martedì 4 novembre 2014

Coreografie della mente: Scarpette Rosse




Rimango ancora una volta sbalordito di fronte al technicolor rosso fiammeggiante di "Scarpette rosse" di Powell e Pressburger. Gli occhi entrano in visibilio al cospetto della lunga sequenza in cui viene rappresentato il balletto tratto dalla fiaba di Andersen. Esempio folgorante di come filmare la grazia - e la violenza irrefrenabile - della danza facendoci dimenticare completamente di un palcoscenico.
Lontani anni luce da qualsiasi ipotesi di teatro filmato, Powell e Pressburger muovono il corpo della giovane protagonista all'interno delle fantasie ectoplasmatiche del cinema. Immagini incredibili popolate di mostri e spettri danzerecci, dove il primo piano appare come squarcio dello schermo, collisione estrema tra soggetto guardante e oggetto guardato. Lo spazio rinuncia alla chiusura del palcoscenico per aprirsi a una serie infinita di luoghi-altri: il canale di accesso per ognuno di questi luoghi è la nebbia leggendaria che tutto con-fonde.
Il set del balletto si fa spazio rizomatico, coreografia della mente in grado di opporsi a qualsiasi differenza o ostacolo tra interno ed esterno. Tutta quella sequenza mi dà l'idea di un corpo ribollente e grondante di vita, che urla con graziato movimento la sua totale ribellione (che è, inevitabilmente, un'adesione) a un doppio esistenziale.
Perché "Scarpette rosse" è quel capolavoro che racconta la storia di un doppio che ha estirpato il dominio sulle nostre vite, imponendosi sul corpo come un virus potente e imperturbabile, sempre attratto da una pulsione di morte (che è, insieme, chiusura del sipario). Sono le scarpette rosse a condurci, a piegare la trama alle necessità crudeli e implacabili del racconto.
Del resto al centro c'è un triangolo amoroso che riporta "Scarpette rosse" all'interno di quel cinema della crudeltà necessaria e inevitabile che echeggia i diabolici furori sternberghiani e anticipa i turbamenti fassbinderiani.

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