, con far tachicardico, si modella su sangue e sudore. Ecco allora che diviene muscolare e ipercinetico senza mai dimenticare la propria umanità: "Veloce come il vento" è un film organico, fatto di carne e ossa, passioni smodate e gloriosi sentimentalismi retrò. Si proietta in volo creando coreografie a quattro ruote, improvvisi crash che dilaniano intere esistenze. Esistenze che rinascono sempre come luci in fondo al tunnel. Il cinema italiano ha un bisogno disperato di film come "Veloce come il vento" perché, per sopravvivere, deve far leva sulla ricchezza del genere, su Eroi e archetipi, con tutto l'armamentario di crismi che questo comporta. Il film di Rovere sa farsi ora sentimentale, ora patico, ora retorico, sa perfino stonare ed eccedere, ma con una passione e un credo incrollabile nei confronti dei propri personaggi e delle proprie emozioni. Prima di essere sportivo, è un cinema visceralmente umanista che conosce il dolore, non cercando di addomesticarlo, ma facendosi guidare, manovrare da esso. Perché sa che il dolore solo salverà questi eroi lontani dal naufragio.

Christine - La macchina infernale




Sono passati quasi trent'anni, l'immaginario feticistico dell'automobile ha assunto nuove forme e corpi, fino a gettarsi nei grovigli di incubi cyberpunk. Abbiamo avuto crash dell'immaginario filmico, esplosioni di eros meccanico, attrazioni irresistibili di nuove, tecnologiche carni. Eppure Christine - La macchina infernale di John Carpenter mi pare ancora il grado zero di questa folle, irresistibile libidine meccanica. Una grande storia d'amore e morte d'altri tempi che perverte l'amore e perverte la morte, un horror scintillante che porta in sé tutta la rabbia, il fulgore, l'immaginario kitsch di un decennio irripetibile. Christine è il mondo straordinario, l'ipotesi di un'altra vita, la possessione demoniaca che assedia lo studentello nerd sovvertendolo, ribaltandolo, trasformandolo in tutto ciò che non è. Ancora, Christine è un film sulla perdita della propria identità, sul desiderio che prende vita, s'insinua nella nostra carne, assedia il nostro cervello e, al culmine del piacere, ci uccide. Ogni sogno, del resto, richiede sempre un sacrificio finale, una morte esemplare. Quella di Christine è una possessione che nasce dall'ossessione, dalla cura metodica, dall'unico amore estremo e fatale, quello impossibile. E Christine, assieme all'autocisterna assassina di Duel, è il serial killer della strada più spietato che si possa immaginare.

lunedì 28 marzo 2016

Batman V Superman




Dall'identificazione del supereroe come pura mitologia contemporanea, dalla visione apocalittica di un mondo forgiato da un male inestirpabile, dallo scontro tra angeli e demoni, da tutto questo parte il cupissimo Batman V Superman. Snyder, stilizzato, altisonante, fracassone ma intelligentemente iconico, regala una prima ora e mezza di puro, affascinantissimo intrattenimento, per poi cadere miseramente in un terzo atto che sfigura, abbatte, distrugge ogni merito, ogni interesse, ogni empatia (a partire dal rovesciamento nemici-amici causato da un incredibile, imbarazzante caso di omonimia). Ed è allora che il film naufraga vertiginosamente e la noia prende ancora una volta il sopravvento. p.s. di fronte a Henry Cavill, Ben Affleck - in stato di grazia - è l'attore più espressivo del mondo.

quell'incredibile leggerezza del corpo




ciò che manca di più è quell'incredibile leggerezza del corpo, che non è solo il corpo attoriale ma lo stesso corpo filmico. Tutto sembra esente dal peso e dalla forza di gravità. Hai quasi l'impressione che Gene Kelly possa iniziare a volare da un momento all'altro e non ti sorprenderesti, perché è quello che chiedi, è quello che credi, è quello che speri. Si può, si deve rivedere Ballando sotto la pioggia, per tornare a credere nella forza e nella grazia infinita dello sguardo: il mondo intero si ferma in una canzone, avvolto in una pellicola di sapone che sconfigge il tempo. Sempre e comunque il cinema più bello del mondo.

Brooklyn




A ripensarci, Brookyln è un film di un candore fuori tempo massimo, di un'ingenuità-classicità da assaporare frame dopo frame per tornare a sentirsi a casa. Per chi ama abitare nei terreni più tradizionali del melò, Brooklyn è una vera goduria: tanto è trattenuta - e forse meno interessante - la prima parte, quanto si lascia andare la seconda, che esplode in una giostra di sentimenti, in un andirivieni tipico del più consono dei melodrammi. Il bello di "Brooklyn" è che l'unico referente del film, molto più che la Storia, è il cinema stesso: cavalcare gli archetipi, ripensare la vita a partire dalle coordinate del melò, costruire una galleria di figurine che al cinema, solo al cinema, possono continuare a porsi come capisaldi, bussole orientative, guardiani stessi della visione. Ma dietro la patina rassicurante, c'è un discorso non così ovvio sulla formazione dell'identità come ciò che eccede i contesti di appartenenza (le città e poi, ovviamente, il cinema stesso). E infine, sotto quest'apparente innocenza, si nasconde un mondo di bassezze morali ed egoismi (da cui non è esente neppure la protagonista). E poi, quando la macchina da presa di John Crowley incornicia un primo piano della magnifica Saoirse Ronan, il film inizia a vibrare al di là della sua cornice.

Weekend di Andrew Haigh




"Quello che c'è di più profondo nell'essere umano è la pelle."
(Paul Valéry, L'idea fissa)

Reduce dalla visione del bellissimo Weekend di Andrew Haigh che avevo già infinitamente amato per 45 anni. Questo film così dolce, così fragile, così delicato, scivola nell'intimità delle mura domestiche, assorbe i tentennamenti instabili del giorno e della notte, si lascia corteggiare dagli sguardi di un incontro improvviso, dalle parole importanti e, soprattutto, da quelle superflue. Haigh ha una visione epidermica, è attratto dai corpi e dalle loro torsioni, dal desiderio e dal bisogno di una carezza, di un abbraccio, di un sorriso, perfino di una lacrima. E' intimo, ravvicinato, senza essere mai invasivo. Hai l'impressione che la sua macchina da presa sappia amare e voler bene, sappia "toccare" i suoi corpi e restituirne tutto il calore: il codice morale di Haigh è quello di un'inesauribile, preziosissima tenerezza. Tenerezza che può conoscere infelicità e nefandezze, sospensioni e fischi, ma non si compiace, non si glorifica, rimane lì, ancorata alle sue passioni e alle sue attese. Ripensavo al così lontano, così vicino Philippe Garrel, a quando si dice che il suo è un cinema che inscena momenti della vita, attimi di passaggio che si accendono e si spengono nella mente. Qualcosa di non necessariamente ritornante, ma che era lì, per un giorno, una settimana o un anno, e allora sembrava tutto, pareva in grado di motivare ogni cosa.
E poi, all'improvviso, è svanito, proprio com'era arrivato.
Dissolto nella mente, come un fantasma sbiadito.
Un treno se ne va, eppure qui la storia è sempre destinata a ricominciare da capo, con l'ascolto delle confessioni di una mattina in cui, imbarazzati ma un po' eccitati, si aveva voglia di parlare, di raccontare e far l'amore, pronti ad accogliere l'altro nella nostra vita.

martedì 23 febbraio 2016

Fuocoammare di Rosi




Le solenni sottoesposizioni di "Fuocoammare", i suoi neri, le sue tribolazioni, il suo stesso digitale...le notti strazianti di una Lampedusa che si vorrebbe vedere da vicino, sempre più da vicino, alla ricerca di una piccola, lontana luce che squarci l'oscurità. Quella di Lampedusa non è una storia, ma un contenitore di storie (proprio come succedeva in Sacro Gra): "Fuocoammare" è un'opera liquida come l'acqua in cui, imperterrito, scivola il film stesso...rivedo le immersioni infinite che mi fanno pensare a un altro mondo, a un "portale" per ricominciare a vedere nel buio subacqueo (o, forse, per coprirsi gli occhi). Lo sguardo triste, dolente, quasi inaccessibile del migrante, esplode in tanti piccoli frammenti che sembrano più eterogenei che mai, eppure...eppure si incontrano, al di là delle immagini stesse. L'occhio dell'altro, gonfio di lacrime e dolore, si riflette nell'occhio pigro del piccolo Samuele...i corpi agonizzanti reagiscono (o agiscono assieme) a una stanza da letto con i santini di Padre Pio e della Madonna. "Fuocoammare" è un film sui dialoghi impossibili, sul cinema come atto stesso che scaturisce dall'esperienza, dal dolore ma, soprattutto, dall'amore. Dall'amore di Rosi per le storie che racconta, dal rispetto di un codice morale dello sguardo che pur mette a dura prova (ammetto, ad esempio, che mi sarebbe piaciuto non vedere tre precise inquadrature del film...facile immaginare di quali si tratti). Ma anche queste tre inquadrature, strutturalmente oscene, si inseriscono nella sincerità di chi, ancora una volta, sa cosa significa parlare all'occhio e al cuore di chi guarda.

giovedì 18 febbraio 2016

Addio Andrzej, ti ho amato come pochi




Se devo pensare a un regista che mi ha educato alle immagini, che ha plasmato la mia idea stessa di vedere - e di fare - cinema, il nome di Andrzej Żuławski ritorna sempre. L'ho scoperto come molti altri, guardando quel "Possession" che rappresentò per me, appena diciottenne, un autentico shock visivo ed emotivo. Non riuscivo a togliermi dalla testa quel terremoto di immagini, il corpo epilettico di Isabelle Adjani, gli sguardi oscuri di Sam Neill. Erano immagini continuamente ritornanti, dalla forza così dirompente, così vitale, da far traballare qualsiasi formato. Poi, poco più tardi, mi sono reso conto che Zulawski non era solo "Possession". Ho intrapreso un viaggio all'interno del suo cinema, con gli occhi pieni di un ironico, strutturale terrore, come se fossi sempre pronto a un ribaltamento radicale di ogni schema a cui era abituato. Zulawski mi ha insegnato a guardare, dal suo folgorante esordio "La terza parte della notte", passando per le oscurità libidinose del "Il diavolo", per melò furibondi come "L'importante è amare", per capolavori anarchici in grado di rileggere perversamente Dostoevskij come "Amour Braque" (dove la folle, vibrante, debordante poetica di Zulawski ritrovava nel musical la sua stessa essenza). Il suo era un cinema continuamente alla ricerca di un altro spazio, di un altro tempo, all'interno stesso delle inquadrature. E poi ci furono "La femme publique", "La sciamana", "Le mie notti sono più belle dei vostri giorni", "La nota blu" e il clamoroso, sottovalutatissimo "La fidelitè" (oltre all'opera mai vista, introvabile e bramata per tanto tempo, "Boris Godunov", quella stessa opera che mi auguro di vedere al più tardi possibile, per rimanere fermo nell'attesa che debba ancora vedere un altro Zulawski).
Infine arrivò il film che più di tutti rappresentò una vera e propria bomba emotiva, il work-in-progress come radice strutturale del suo stesso cinema: "Sul Globo d'Argento" che rimane, ancora oggi, tra le cose più belle, più strazianti che abbia mai visto. Alla visione di una storia che si ripete senza varianti, di una parabola cristologica gettata nel sangue di un altro mondo, sono tornato tante volte. Perfino vedendo il monumentale "Hard to Be a God" di German non potevo fare a meno di ripensare al mio amato, ossessivo globo d'argento, che era ormai divenuto il magma stesso da cui immaginavo nascessero tutte le storie zulawskiane.
Poi, pochi anni fa, ebbi l'incredibile possibilità di intervistarlo qui a Roma, assieme a una piccola squadra di Point Blank, in un albergo vicino al cinema Trevi. All'inizio ci guardava in maniera un po' ostile, lui che era famoso per essere pignolo e, spesso, intrattabile con la stampa. Poi una domanda legata alla luminosità di "Possession" lo entusiasmò tanto da "fidarsi" di noi. Ricordo solo che l'ultima frase che mi disse, dopo l'intervista, mentre io gli raccontavo che avevo appena iniziato a lavorare a un film, fu in italiano: "In bocca al lupo per vostra carriera di registi". E fu un regalo bellissimo.
Ci ripenso oggi che è scomparso, subito dopo aver girato un film come "Cosmos" che è stato l'unico in tutta la sua filmografia a lasciarmi non poche perplessità. Ma sapevo che stava già progettando un altro film e l'attesa, la stima infinita, l'attrazione per le sue immagini vive e carnali, non erano mai diminuite.
La scomparsa di Zulawski lascia oggi un'incredibile vuoto non solo nel mondo del cinema, ma nei miei stessi occhi, sempre ingordi e famelici di nuove, assurde immagini di quell'alieno polacco che mi ha fatto sognare.
Addio Andrzej, ti ho amato come pochi.

The Hateful Eight - il nuovo Tarantino




Il Cristo misericordioso è ormai ricoperto di neve, al magistero della pietà viene immediatamente contrapposto quello della giustizia che è un implacabile, anaffettivo tribunale della vendetta. "The Hateful Eight", il più politico dei film di Tarantino, è un gioco al massacro in interni che si scioglie lentamente nella giostra esilarante dell'intrigo e del sospetto, dove ogni ipotesi identitaria viene meno. Con un'intuizione geniale, Tarantino utilizza l'Ultra Panavision 70 ribaltandone l'idea di base, ci fa credere all'inizio di assistere a un vertiginoso film di spazi aperti, per poi rinchiudersi all'interno dell'emporio di Minnie. Una galleria di volti allungati, uno spazio unico concepito come il luogo chiave di una tragicommedia tutta umana. Tra film processuale, giallo à la Agatha Christie e risonanze progettuali da La Cosa di carpenteriana memoria, l'ultimo film di Tarantino è la geniale mise en abyme di tutto il suo cinema, l'eversivo corollario della forza selvaggia e brutale su cui si fonda la giustizia. The Hateful Eight potrebbe essere ambientato nel Medioevo come a un giorno dall'Apocalisse e non farebbe differenza: a Tarantino interessano uomini, spazi e tempi, deflagrazioni improvvise dell'azione, slittamenti temporali che, come in un giallo d'altri tempi, svelano i tasselli mancanti del complotto. E alla fine non rimane che annientare tutto ciò che abbiamo visto, tutti gli ideali e le menzogne degli otto, per scivolare via in un estasi di vomito e sangue. Esaltante, come il corpo filmico di Jennifer Jason Leigh, sottoposto a una demenziale via crucis della violenza: pugni, calci, lividi e ferite, fino a essere completamente ricoperta da un mare di sangue...tra il demonio e la strega, con Carrie nel cuore...non si può che ridere e morire, o aspettare l'oltretomba mentre si legge la lettera che ci ha salvato la vita.

Immaginari unici: intorno al fenomeno J.J.Abrams




Piccolo appunto, vedendo l'ultimo, deludente Star Wars. Incredibile e preoccupante come ormai J.J.Abrams abbia uniformato due immaginari visivi distanti anni luce come quelli di Star Trek e Star Wars. Le differenze si appiattiscono, tutto rientra ai margini di uno sguardo sempre più onnicomprensivo, sempre più totalizzante, sempre più asfittico...remeake che sono anche seguiti, che guardano all'originale rintracciando l'epica del già-visto, che omaggiano e tradiscono, alla ricerca di una nuova, furbissima vita. E, nonostante Abrams abbia praticamente rivoluzionato tutta la linea temporale di Star Trek provocando l'ira di tanti fan, l'operazione a mio avviso funzionava assai meglio che in Star Wars perché, paradossalmente, ritrovava una propria indipendenza

Poche devote parole su Hereafter




Hereafter: l'altrove di Clint Eastwood è il cinema, eterno regno di fantasmi alla ricerca di un piccolo atto d'amore. A una nuova visione, Hereafter continua a essere uno dei titoli chiave dell'ultimo decennio. Immenso.

Little Sister




Amo molto il cinema di Hirokazu Kore-eda eppure, mi dispiace dirlo, questa volta c'è qualcosa che non mi ha convinto. "Little Sister", melò trattenuto e densissimo come piace a me, è un'opera elegante, raffinatissima e davvero delicata. Ma, per la prima volta nel suo cinema, non sono riuscito ad addentrarmi in questa delicatezza: tutto mi sembrava troppo costruito, troppo studiato, meno sincero, meno sentito, meno vero del solito. Mi è sembrato un film in cui Kore-eda gioca a fare Kore-eda, perdendo progressivamente la commovente spontaneità che aveva caratterizzato tanti suoi film. Che poi di sequenze bellissime ce ne sono, ma il problema è, per una volta, più d'insieme, più strutturale...sicuramente lo vorrei rivedere, ma ecco, l'impressione è che questo piccolo "Little Sister" se ne vada via senza lasciare poi chissà quale traccia

Primi appunti su Knight of Cups




"Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto."
(Prima Lettera ai Corinzi, capitolo 13, San Paolo).

Sorprendente e radicale l'ultimo sconvolgente Malick.



Ricomporre mondi perduti, ricostruire l'idea stessa di un uomo, reinventare il legame tra noi e il mondo, fino ad allestire un nuovo insensato girotondo: mai stato così oscuro Malick che porta il suo cinema tra la gente, che fotografa le superfici alla ricerca disperata di una scintilla che è sempre da un'altra parte. Tra cielo e terra, si sprofonda in acqua, richiamati da un altrove lontano, senza tempo, senza durata: la materia si astrae e non rimangono che i sogni nei sogni e il ricordo vaporoso del bambino che eravamo. La nostalgia irrequieta dell'albero della vita si fa allucinazione vertiginosa, un incubo da cui il principe deve svegliarsi per poter tornare a vivere. "Knight of cups" mi è parso subito come l'opera definitiva, terribile e potentissima, di Malick sull'oblio, condizione esistenziale e fondativa dell'uomo stesso...che poi è il suo stesso moto vitale, l'inizio e la causa del nuovo pellegrinaggio.


ciò che rimane è già destinato a partire sui canyons di hollywood



occhi puntati sulle cose, alla ricerca commovente di una luce altra, di una grazia inaccessibile, di un reminescenza improvvisa scolpita nella patina pubblicitaria del mondo. In attesa di poterlo rivedere e scriverne in maniera più approfondita, mi convinco sempre di più che Knight of Cups sia il film definitivo sulle immagini e sulla loro stessa negazione (come se lo statuto ontologico di ogni immagine e, dunque, di ogni uomo fosse l'oblio: questo il terrore più profondo a cui è giunto, miracolosamente, il cinema malickiano).


come angeli in alta definizione, immemori di un colore caldo che possa tornare ad abbracciare le immagini, perduti in un mondo che non si vuole più.


"Tutto è già esistito. La vita mi pare un'ondulazione priva di sostanza. Le cose non si ripetono mai, ma sembra che noi viviamo nei riflessi di un mondo passato, di cui prolunghiamo gli echi tardivi." (E.M. Cioran, "Lacrime e Santi")

Creed




scoprirsi ammaliati dal fascino innegabile del racconto, dimenticare completamente tutto il resto ed essere ancora una volta sul ring: là dove il testosterone incrocia la tenerezza, dove il cinema sportivo riscopre l'umanità senza bandire la vecchiaia, dove il match diventa, letteralmente, una sfida per la sopravvivenza. "Creed" è il cinema che non mi stuferò mai di vedere, perché lascia addosso il piacere stesso della più classica, della più cristallina delle narrazioni. Riesplora il mito senza intellettualismi, senza valleità, ma restituendone solo lacrime e sudore: la boxe come gioco di sangue e corpi, dove riscrivere la storia e ricominciare a vivere.
Sly non è mai stato così struggente.
Evviva Stallone, evviva Rocky e lunga vita a Creed!
(da domani, dicevo, mi faccio pugile).

The Revenant




Anche negli spazi aperti e innevati fotografati dal re della luce, il cinema di Alejandro González Iñárritu è una gabbia priva di ossigeno. "Revenant" è intrappolato in uno sguardo chiuso che, tra un pieno e sequenza e l'altro, tra un virtuosismo di macchina e un controluce, non riesce mai a emanciparsi da se stesso. Tutto è perfetto, tutto è costruito a menadito e non c'è niente che possa scolpire il meccanismo ineludibile della messa in scena. Perfino là dove la vita arranca in estreme condizioni di sopravvivenza, non c'è cuore, empatia, non c'è un sussulto che ci faccia dimenticare la pesante struttura cinematografica che c'è dietro. Il problema è che, alla fine, ammaliati da una giostra di peripezie tecniche, ciò che manca è proprio il film. E non bastano le sorprendenti prove fisiche di Di Caprio e Tom Hardy: "The Revenant" rimane un revenge-movie a tesi, colmo di potenzialità non sfruttate che, mentre indaga sulla brutalità della natura umana, non cede ad altra tentazione se non quella di specchiarsi e piacersi un mondo. E alla fine rimane un vuoto che nemmeno uno sguardo in macchina può colmare.

L'ombre des femmes di Philippe Garrel




Dei pochi titoli recuperati al festival di Rotterdam, quello che ho amato di più è il sorprendente "L'ombre des femmes" di Philippe Garrel.Ascetico, essenziale, fluido e raccolto, intriso di vita e menzogna, come se una non potesse fare a meno dell'altra. Garrel ormai gira piccoli (grandi) film che durano poco più di un'ora ma potrebbero durarne anche venti: non cambierebbe assolutamente nulla. Il suo cinema freme, tentenna, soffre, esattamente come un organismo vivente. La sua macchina da presa scrive attraverso le emozioni da cui è sorprendentemente posseduta.
Non c'è mai un ritardo del cinema sulla vita, ma una simultaneità tale da emanare una spontaneità, una freschezza, una sincerità che commuovono. Garrel è (ed è sempre stato) libero, già nel mondo, tra cose e persone...un uomo, una donna, nient'altro che una sfumatura, un gemito...poi un'altra donna che si dissolve - o meglio ancora, scompare dal film - come fosse l'istante chiave di un tracciato impossibile.
Momenti di un cinema che pare sempre più "fatto in casa", nei ritagli di tempo, pronto a catturare e amare tutto ciò che passa sotto il suo occhio. Tasselli, piccole parti di percorsi esistenziali che non sai mai dove finiranno: un film sempre al presente, completamente disinteressato a passato e futuro (che sono ombre, fantasmi, inutili fantasticherie), capace di rifiutare qualsiasi intellettualismo per gettarsi pienamente nel suo fiero, gentile bianco e nero (come l'ultimo battito cardiaco di una nouvelle vague più viva che mai).
E alla fine ti trovi perso tra le piccole cose della vita, pronto a ricordare le infinite strade parallele che non hai mai percorso. Tutto semplicemente accade, se ne va e ritorna, come un sussulto che si erge a voce gioiosa, sublime attimo d'incanto, in uno dei più bei finali del suo cinema.
Un sorriso che è un istante, eppur rimane incorniciato nel tempo.