sabato 14 dicembre 2013

Il dispiegarsi dello sguardo:
intorno a "Stray Dogs" di Tsai Ming-liang




il dispiegarsi di Tsai dello sguardo degli sguardi di tutta la vita davanti agli occhi mentre frammenta la storia le storie immaginando una nuova arca come un'altra morte che corre sul fiume quella del cinema al cinema nessun movimento scompare anche l'uomo rimane lo schermo solo lo schermo se ne va anche l'audio è solo silenzio poi il buio che non si dissolve ma arriva quando l'immagine è ormai giunta al suo massimo grado di durata emotiva esplodendo scoppia tornando fotografia come l'apocalisse che (non) parla al cavallo di Torino addio al cinema addio mentre le crepe sono le rughe dei muri nessun tempo fuori dal tempo.

*Parole sospese e giochi d'apnea che avevano seguito la visione di "Stray Dogs" al festival di Venezia. Film definitivo del maestro Tsai Ming-Liang. Ancora oggi mi sembra l'unico modo per poter parlare di questo incredibile film.

In un mare di canneti
Onibaba di Kaneto Shindō




"Il buco, profondo e oscuro. La sua oscurità dura fin dai tempi più remoti".

Un mare suadente, instabile ma infinito di canneti.
Percussioni che rimbombano, un sax che sembra prevedere ogni peccato, ogni ingiustizia, ogni bramosia d'amore.
L'oceano è il microcosmo di piante mosse dal vento che si agitano come onde mentre disegnano figure concentriche quali nuove, asfissianti geometrie.
Non rimane altro che correre nella notte, o ardere, vittime di un fuoco erotico che sembra l'unica ragione prima della futura dannazione.
"Onibaba" mi ha ricordato il movimento della danza ancestrale, dei riti pagani e dei racconti infernali, delle superstizioni e dei fantasmi: quel folle, magico mondo dell'amore e della morte dove si riflette microscopicamente la storia di un Giappone medievale immerso tra guerre e carestie. Qui due donne sopravvivono alla fame e alla miseria uccidendo uomini e vendendo poi le loro armature.
"Onibaba" è il film delle paludi e degli spettri, di una bestialità animalesca sempre pronta a tornare a galla, ma soprattutto di una sessualità repressa e di un desiderio incondizionato (penso al sentimento passionale, vendicativo e ardente della gelosia, alla scena meravigliosa di quel tronco rigido, eretto, da abbracciare e tutelare dopo aver spiato orgasmi da cui si è esclusi). Si rimane sempre in equilibrio precario, sospesi e in bilico, sopra quel buco nero di ossa dimenticate.
Perché poi quella maschera del demonio che non si leva più dalla pelle, che "proteggeva" la bellezza e la purezza di un giovane, ha il potere di distruggere tutto: nessun oltre metafisico, il demone è già dentro di noi.



venerdì 13 dicembre 2013

Paradisi pacchiani e perduti
Behind the Candelabra di Steven Soderbergh




Con questo suo ennesimo ultimo film Steven Soderbergh si è veramente superato. "Behind the Candelabra" non è solo un film coltissimo e intelligentissimo, ma è, soprattutto, l'esposizione del corpo nudo e fragile di un intero sistema: è il dietro i candelabri, il retroscena dello star system e della patina glamour. E' il mondo sfavillante degli showman iconici che non invecchiano mai, disegnato all'interno di una traiettoria scintillante e coloratissima. Traiettoria, del resto, tutta pervasa di quel nulla mellifluo che si andava a formare a cavallo tra gli anni '70 e '80. Bene, tutta questa realtà viene risucchiata in una dimora che è prima di tutto un museo, un tempio religioso in cui celebrare il culto di se stessi: gioielli, statue, goduriosi bagni nell'oro, oasi kitch che sprofondano in paradisi pacchiani e perduti. Ma allora dove siamo? Non certo in un biopic di Liberace ma piuttosto in un racconto d'amore come contratto di possessione: si inscenano rapporti di potere che svelano un mondo di solitudine estrema. Pulsioni incontrollate si susseguono come lati oscuri del desiderio, eccessi di libidine abitati da una dolente, fragilissima umanità: c'è un senso di morte che pare invadere tutto il film, riflettendosi in ogni gioco di colore, in ogni luce sfavillante, in ogni canzone.
Come se sotto la pelliccia si situasse un mondo già finito. E' la forma stessa del film, la medesima finzione scenica, a fare corto-circuito, a dichiarare la sua essenza mortifera in ogni inquadratura.

E non si parla mai di morte senza l'ipotesi di un amore romantico e arditissimo, esclusivo e devoto: l'amore di quel ragazzo fedele e innamorato disposto a perdere letteralmente la propria faccia, a diventare un figlio, un sosia, un doppio di Liberace perché solo così Liberace sa e può amare: nella vana eppur necessaria duplicazione di se stesso. L'icona, per essere tale, deve vivere senza tempo e morire fuori dal tempo, non può permettersi di invecchiare né di sembrare altro da ciò che (non?) è: ecco dunque il ripetersi incessante di operazioni di chirurgia estetica, infiniti perfezionamenti di un volto sempre più immobile, che ha perso la sua fisiognomica elasticità in favore di una maschera fissa (non è l'ipotesi di eternità il nuovo paradiso del freak partorito chirurgia estetica?). Una nuova gioventù figlia del bisturi, pronta a glorificare la pelle artificiale.



Al punto tale che il vero aspetto di Liberace, quello di un anziano fragile, calvo eppur vero, risulti ai nostri occhi come osceno. E Michael Douglas e Matt Damon, da sempre icone di hollywoodiana mascolinità, abbandonano corpi, status e virilità.
E mentre suona il piano riecheggiano le parole di Liberace, che vola come un angelo verso un'altra stella: "Perché ti amo? Ti amo non solo per come sei, ma per come sono io quando sto con te. Ti amo non solo per quello che sei diventato, ma per quello che mi fai diventare. Ti amo perché tralasci l'eventualità della mia pochezza ed accogli le possibilità della bontà in me...Perché ti amo? Ti amo perchè distogli lo sguardo dalle mie contraddizioni e perché addolcisci la musica in me con il tuo accorato ascoltare. Ti amo perché mi aiuti a costruire la mia vita, non un tugurio ma un tempio. Ti amo perchè hai fatto così tanto per rendermi felice, facendolo senza parole senza un gesto senza un segno. L'hai fatto essendo semplicemente te stesso. Forse, dopo tutto amare significa questo. Ed è per questo che ti amo".

Piccolo post-scriptum: "Behind the Candelabra" mi sembra una sorta di epitaffio, di chiosa, di conclusione perfetta della carriera cinematografica di Steven Soderbergh. Il suo è sempre stato un cinema travestito, mutaforma e multiforme: un cinema di pelle, volti e superfici che non sono mai pelle, volti e superfici. Come chi indica con un dito quella cosa lì che non è mai (solo) quella cosa lì (Magic Miike, Effetti Collaterali, The Girlfriend Experience, Knockout e così via, titoli esemplari pronti a dimostrarlo). Un cinema che non è quello che sembra, pervaso com'è di macguffin, false piste e traiettorie inattese.