venerdì 29 settembre 2017

Twin Peaks 3: appunti (2)




In una dissolvenza, dalla luce all'oscurità: dalla più bella delle storie d'amore ai recessi più oscuri della psiche umana. La morte è solo un cambiamento, non la fine: e Twin Peaks 3, ora più che mai, è molto più di un revival, è molto più di un sequel o di un prequel, è una resurrezione. Questa quindicesima parte si conferma come l'ennesimo, clamoroso tassello di un'opera che supera qualsiasi confine. Mancano solo tre ore ma la goduria infinita di abbandonarsi agli angeli e ai demoni lynchiani è qualcosa di indescrivibile. E al di là di qualsiasi narrazione possibile, di qualsiasi cortocircuito tra attori e personaggi, è commovente constatare ancora una volta come Lynch ami profondamente il mondo di Twin Peaks, non lasciando nulla al caso, ma regalando a ogni personaggio una lettera scritta col cuore. Evviva Twin Peaks...e, ovviamente, evviva Big Ed!



Basterebbe la sequenza di Audrey nella 3x16 a fare di Twin Peaks 3 una complessa, stratificatissima riflessione sul passaggio inesorabile del tempo, sul déjà vu, sulla replica, sul revival come tentativo ultimo, disperato, di tornare a vivere sempre la stessa storia: una danza dei sogni che annulla l’età, portando alla ribalta il tempo che resta. Un atto di rivolta intimo, quasi privato, contro tutto ciò che non è, contro tutto ciò che muore. Siamo alla vittoria finale delle immagini latenti, di ciò che l'occhio non vede ma il cuore sente e ricorda, come in un sogno. Lo specchio oscuro sta per essere infranto, rilevandoci quella magnifica ossessione dove ogni volta si ricomincia sempre dall’inizio: “risvegliati” è il mantra di Twin Peaks 3, che significa ricorda, rinasci, ricomincia. E ora, a una settimana dal finale, non rimane che goderci l'epilogo di questa meraviglia.

Per chi volesse leggere i miei due pezzi su Twin Peaks ecco i link:
IL RISVEGLIO DELLA COSCIENZA ADDORMENTATA
CON ORFEO NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

Due o tre cose in difesa di mother!




Si urla nella casa del Diavolo: contro la smania dei film che funzionano, meglio quelli che cadono a testa alta ma credono, fino alla fine, al cinema. Basterebbe vedere come inquadra un corridoio, come riesce a creare atmosfera a partire da una parete, come gestisce e fa deflagrare lo spazio filmico, a rendere allucinanti tutti i fischi e le urla che il film ha subito. E lo dice uno che non ha (quasi) mai amato il cinema di Aronofsky.

The Shape of Water




"The Shape of Water": creature che nascono dal cinema e al cinema ritornano. Il miglior Del Toro è una fiaba straziante e dolcissima, un film che crea un ponte ideale tra gli schermi, un viaggio allucinante tra le immagini e i loro fantasmi. Immagini, del resto, che educano la Storia, immerse in un fascio di luce in grado di riportare in vita i mostri dell'infanzia. E alla fine non può che rimanere una storia d'amore. Bellissimo.

Mektoub, My Love




Asfissiante il film di Kechiche. Che il fuori campo non fosse di casa nel suo cinema l'abbiamo sempre saputo, ma qui manca completamente il senso del tempo che, per esempio, mi attraeva in un film come Adele. "Mektoub, My Love" mi è sembrato il suo film più statico, che vorrebbe essere libero ma finisce ingabbiato negli stessi pedinamenti, negli stessi corpi che indaga spudoratamente per tre, estenuanti ore.

Drift di Helena Wittmann




Altro film bellissimo visto alla SIC 2017 dove, cullati dalla schiuma dell'acqua e dall'azzurro del cielo, intraprendiamo un viaggio che torna alle origini ipnagogiche del cinema. Partire, viaggiare e infine ricominciare: il liquido si solidifica e ritorna alla Terra. Rimane un'ultima finestra sullo schermo di un computer. Si continua a vivere.

Venezia 74




In ordine sparso ecco i film che ho più amato di Venezia74.

First Reformed (Paul Schrader)
Les garçons sauvages (Bertrand Mandico)
The Private Life of a Modern Woman (James Toback)
Drift (Helena Wittmann)
Lean on Pete (Andrew Haigh)
Manhunt (John Woo)
Outrage Coda (Takeshi Kitano)
The Devil and Father Amorth (William Friedkin)
The Shape of Water (Guillermo del Toro)
Brawl in Cell Block 99 (S. Craig Zahler)
Ex Libris (Frederick Wiseman)
Jim & Andy: the Great Beyond (Chris Smith)
Mother! (Darren Aronofsky)
Ammore e malavita (Manetti Bros)
Piazza Vittorio (Abel Ferrara)

Femmina Folle




Nella Hollywood di cartapesta dei tempi che furono, quella dei fondali dipinti e dei sogni infranti, il cinema di John M. Stahl rimane quanto di più fiammeggiante, di più saturo si possa immaginare. Continua a turbarmi oggi come mai Gene Tierney, la donna che amava troppo, la Femmina Folle di "Leave Her to Heaven". Appare come un angelo in cui si insinua, fin dal primo piano iniziale, una carica di orrore senza precedenti. Ancora una volta Riilke, "il bello è solo l'inizio del tremendo". Ogni angelo è diavolo: la sequenza dell'annegamento del ragazzino handicappato rimane ancora oggi qualcosa di raggelante.

A Ciambra di Jonas Carpignano




Finalmente "A Ciambra" di Jonas Carpignano, film prodigioso per come conserva, immagine dopo immagine, frame dopo frame, un senso del cinema, della narrazione, del rispetto e perfino della tenerezza nei confronti personaggi. Abbiamo bisogno oggi più che mai di film come questo, fuori da ogni retorica e ogni buonismo, ma capaci di mostrare un mondo lasciando sempre una traccia, un residuo, un soffio di luce.
Carpignano ci ricorda, in fondo, che il cinema è una questione di sguardo e che lo sguardo altro non è che un affetto.