martedì 23 febbraio 2016

Fuocoammare di Rosi




Le solenni sottoesposizioni di "Fuocoammare", i suoi neri, le sue tribolazioni, il suo stesso digitale...le notti strazianti di una Lampedusa che si vorrebbe vedere da vicino, sempre più da vicino, alla ricerca di una piccola, lontana luce che squarci l'oscurità. Quella di Lampedusa non è una storia, ma un contenitore di storie (proprio come succedeva in Sacro Gra): "Fuocoammare" è un'opera liquida come l'acqua in cui, imperterrito, scivola il film stesso...rivedo le immersioni infinite che mi fanno pensare a un altro mondo, a un "portale" per ricominciare a vedere nel buio subacqueo (o, forse, per coprirsi gli occhi). Lo sguardo triste, dolente, quasi inaccessibile del migrante, esplode in tanti piccoli frammenti che sembrano più eterogenei che mai, eppure...eppure si incontrano, al di là delle immagini stesse. L'occhio dell'altro, gonfio di lacrime e dolore, si riflette nell'occhio pigro del piccolo Samuele...i corpi agonizzanti reagiscono (o agiscono assieme) a una stanza da letto con i santini di Padre Pio e della Madonna. "Fuocoammare" è un film sui dialoghi impossibili, sul cinema come atto stesso che scaturisce dall'esperienza, dal dolore ma, soprattutto, dall'amore. Dall'amore di Rosi per le storie che racconta, dal rispetto di un codice morale dello sguardo che pur mette a dura prova (ammetto, ad esempio, che mi sarebbe piaciuto non vedere tre precise inquadrature del film...facile immaginare di quali si tratti). Ma anche queste tre inquadrature, strutturalmente oscene, si inseriscono nella sincerità di chi, ancora una volta, sa cosa significa parlare all'occhio e al cuore di chi guarda.

giovedì 18 febbraio 2016

Addio Andrzej, ti ho amato come pochi




Se devo pensare a un regista che mi ha educato alle immagini, che ha plasmato la mia idea stessa di vedere - e di fare - cinema, il nome di Andrzej Żuławski ritorna sempre. L'ho scoperto come molti altri, guardando quel "Possession" che rappresentò per me, appena diciottenne, un autentico shock visivo ed emotivo. Non riuscivo a togliermi dalla testa quel terremoto di immagini, il corpo epilettico di Isabelle Adjani, gli sguardi oscuri di Sam Neill. Erano immagini continuamente ritornanti, dalla forza così dirompente, così vitale, da far traballare qualsiasi formato. Poi, poco più tardi, mi sono reso conto che Zulawski non era solo "Possession". Ho intrapreso un viaggio all'interno del suo cinema, con gli occhi pieni di un ironico, strutturale terrore, come se fossi sempre pronto a un ribaltamento radicale di ogni schema a cui era abituato. Zulawski mi ha insegnato a guardare, dal suo folgorante esordio "La terza parte della notte", passando per le oscurità libidinose del "Il diavolo", per melò furibondi come "L'importante è amare", per capolavori anarchici in grado di rileggere perversamente Dostoevskij come "Amour Braque" (dove la folle, vibrante, debordante poetica di Zulawski ritrovava nel musical la sua stessa essenza). Il suo era un cinema continuamente alla ricerca di un altro spazio, di un altro tempo, all'interno stesso delle inquadrature. E poi ci furono "La femme publique", "La sciamana", "Le mie notti sono più belle dei vostri giorni", "La nota blu" e il clamoroso, sottovalutatissimo "La fidelitè" (oltre all'opera mai vista, introvabile e bramata per tanto tempo, "Boris Godunov", quella stessa opera che mi auguro di vedere al più tardi possibile, per rimanere fermo nell'attesa che debba ancora vedere un altro Zulawski).
Infine arrivò il film che più di tutti rappresentò una vera e propria bomba emotiva, il work-in-progress come radice strutturale del suo stesso cinema: "Sul Globo d'Argento" che rimane, ancora oggi, tra le cose più belle, più strazianti che abbia mai visto. Alla visione di una storia che si ripete senza varianti, di una parabola cristologica gettata nel sangue di un altro mondo, sono tornato tante volte. Perfino vedendo il monumentale "Hard to Be a God" di German non potevo fare a meno di ripensare al mio amato, ossessivo globo d'argento, che era ormai divenuto il magma stesso da cui immaginavo nascessero tutte le storie zulawskiane.
Poi, pochi anni fa, ebbi l'incredibile possibilità di intervistarlo qui a Roma, assieme a una piccola squadra di Point Blank, in un albergo vicino al cinema Trevi. All'inizio ci guardava in maniera un po' ostile, lui che era famoso per essere pignolo e, spesso, intrattabile con la stampa. Poi una domanda legata alla luminosità di "Possession" lo entusiasmò tanto da "fidarsi" di noi. Ricordo solo che l'ultima frase che mi disse, dopo l'intervista, mentre io gli raccontavo che avevo appena iniziato a lavorare a un film, fu in italiano: "In bocca al lupo per vostra carriera di registi". E fu un regalo bellissimo.
Ci ripenso oggi che è scomparso, subito dopo aver girato un film come "Cosmos" che è stato l'unico in tutta la sua filmografia a lasciarmi non poche perplessità. Ma sapevo che stava già progettando un altro film e l'attesa, la stima infinita, l'attrazione per le sue immagini vive e carnali, non erano mai diminuite.
La scomparsa di Zulawski lascia oggi un'incredibile vuoto non solo nel mondo del cinema, ma nei miei stessi occhi, sempre ingordi e famelici di nuove, assurde immagini di quell'alieno polacco che mi ha fatto sognare.
Addio Andrzej, ti ho amato come pochi.

The Hateful Eight - il nuovo Tarantino




Il Cristo misericordioso è ormai ricoperto di neve, al magistero della pietà viene immediatamente contrapposto quello della giustizia che è un implacabile, anaffettivo tribunale della vendetta. "The Hateful Eight", il più politico dei film di Tarantino, è un gioco al massacro in interni che si scioglie lentamente nella giostra esilarante dell'intrigo e del sospetto, dove ogni ipotesi identitaria viene meno. Con un'intuizione geniale, Tarantino utilizza l'Ultra Panavision 70 ribaltandone l'idea di base, ci fa credere all'inizio di assistere a un vertiginoso film di spazi aperti, per poi rinchiudersi all'interno dell'emporio di Minnie. Una galleria di volti allungati, uno spazio unico concepito come il luogo chiave di una tragicommedia tutta umana. Tra film processuale, giallo à la Agatha Christie e risonanze progettuali da La Cosa di carpenteriana memoria, l'ultimo film di Tarantino è la geniale mise en abyme di tutto il suo cinema, l'eversivo corollario della forza selvaggia e brutale su cui si fonda la giustizia. The Hateful Eight potrebbe essere ambientato nel Medioevo come a un giorno dall'Apocalisse e non farebbe differenza: a Tarantino interessano uomini, spazi e tempi, deflagrazioni improvvise dell'azione, slittamenti temporali che, come in un giallo d'altri tempi, svelano i tasselli mancanti del complotto. E alla fine non rimane che annientare tutto ciò che abbiamo visto, tutti gli ideali e le menzogne degli otto, per scivolare via in un estasi di vomito e sangue. Esaltante, come il corpo filmico di Jennifer Jason Leigh, sottoposto a una demenziale via crucis della violenza: pugni, calci, lividi e ferite, fino a essere completamente ricoperta da un mare di sangue...tra il demonio e la strega, con Carrie nel cuore...non si può che ridere e morire, o aspettare l'oltretomba mentre si legge la lettera che ci ha salvato la vita.

Immaginari unici: intorno al fenomeno J.J.Abrams




Piccolo appunto, vedendo l'ultimo, deludente Star Wars. Incredibile e preoccupante come ormai J.J.Abrams abbia uniformato due immaginari visivi distanti anni luce come quelli di Star Trek e Star Wars. Le differenze si appiattiscono, tutto rientra ai margini di uno sguardo sempre più onnicomprensivo, sempre più totalizzante, sempre più asfittico...remeake che sono anche seguiti, che guardano all'originale rintracciando l'epica del già-visto, che omaggiano e tradiscono, alla ricerca di una nuova, furbissima vita. E, nonostante Abrams abbia praticamente rivoluzionato tutta la linea temporale di Star Trek provocando l'ira di tanti fan, l'operazione a mio avviso funzionava assai meglio che in Star Wars perché, paradossalmente, ritrovava una propria indipendenza

Poche devote parole su Hereafter




Hereafter: l'altrove di Clint Eastwood è il cinema, eterno regno di fantasmi alla ricerca di un piccolo atto d'amore. A una nuova visione, Hereafter continua a essere uno dei titoli chiave dell'ultimo decennio. Immenso.

Little Sister




Amo molto il cinema di Hirokazu Kore-eda eppure, mi dispiace dirlo, questa volta c'è qualcosa che non mi ha convinto. "Little Sister", melò trattenuto e densissimo come piace a me, è un'opera elegante, raffinatissima e davvero delicata. Ma, per la prima volta nel suo cinema, non sono riuscito ad addentrarmi in questa delicatezza: tutto mi sembrava troppo costruito, troppo studiato, meno sincero, meno sentito, meno vero del solito. Mi è sembrato un film in cui Kore-eda gioca a fare Kore-eda, perdendo progressivamente la commovente spontaneità che aveva caratterizzato tanti suoi film. Che poi di sequenze bellissime ce ne sono, ma il problema è, per una volta, più d'insieme, più strutturale...sicuramente lo vorrei rivedere, ma ecco, l'impressione è che questo piccolo "Little Sister" se ne vada via senza lasciare poi chissà quale traccia

Primi appunti su Knight of Cups




"Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto."
(Prima Lettera ai Corinzi, capitolo 13, San Paolo).

Sorprendente e radicale l'ultimo sconvolgente Malick.



Ricomporre mondi perduti, ricostruire l'idea stessa di un uomo, reinventare il legame tra noi e il mondo, fino ad allestire un nuovo insensato girotondo: mai stato così oscuro Malick che porta il suo cinema tra la gente, che fotografa le superfici alla ricerca disperata di una scintilla che è sempre da un'altra parte. Tra cielo e terra, si sprofonda in acqua, richiamati da un altrove lontano, senza tempo, senza durata: la materia si astrae e non rimangono che i sogni nei sogni e il ricordo vaporoso del bambino che eravamo. La nostalgia irrequieta dell'albero della vita si fa allucinazione vertiginosa, un incubo da cui il principe deve svegliarsi per poter tornare a vivere. "Knight of cups" mi è parso subito come l'opera definitiva, terribile e potentissima, di Malick sull'oblio, condizione esistenziale e fondativa dell'uomo stesso...che poi è il suo stesso moto vitale, l'inizio e la causa del nuovo pellegrinaggio.


ciò che rimane è già destinato a partire sui canyons di hollywood



occhi puntati sulle cose, alla ricerca commovente di una luce altra, di una grazia inaccessibile, di un reminescenza improvvisa scolpita nella patina pubblicitaria del mondo. In attesa di poterlo rivedere e scriverne in maniera più approfondita, mi convinco sempre di più che Knight of Cups sia il film definitivo sulle immagini e sulla loro stessa negazione (come se lo statuto ontologico di ogni immagine e, dunque, di ogni uomo fosse l'oblio: questo il terrore più profondo a cui è giunto, miracolosamente, il cinema malickiano).


come angeli in alta definizione, immemori di un colore caldo che possa tornare ad abbracciare le immagini, perduti in un mondo che non si vuole più.


"Tutto è già esistito. La vita mi pare un'ondulazione priva di sostanza. Le cose non si ripetono mai, ma sembra che noi viviamo nei riflessi di un mondo passato, di cui prolunghiamo gli echi tardivi." (E.M. Cioran, "Lacrime e Santi")

Creed




scoprirsi ammaliati dal fascino innegabile del racconto, dimenticare completamente tutto il resto ed essere ancora una volta sul ring: là dove il testosterone incrocia la tenerezza, dove il cinema sportivo riscopre l'umanità senza bandire la vecchiaia, dove il match diventa, letteralmente, una sfida per la sopravvivenza. "Creed" è il cinema che non mi stuferò mai di vedere, perché lascia addosso il piacere stesso della più classica, della più cristallina delle narrazioni. Riesplora il mito senza intellettualismi, senza valleità, ma restituendone solo lacrime e sudore: la boxe come gioco di sangue e corpi, dove riscrivere la storia e ricominciare a vivere.
Sly non è mai stato così struggente.
Evviva Stallone, evviva Rocky e lunga vita a Creed!
(da domani, dicevo, mi faccio pugile).

The Revenant




Anche negli spazi aperti e innevati fotografati dal re della luce, il cinema di Alejandro González Iñárritu è una gabbia priva di ossigeno. "Revenant" è intrappolato in uno sguardo chiuso che, tra un pieno e sequenza e l'altro, tra un virtuosismo di macchina e un controluce, non riesce mai a emanciparsi da se stesso. Tutto è perfetto, tutto è costruito a menadito e non c'è niente che possa scolpire il meccanismo ineludibile della messa in scena. Perfino là dove la vita arranca in estreme condizioni di sopravvivenza, non c'è cuore, empatia, non c'è un sussulto che ci faccia dimenticare la pesante struttura cinematografica che c'è dietro. Il problema è che, alla fine, ammaliati da una giostra di peripezie tecniche, ciò che manca è proprio il film. E non bastano le sorprendenti prove fisiche di Di Caprio e Tom Hardy: "The Revenant" rimane un revenge-movie a tesi, colmo di potenzialità non sfruttate che, mentre indaga sulla brutalità della natura umana, non cede ad altra tentazione se non quella di specchiarsi e piacersi un mondo. E alla fine rimane un vuoto che nemmeno uno sguardo in macchina può colmare.

L'ombre des femmes di Philippe Garrel




Dei pochi titoli recuperati al festival di Rotterdam, quello che ho amato di più è il sorprendente "L'ombre des femmes" di Philippe Garrel.Ascetico, essenziale, fluido e raccolto, intriso di vita e menzogna, come se una non potesse fare a meno dell'altra. Garrel ormai gira piccoli (grandi) film che durano poco più di un'ora ma potrebbero durarne anche venti: non cambierebbe assolutamente nulla. Il suo cinema freme, tentenna, soffre, esattamente come un organismo vivente. La sua macchina da presa scrive attraverso le emozioni da cui è sorprendentemente posseduta.
Non c'è mai un ritardo del cinema sulla vita, ma una simultaneità tale da emanare una spontaneità, una freschezza, una sincerità che commuovono. Garrel è (ed è sempre stato) libero, già nel mondo, tra cose e persone...un uomo, una donna, nient'altro che una sfumatura, un gemito...poi un'altra donna che si dissolve - o meglio ancora, scompare dal film - come fosse l'istante chiave di un tracciato impossibile.
Momenti di un cinema che pare sempre più "fatto in casa", nei ritagli di tempo, pronto a catturare e amare tutto ciò che passa sotto il suo occhio. Tasselli, piccole parti di percorsi esistenziali che non sai mai dove finiranno: un film sempre al presente, completamente disinteressato a passato e futuro (che sono ombre, fantasmi, inutili fantasticherie), capace di rifiutare qualsiasi intellettualismo per gettarsi pienamente nel suo fiero, gentile bianco e nero (come l'ultimo battito cardiaco di una nouvelle vague più viva che mai).
E alla fine ti trovi perso tra le piccole cose della vita, pronto a ricordare le infinite strade parallele che non hai mai percorso. Tutto semplicemente accade, se ne va e ritorna, come un sussulto che si erge a voce gioiosa, sublime attimo d'incanto, in uno dei più bei finali del suo cinema.
Un sorriso che è un istante, eppur rimane incorniciato nel tempo.