giovedì 27 novembre 2014

Tre storie di una malattia mortale




Ho una grande nostalgia di Michael Cimino e di film come "L'anno del dragone". Stanley White è l'indice di un mondo narrativo che forse non esiste più, di un modo di concepire le relazioni umane, l'etica e il "mestiere" che appartiene a un'altra epoca: la sua sfida contro la mafia cinese di Chinatown si trasforma in ossessione cieca ed esclusiva, che fa perdere al protagonista ogni cosa, compresi gli affetti che non è mai stato in grado di apprezzare.
In questo senso mi piacerebbe vedere "L'anno del dragone" accanto a "Zero Dark Thirty" per una mia passione intorno agli "eroi" solitari, quelli dove ogni azione sembra perdere qualsiasi ipotesi attiva, per farsi necessariamente deponente: anche Maya nel film della Bigelow non porta avanti un'idea, ma è come mossa, infiammata, trasportata da quella stessa idea fissa. Non è lei a dominare la sua fame di cattura, avviene esattamente il contrario: Maya soccombe al cospetto delle sue pulsioni. Obiettivi impossibili da arginare finché non sono compiuti, come dei virus che accendono la mente e impediscono qualsiasi altro pensiero che non sia la cattura di Osama Bin Laden. Si arriva al dato di fatto, problematico quanto volete, che la vita privata non esista più: non sappiamo nulla di Maya al di fuori del suo lavoro, perché probabilmente non c'è nulla da sapere.
Sono film, questi, che inscenano i frutti di un'ossessione logorante, che è anche, e soprattutto, un'impossibilità di scelta. Allarghiamo il campo al John Wayne di "Sentieri selvaggi": la furia di Ethan contro gli indiani, il suo sguardo di fuoco diretto verso la distruzione non solo del "nemico", ma della sua stessa persona.



Tutti e tre i film, con le dovute differenze, conservano la straordinaria intuizione di trasformare l'eroismo in patologia, l'avventuriero in nuovo malato della società, la caccia in febbre cieca e forsennata. D'altronde quest'eroe perverso non rimane in tutte e tre le opere innegabilmente solo, quasi alla stregua di un reietto, di un esule destinato per sempre allo statuto di borderline? Maya, Ethan e Stanley sono come micce accese che sembrano continuamente sul punto di esplodere: la loro ossessione li consuma fino a svuotarli e, una volta venuta a mancare, le rispettive vite si scaricano, privandoli dell'enfasi febbrile, della grandiosità, della gloria e del dolore dilaniante della malattia. La porta della comunità si chiude alle sue spalle, mentre Ethan cammina solitario verso la prateria. Maya, seduta da sola a bordo di un aereo, comprende che il senso della sua vita - ovvero il proprio nemico - è svanito come un fantasma.
"L'anno del dragone", "Zero Dark Thirty" e "Sentieri selvaggi" sono, con le dovute differenze, tre western (il primo squisitamente metropolitano, il secondo figlio delle strategie del terrore in tempi di guerra, il terzo crepuscolare e definitivo). Se "L'anno del dragone" devia verso le sparatorie rocambolesche da saloon (che farebbero invidia a qualsiasi action-movie di mezza tacca dei giorni nostri), "Zero Dark Thirty" commistiona linguaggi cinematografici e punti di vista differenti, sospettando della verità di ogni immagine. L'inquadratura fordiana, infine, restituisce sempre un grandioso senso di apertura all'orizzonte: Ethan può incamminarsi verso il futuro (che è in realtà la dimensione mitica del passato) una volta liberatosi dalla sua malattia mortale. Dov'è diretto? Ovviamente al western classico, al suo mondo, alla sua epopea che è ormai fuori tempo e non esiste più. Anche Maya è destinata a sparire, così come Stanley: il mondo li ha dimenticati perché anche loro, per troppo tempo, hanno dimenticato il mondo. Ciò che fa soffrire è l'indifferenza di questa dimenticanza, l'oblio cui sono destinati i singoli di fronte agli eventi.



Tutti e tre i film presentano una dimensione autentica del dolore e della sofferenza, oltre che dei veri e propri "duelli finali" come da migliore tradizione western. Ma dal duello non si esce né sconfitti né vittoriosi, anzi, si depone la spada e si avanza con un vuoto incolmabile, con un senso di mancanza e di assenza che nessuno potrà mai estirpare. Cos'è questo vuoto? E' il torpore, il piattume, la monotonia che segue la morte del proprio nemico, che svuota e che guarisce. Ma questa cura manca di vera vita.

Le ombre malesi di William Wyler




La luna piena illumina il volto di Bette Davis mentre spara al giovane Hammond. Non dimenticherò mai gli occhi di quella donna, che posso annoverare, senza troppe difficoltà, tra i miei primi turbamenti cinefili. "Ombre malesi" è un film incredibile che pensa l'omicidio come quell'attimo di possessione che ci si ciba dei nostri istinti e delle nostre passioni. Si configura quasi come momento estatico, di fuoriuscita da sé, di perdita di dominio sulla nostra volontà. Wyler intelaia un'opera tutta mentale che, mettendo in scena una vera e propria possessione, trasfigura la giungla malese nello scenario ideale di un mondo interiore: ombre che sembrano uscite da un'opera espressionista, atmosfere lugubri e spettrali come in un horror d'antan. In fin dei conti il film del maestro Wyler è una sorta di melodramma tropicale di altissima fattura, reso inquietante dalla sola, vitrea presenza della vedova Hammond. Il codice Hays impose il finale del film e, per una volta, al contrario del parere di molti, la cosa non si è poi rivelata così assurda: riporta ogni elemento alla dinamiche cieche e crudeli del cinema noir, inscenando l'inevitabilità di un destino già scritto e definitivo.

Il teatro prima della Storia
Notte e nebbia del Giappone




Una storia, dei personaggi, una serie di oggetti che nascono e tornano nel buio, quali apparizioni baluginanti, in bilico costante tra luce e oscurità. Alternano piani temporali differenti, perché la verità, qualunque essa sia, ha facce diverse. Quando si vede "Notte e nebbia del Giappone" si ha come l'impressione di assistere a una recita perfettamente collaudata: complice l'impianto teatrale mi viene in mente come l'automatismo, il discorso politico, la frase preimpostata, restituiscano a ogni azione la propria ambiguità e la propria possibilità di critica. "La critica rivoluzionaria al movimento rivoluzionario": si delinea quello che sembra un "Rashomon" studentesco e militante, costruito da 45 piani sequenza: il Teatro viene prima della Storia o, meglio ancora, la Storia è sempre riproduzione teatrale.

Confessions di Tetsuya Nakashima




Nessuna innocenza.
Parte in maniera travolgente "Confessions" di Tetsuya Nakashima: inondati da una serie infinita di informazioni, veniamo inseriti in una situazione che rivela progressivamente tutta l'algida crudeltà che la costituisce. Subito assistiamo a una confessione che si trasforma in escalation inaspettata, in atto "educativo" e tremendo rinchiuso tra le quattro mura di un aula scolastica. Peccato che dopo questo potentissimo incipit il film inizi velocemente a debordare, intrecciando macchinosamente ogni elemento e finendo sulla strada di una vendetta patinata. Le forme perfette, i ralenti esasperati, i colori desaturati, il rincorrersi di cieli e di specchi, l'onnipresenza della colonna sonora e soprattutto i facili psicologismi della seconda parte del film (dove il mistero viene meno e si cerca di spiegare l'origine del male in un banale rapporto di causa-effetto) finiscono purtroppo per perdere o comunque attenuare la vera dimensione del dolore. Rimane invece solo il fastidio, alimentato dalle esplosioni finali che debellano il senso del tempo e dello spazio, del cinema e della narrazione: ma non c'è nessuna esplosione emotiva, solo il rimpianto per il film che "Confessions" avrebbe potuto essere. Preferisco la vendetta lenta e crudelissima di Kim-Ji Woon (I saw the devil), che non tenta di spiegare il male, ma si "limita" solo a mostrarlo, fornendone una sorta di fenomenologia: quello è cinema devastante fino al midollo, ben oltre la patina luccicante delle immagini.

Istantanee: il finale di Marocco




Se chiudendo gli occhi dovessi pensare all'immagine più evocativa del mondo delle apparenze, dell'artificiosità sublime Sternberghiana, allora mi verrebbe subito in mente quello straordinario finale di "Marocco" dove Marlene Dietrich segue l'amato legionario Gary Cooper a piedi nudi nel deserto: regno fantomatico della leggenda che si perde nel fruscìo del vento e degli echi illusori di un mondo irreale, ricostruito e tutto cinematografico. E intanto lo straordinario Adolphe Menjou è fermo a guardare e a soffrire in placido (e morboso) silenzio.

sabato 15 novembre 2014

Torneranno i prati di Ermanno Olmi




Ieri come oggi, il cinema di Ermanno Olmi è un cinema vibrante di dettagli. Perfino tra le trincee innevate della prima guerra mondiale, "Torneranno i prati" riesce a conferire una sorta di realismo magico a ogni oggetto che sfiora. Il soldato è prima di tutto un uomo, oltre qualsiasi grado o stelletta che un reggimento possa conferirgli. La realtà storica, la fatica quotidiana, la paura che emanano i suoi occhi assume i tratti di una malinconia inquieta, dimentica del tempo che scorre, preda inesorabile di un delirio a cui non si può mai essere preparati.
Olmi è uno di quei rari, preziosissimi registi per cui far cinema significa cantare, non una storia, non la Storia, ma quei paesaggi interiori in cui vige ancora un sottile strato di speranza, misto al dolore del sangue e alla poesia lunare del cielo. I colori desaturati di un mondo privo di bellezza vengono traditi dai rami dorati di un albero spoglio. Arriva quindi improvvisa la prima esplosione, osservata con la calma inquieta e insospettabile di chi, per un attimo, si sente già morto. Ma la vita, proprio lei, è ancora una volta l'unica vera, inebriante salvezza: così la memoria.
"Torneranno i prati" porta alla luce i racconti bellici che un padre faceva al proprio figlio. Riconciliarsi con questo padre significa cantare le gesta (non belliche, ma emotive) dell'uomo e riscattarne il cuore. I personaggi guardano in macchina svelando il cinema nell'atto stesso di farsi e disfarsi, senza alcuna preoccupazione di camuffamento. Quando la lucidità rende trasparenti le immagini, rinunciando a inutili orpelli o particolari vezzi di messa in scena, ci sottrae al film stesso per scavarci sottopelle, per scoprirci, parlare con noi, per sentirci. Come nella miglior tradizione ascetica, il cinema di Olmi è miracolo di sottrazione, essenzialità pura che trasforma perfino le immagini di repertorio in tracce emotive di un dolore mai dissolto.


giovedì 13 novembre 2014

Sul peso dell'immagine
Gangs of New York




E' strano rivedere dopo tanto tempo Gangs of New York di Martin Scorsese. E' strano perché dà l'idea di un progetto gigantesco, ambizioso e importante, inseguito appassionatamente nel corso degli anni. Basti pensare alla realizzazione irta di imprevisti, al montaggio infinito, alle svariate traversie che hanno modellato il film, tirandolo da tutte le parti, deformandolo e reinventandolo. Proprio per questo, a rivederlo, Gangs of New York mi dà l'idea di un grandioso oggetto filmico non riuscito, quasi struggente nel suo cercare di restituire un equilibrio che manca.
Ciò che si ama in Gangs of New York è il tentativo forsennato e impossibile di amalgamare il racconto, la consapevolezza della propria irriducibile fragilità. Come lampi si alternano momenti di grande cinema ad altri perfino sciatti e deboli, che perdono di vista il senso del ritmo e del racconto. Gangs mi pare tuttavia una di quelle opere cui voler bene, perché sembra addirittura il saggio visionario di chi, dopo decenni, continua ad affermare che realizzare un film è un'impresa folle e ardita, un sogno impossibile che tanto assomiglia a una guerra giusta. Proprio in Gangs, più che in qualsiasi altra opera di Scorsese, si sente il peso fisico dell'immagine: c'è una pesantezza, un senso di gravità, ma anche di missione impossibile, di follia ardita, che accompagna l'intera visione del film. Sembra quasi di poter vedere il sudore e la fatica delle riprese - e del montaggio - impressi indelebilmente su ogni singolo frame.
Tutta la cinefilia scorsesiana appare come un magma che ribolle sotto ogni inquadratura, a volte perfino intrappolandola all'interno del suo caldissimo nido. Siamo a metà, d'altronde, tra lo Scorsese feroce degli anni precedenti e quello più accademico e museale (quello che, negli anni dopo, avrebbe girato "Hugo Cabret" o "Shutter Island"): spesso Gangs of New York viene fagocitato all'interno dei suoi stessi didascalici intenti, salvo poi sollevarsi e regalare momenti alti in cui esplode un furore quasi sternberghiano dell'immagine.



Il conflitto tra William e Billy, nature sfrenate e individualiste su cui si fondano gli Stati Uniti d'America, rimane narratologicamente esemplare. E quando scoppia la rivoluzione in città, i due non fanno altro che combattere la loro guerra, completamente indifferenti alla scorrere della Storia. L'egoistica battaglia di chi non ha occhi per le svolte dell'umanità circostante appartiene al vecchio mondo. William e Billy sono quel mondo: il loro vero nemico comune, di cui non si rendono conto, è lo scorrere irrefrenabile del tempo e lo spettro imminente della Democrazia.
E' quasi deludente, del resto, la morte di Billy il Macellaio. E' una morte che non ci dà riscatto, nè soddisfazione alcuna, perché non rispetta i crismi del racconto, perché non è all'altezza di un personaggio così sfacciatamente shakespeariano. La si vorrebbe feroce, diabolica, sanguinolenta, sofferente, quando in realtà è semplicemente misera, quasi comune. Ma è questa miseria, questa tristezza infinita, quest'improvvisa, sofferta demitizzazione che rende memorabile l'intera seguenza (Il cattivo è morto, avrebbe detto qualcuno, ma nessuno se n'è accorto). Billy il Macellaio se ne va, si spegne come chiunque altro, e qui comprendi che sia proprio questa l'intuizione migliore di Scorsese. La storia del film e i suoi personaggi vengono scanzati violentemente, senza rispetto o pudore, dalla grande Storia che avanza.
Il tempo del racconto finisce, il tempo della Storia inizia.

post scriptum: è ovviamente superfluo qualsiasi aggettivo che miri a descrivere la performance di Daniel Day Lewis, su cui è retto l'intero film.

venerdì 7 novembre 2014

La Storia della Principessa Splendente
Quando un film è come un haiku




Al cospetto de "La storia della Principessa Splendente" del maestro Takahata verrebbe quasi voglia di portarsi a casa ogni singolo frame, per custodirselo per sempre all'interno di quell'intima galleria personale dove far ritorno ogni volta che l'aridità minaccia di spegnerci. Ma poi ci si rende conto che è proprio il movimento a dar vita alla poesia di un tratto essenziale, che non ha bisogno di inutili orpelli o magniloquenze per poter fare del cuore dello spettatore un universo sterminato in cui entrare. Dall'inizio alla fine ci si addentra in un altro mondo, e lo si fa in punta di piedi. Nel silenzio sacro che accompagna ogni visione miracolosa, si passa dall'infanzia idilliaca all'opprimente castello in città, fino a quell'incredibile fuga in cui la figura sembra assorbire tutto il mondo circostante. Takahata racconta ogni piccolo gesto come se fosse un dolce e sereno poeta di haiku, in grado di bussare alle nostre porte con la semplicità, la dolcezza e l'ascesi appartenute solo ai più grandi. Ricorda quasi Ozu per la sua nuda composizione dell'immagine. Le sue immagini non parlano, cantano la bellezza della natura e della terra, dei fiori e delle stagioni, come nella migliore tradizione giapponese. E tu, come un bambino impreparato a tanta bellezza, riscopri nel film quel villaggio lontano e inesplorato che ti ha sempre restituito la vita. Sono film come "La storia della Principessa Splendente" che mi fanno ricordare perché ho sempre amato il cinema. Se "The Wind Rises", film-testamento di Miyazaki era la produzione dello studio Ghibli che più si avvicinava alla potenza della pittura, "La storia della Principessa Splendente" è il canto soave con cui il cinema ritorna alla poesia: nessun tramonto poteva essere migliore di questo.

Interstellar
Lo spazio non è mai stato così noioso




Non poteva che essere la fantascienza a svelare tutta la pochezza e la carenza d'immaginazione del cinema di Christopher Nolan. Risulta incredibile che un film come "Interstellar", ambientato nei meandri più oscuri e lontani dello spazio profondo, perfino in un'altra galassia, non riesca nemmeno per un momento a restituire un senso di mistero o meraviglia (ricorda molto il modo con cui il fallimentare "Inception" non presentava nemmeno una suggestione onirica nonostante fosse un film sui sogni).
Il cinema di riferimento cui Nolan dice di rifarsi è quello della grande fantascienza per famiglie anni '80, quella che porta il nome tutelare di Steven Spielberg sulle spalle. Eppure ciò che viene a mancare in "Insterstellar" è proprio la magia, il senso dell'avventura e la fascinazione per l'ignoto e l'esplorazione. Qui tutto suona maledettamente famigliare e derivativo, e non c'è mai nulla in grado di sorprenderci veramente.
Il "dove nessun uomo è mai giunto prima" sembra aver perso il suo stesso motivo di esistere. Sono cambiate le coordinate: Nolan si rivela incapace di costruire un'atmosfera, una sequenza filmica senza ricorrere alla soundtrack onnicomprensiva ed estenuante di Hans Zimmer. D'altronde già la sceneggiatura si rivela molto meno complessa di quanto la massicia campagna di marketing lasciava sperare. Dialoghi troppo spesso imbarazzanti che prendono per mano lo spettatore per (mal) spiegargli, una dopo l'altra, teoria scientifiche e massimi sistemi. La sensazione è che Nolan non creda nel suo spettatore e senta il bisogno di imboccarlo, con un'arroganza che ha pochi precedenti nella storia dei "blockbuster intelligenti" (definizione che mette i brividi solo a pronunciarla). E lo fa con l'ambizione altisonante di chi mira a riformulare "2001" e ha l'audacia (la presunzione?) di replicare un celebre stacco di montaggio di "Solaris", mentre parla dell'Amore come unico motore in grado di salvarci.



Di fronte a una svolta (pre)finale nemmeno così imprevedibile, "Insterstellar" infila uno dopo l'altro quegli spiegoni da peggior cinema hollywoodiano allo scopo di dare verosimiglianza scientifica al tutto. Ancora una volta la parola spiega l'immagine: siamo di fronte a un cinema squallidamente illuminista, completamente convinto che con la ragione si possa piegare l'intero universo (quando il cinema di fantascienza più grande ci insegna che con la ragione non si può nemmeno tentare di spiegare l'uomo).
Non esistono eccedenze, tutto si ritrova all'interno dello schema collaudato di chi, in fin dei conti, non crede in un Altrove al di fuori dell'uomo e della scienza. Non è sempre stato il peccato di Nolan quello di architettare i suoi film come se fossero ingranaggi perfetti? Peccato che un film non è mai una teoria scientifica, ma questo Nolan l'ha dimenticato. Eppure, a ben vedere, perfino questo schema collaudato presenta delle falle: finali posticci, incoerenze scientifiche, naufragi tra buchi di sceneggiatura e tre ore di durata (per dire, in fondo, che cosa?)
Il vero peccato, d'altronde, è avere wormhole, viaggio spazio-temporali, catastrofi naturali, e mancare completamente di cinema. E quando speri in un po' di silenzio ti rendi conto che lo spazio immaginato da Nolan è davvero una cosa noiosa.

martedì 4 novembre 2014

Coreografie della mente: Scarpette Rosse




Rimango ancora una volta sbalordito di fronte al technicolor rosso fiammeggiante di "Scarpette rosse" di Powell e Pressburger. Gli occhi entrano in visibilio al cospetto della lunga sequenza in cui viene rappresentato il balletto tratto dalla fiaba di Andersen. Esempio folgorante di come filmare la grazia - e la violenza irrefrenabile - della danza facendoci dimenticare completamente di un palcoscenico.
Lontani anni luce da qualsiasi ipotesi di teatro filmato, Powell e Pressburger muovono il corpo della giovane protagonista all'interno delle fantasie ectoplasmatiche del cinema. Immagini incredibili popolate di mostri e spettri danzerecci, dove il primo piano appare come squarcio dello schermo, collisione estrema tra soggetto guardante e oggetto guardato. Lo spazio rinuncia alla chiusura del palcoscenico per aprirsi a una serie infinita di luoghi-altri: il canale di accesso per ognuno di questi luoghi è la nebbia leggendaria che tutto con-fonde.
Il set del balletto si fa spazio rizomatico, coreografia della mente in grado di opporsi a qualsiasi differenza o ostacolo tra interno ed esterno. Tutta quella sequenza mi dà l'idea di un corpo ribollente e grondante di vita, che urla con graziato movimento la sua totale ribellione (che è, inevitabilmente, un'adesione) a un doppio esistenziale.
Perché "Scarpette rosse" è quel capolavoro che racconta la storia di un doppio che ha estirpato il dominio sulle nostre vite, imponendosi sul corpo come un virus potente e imperturbabile, sempre attratto da una pulsione di morte (che è, insieme, chiusura del sipario). Sono le scarpette rosse a condurci, a piegare la trama alle necessità crudeli e implacabili del racconto.
Del resto al centro c'è un triangolo amoroso che riporta "Scarpette rosse" all'interno di quel cinema della crudeltà necessaria e inevitabile che echeggia i diabolici furori sternberghiani e anticipa i turbamenti fassbinderiani.