venerdì 20 febbraio 2015

Il mito di Timbuktu




Cinema morale prima di tutto che, in giorni di stress mediatico e terrorismi d'informazione, ha il grande pregio di saper tornare semplicemente - essenzialmente - all'uomo.
Contro ogni facile retorica, contro ogni spettacolarizzazione perversa dell'immagine, contro ogni fascinazione-ostentazione ideologica della violenza, "Timbuktu" si apre sulla corsa di una gazzella e torna al momento che precede lo sparo.
In quella sospensione, in quella rottura, in quel medesimo frangente Sissako intercetta il momento stesso dell'irruzione, dell'insediamento dell'Altro all'interno di un mondo che conserva il sapore del mito. La morte interrompe bruscamente la leggenda. Eppure il gesto filmico di Sissako, dove estetica e morale sono le stessa cosa, è sempre quello del passo indietro, del ritorno al cinema e al suo respiro, allo sguardo languido del singolo che precede oscenità e nefandezze di ogni tipo.
E' sempre più interessante l'istante sacro che anticipa la detonazione, perché sa bloccare il tempo, indagare le pulsioni, identificare traiettorie e discrepanze del reale. Il film vive di questi momenti bloccati nel tempo, in grado di scovare bellezze ancestrali perfino tra le macerie e i detriti dell'umanità.
"Timbuktu" è un esempio prezioso e rigorosissimo di un cinema volto a intercettare l'applicazione continua, pedissequa, terribile del Mito, che si reitera sempre, come una maledizione. E quando poi riflette sull'elaborazione dell'immagine di un video jihadista, innesca immediatamente i meccanismi della finzione e dei ruoli, in un training che riporta tutto, inevitabilmente, alla simulazione, alla recitazione, all'attore 2.0.
Ancora una volta, immagini, grazia e condanna del mondo.

lunedì 16 febbraio 2015

Mehr Licht - da Turner a Goethe




Mentre scrivo sul film di Leigh, sfoglio un vecchio libro su Turner che conservo a casa. Una dopo l'altra, osservo le immagini del pittore. Poi, all'improvviso, perso tra infinite melodie di luce, mi torna in mente "Il Sole è Dio", la sua ultima, celebre frase. Immediatamente vengo assalito da una grossa commozione ripensando all'amato Goethe che, sul letto di morte, con una voce che non oso nemmeno immaginare, disse: "Mehr Licht (più luce)".

La damigella di Turner




Rivedendo Turner di Mike Leigh mi soffermo su una delle sequenze più significative del film. Quando il corpo massiccio del pittore avvolge quello della damigella, consumando un veloce e animalesco orgasmo all'interno della propria dimora. Il movimento della camera arretra rigorosamente, con un carrello che si allontana, prendendo le distanze da un coito privo d'amore e tenerezza.
Questo allontanarsi dalla scena, questo sfuggire dal set, in qualche modo freddandolo, incorniciandolo, lasciandolo alla sua inevitabile prosecuzione, pare la cifra comune di tanto gelido cinema (come quando Haneke interpone uno spazio, una distanza, tra la camera e le sue figure, per congelarle e lasciarle andare al proprio destino). Eppure qui qualcosa si spezza: quando la sequenza pare terminata, uno stacco di montaggio ci costringe a riavvicinarci senza preavviso. Leigh torna su un campo più stretto, come se sentisse di non aver ancora detto tutto, come se avesse bisogno di uno sguardo pronto a riscaldare il mortuario quadro di consumazione.
La damigella sorride, facendo cambiare di segno la scena. Leigh si sofferma su una figura femminile fragilissima e riesce a donarle una dolcezza sconfinata. La damigella, consumata gradualmente dalla psoriasi, prova affezione, amore, perfino tenerezza nei confronti di quella figura che bofonchia e ringhia per tutto il film. Figura che non le regalerà mai una parola di gentilezza, impartendole solo ordini e sperma. Eppure sarà proprio lui a invocare la damigella sul punto di morte. Quello di Leigh si rivela allora un film caldo, che, nonostante tutto, ha piena fiducia nei singoli uomini, nei loro affetti e nei loro sentimenti.
La damigella, senza ottenere nulla in cambio, spia silenziosa i quadri del pittore, rimanendo nella casa che fu di Turner. Spesso si ha come la sensazione che vorrebbe parlare, ma esita e, reticente, non dice nulla. Abita il silenzio, perpetua le sue mansioni quotidiane.
E alla fine del film, quel luogo quieto e tranquillo in cui visse il pittore finisce per ospitare unicamente i quadri e quella donna. Donna che sembra quasi un'opera d'arte vivente, un lascito, un segno, un residuo tormentato d'amore e tristezza. E' adesso lei a illuminare di luce uno spazio disabitato.

mercoledì 11 febbraio 2015

Piccoli pezzi per grandi film
A Swedish Love Story




"A Swedish Love Story" continua a suscitare in me una dolcezza senza fine. Lo ricordo come se fosse un amico lontano nel tempo, ma vivissimo nella memoria. Opera delicata che assomiglia ai sogni di gioventù e ai primi, delicatissimi amori. Una lacrima, un sorriso, un bacio. Tutto qui. Il primo film di Roy Andersson è un dono prezioso e sussurrato, proprio come una poesia.

venerdì 6 febbraio 2015

Deflagrando in "Jupiter"




Potentissime deflagrazioni dell'immagine, velocità supersoniche che ci rendono dimentichi di corpi, masse e volumi, voli antigravitazionali diretti verso il cuore pop di un cinema inevitabilmente post. Quel "post" configura odissee interstellari, miti digitali, frontiere liquidate, nella gara olimpionica dello spettacolo sempre più roboante. Alle vette del caos la nostra intera visione sembra implodere e ritornare alle basi stesse del cinema: la meraviglia, la sorpresa, il trucco, la magia.
Penso a questo mentre assisto entusiasta a "Jupiter", nuovo e già bistrattatissimo film dei fratelli Wachowski. Inseguimenti e colluttazioni fanno disperdere le coordinate dell'immagine, trasformando l'intero cosmo in un set espanso e privo di cornici, come se ci trovassimo in un lisergico tripudio di suoni, luci e colori. Coreografie galattiche, navi stellari che sembrano corpi di danza, esplosioni cromatiche e vertigini metropolitane (la sequenza urbana con il primo, memorabile inseguimento): ecco come il digitale ha infine modificato il tempo del cinema, squarciando i confini materiali con febbrile, "leggero" dinamismo.
"Jupiter" è un'opera strutturalmente liquida per come fa affondare supporti e volumi. L'azione più comune è quella della caduta, il cui fondo viene sempre differito. Si cade da altezze stratosferiche ma non si muore, al massimo ci si proietta sul gorgo di una vertigine in cui continuare a cadere, "per gioco", oltre qualsiasi confine spaziale o materiale.
I Wachowski abbandonano le altisonanze del loro cinema, regalandoci un'incalzante space-opera per famiglie, che si apre a un susseguirsi ininterrotto di generosissime trovate visive. Eppure, dietro la patina da neoclassico di serie b, innescano protesi, modellamenti e sostituzioni a ogni corpo, come se la materia non bastasse più a se stessa. Senza perdersi nelle verbosità o nei didascalismi dei loro film precedenti, raccontano con inaudita leggerezza l'avvenuta colonizzazione dell'immaginario materiale e analogico. Immaginario, questo, soppiantato, messo da parte, logorato, da velocità digitali.



Con l'entusiasmo e l'ingenuità della sci-fi per famiglie anni '80, con amore sconfinato nei confronti di universi collaudati e definitissimi ("Star Trek" prima ancora che "Star Wars"), "Jupiter" è, in fondo, il film che avrei amato da bambino. Nel suo non prendersi troppo sul serio si rivela assai più complesso e stratificato di qualsiasi altro film dei Wachowski (basta vedere la sequenza del matrimonio per avere gran prova di di intelligenza compositiva, padronanza del gesto filmico e, ovviamente, ritmo narrativo).
D'altronde si tratta di una strepitosa space-opera che inscena il cuore più nero del capitalismo, allargando le distopie di gilliamiana memoria all'intero universo. Il cosmo come enorme piattaforma commerciale, popolato da cinici e brutali imprenditori interstellari. Il profitto come obiettivo aureo di ogni forma di aggregazione umana e non: gli esseri umani sono ridotti a valori economici, a pura, sterile, grigissima merce. I pianeti, a loro volta, hanno la funzione di semplici titoli in borsa e il tempo diviene massimo capitale dell'intero universo: il bene supremo. Bisogna guadagnare tempo, bisogna avere sempre più tempo. La sci-fi liquida e digitale non può dimenticarsi di questo fattore, oggi più che mai. Il tempo è il valore assoluto (ripenso alle brillanti intuizioni del cinema di Andrew Niccol, a "In Time" e ad altre distopie esemplari).
Paradossalmente, parlando di tempo, i Wachowski sanno porsi orgogliosamente fuori dal tempo: spesso ci si ritrova a vivere il film senza più avvertire stacchi di montaggio o durate interne. E' come se tutto divenisse un unicum in grado di avvolgerci (o sommergerci) nella sua essenza liquida. Il tempo dell'azione è totalmente frantumato e dilatato. Disorientato, disinibito, è lo spettatore stesso a vivere una sorta di cine-esperienza, in cui si scopre troppo lento per velocità incredibili. I nostri occhi cercano di stare al passo, ma si perdono continuamente in esplosioni di luci e colori. Ecco allora che "Jupiter" si colora di nostalgia e fa emergere un romanticismo d'antan, una fede incrollabile non tanto nella specie, ma nei singoli individui che, ancora una volta, fanno la differenza. Personaggi che subito diventano corpi attoriali con cui riscrivere la storia e reinnescare archetipi e piste narrative di altri tempi. Per l'appunto post (moderno-cinema-uomo).



martedì 3 febbraio 2015

Surviving Life di Svankmajer
"E' solo un sogno"




Sulle banconote il volto della donna amata.
Riti alchemici per vivere la second life dei propri sogni, storie d'amore prive di corpi, spettri baluginanti che riflettono il nostro passato, revenants alimentati solo dalla nostra mente: mani gigantesche che applaudono dalle finestre dei palazzi.
"E' solo un sogno" dice allora la donna dei sogni di "Surviving Life" al piccolo protagonista che, imbambolato, la osserva nel ruolo di figlio e d'amante.
Nuotando in una vasca di sangue
o in un liquido amniotico rosso saturo,
trasformato nel bambino-feticcio alla corte della vita,
l'impiegato Evzen trova finalmente la propria felicità.
Nuota di nuovo davanti alla donna, madre e amante, che gli concede sorrisi gentili e coccole materne: e alla fine il potere dell'immaginazione fa crollare la realtà unica e fittizia cui ci è stato imposto di credere.
L'ultimo film di Svankmajer lancia il suo dardo infuocato contro il cuore cieco e grigio del capitalismo più sfrenato, ben consapevole che bisogna entrare nei sogni altrui per salvarsi da questo mondo (e che un sogno, nessun sogno, potrà mai essere capitalizzato).


"La libertad" di Lisandro Alonso
Quando un film ci manca




ci si scopre così ad assistere alla giornata di un semplice taglialegna, dalle prime ore del mattino fino all'arrivo dell'oscurità. Il primo film di Lisandro Alonso, "La Libertad" è un'opera rudimentale, interessata ai singoli gesti quotidiani, che non vuole riflettere altro che se stessa e il suo protagonista: un uomo cullato dal grembo della natura, prigioniero di un'esistenza che si svolge sempre uguale, identica a se stessa, sempre già vissuta. Eppure, intorno a metà film, la telecamera si stacca dal pedinamento ossessivo del suo personaggio, per aprirsi a una soggettiva tra alberi secchi illuminati dalla luce solare. Sembra quasi un sogno in cui il protagonista è libero di vedere senza esser visto (la libertad del titolo), di esplorare piante e alberi con uno sguardo assai più lenticolare. Poi ritorna di nuovo a un mondo fatto di gesti ripetuti, azioni reiterate, albe e tramonti che si susseguono per l'eternità. Dalle immagini, neutrissime e distanti, emerge un senso di totale indifferenza della natura (e del film stesso): esempio perfetto di un'opera che ci manca, del disperato e vano tentativo di cercarla, di legittimarla, di fermarla, di oggettivarla. Eppure, tragicamente, l'esistenza scorre davanti ai nostri occhi assopiti e incantati (e cosa c'è di più tragico e umiliante di qualcosa che scorre dimentica di noi, nonostante siamo proprio noi a vederla?): più del film è interessante ciò che parte dal film (il nostro pensiero che aleggia tra le piante e i tempi morti di inquadrature lunghe, che non portano da nessuna parte, ma si perdono tra i suoni eterni della natura).