venerdì 23 gennaio 2015

Il corpo elastico di Ethan Hunt:
Protocollo fantasma




"Mission:Impossible" rimane il franchise d'azione più fieramente antirealistico degli ultimi decenni. Il motivo per cui adoro "Protocollo fantasma", il quarto, testosteronico capitolo della serie, è perché intercetta nell'eccesso, nel parossismo e nell'iperbole la vera missione di questo cinema: esplodere, facendo in modo che il proprio corpo sopravviva al fuoco.
Se ogni M.I. gioca a superare se stesso (non in termini qualitativi quanto in termini spettacolari-quantitativi) in "Protocollo fantasma" è il piano stesso dell'azione "impossibile" a plasmare il film in un ossessivo "sempre di più". E' un cinema, questo, completamente libidinale, modellato dal machismo impossibile e cinematografico dell'icona maschia. E' un crescendo in cui ogni azione deve apparire sempre come la più grande, per poi essere risemantizzata e "ridotta" dal climax successivo. "Protocollo fantasma" è un'opera-feticcio, l'oggetto di godimento ininterrotto dello spettatore-giocatore attratto da velocità ipersoniche e altezze vertiginose. Superarsi: parola d'ordine, regola aurea, precettivo fondativo e sempre bulimico, sempre rinviato, sempre riformulato.
L'impossibile sfida il ridicolo, lo ingloba e gli fa la corte, proiettando l'azione in situazioni eccedenti, all'interno di un regime dell'oltre popolato di tempeste di sabbia, grattacieli da scalare, avanguardismi proiettivi e ovviamente un po' di sana fantascienza emotiva. Ecco allora che il corpo si fa elastico e ipercinetico, fino a(s)fondarsi e a trasformandosi in autentico corpo animato. L'azione adrenalinica e iperrealistica (da leggere: antirealistica) slitta verso il cinema d'animazione. Non è un caso che alla regia sia subentrato Brad Bird, celebre regista pixar, che usa il CruiseCorpo (corpo-attore "impossibile" che "manca" letteralmente al tempo) come un cyborg indistruttibile, che corre, combatte e salva il mondo, ma non ha mai un capello fuori posto. Così facendo designa l'animazione come destino del cinema d'azione che vuole eccedere se stesso. Ancora una volta la morte non esiste perché non è (mai) stata inventata.

giovedì 22 gennaio 2015

Questioni di peso




E' una questione di peso (o di assenza di peso).
Abissi spaziali o marini, profondità in cui smarrirsi e riscoprire la paura (paura della solitudine e dell'ignoto, paura che tutto, infine, sia perduto, paura di non resistere al mondo o di non lasciar traccia alcuna). Dispositivi archetipali riattivati con precisione da manuale, nuovi primordi dove perdersi è l'ultima grande avventura. L'acqua di All is Lost, l'universo in cui fluttuare di Gravity, il peso di un corpo si scontra con la totale assenza di gravità. Tra le stelle e il mare, tra il volo e il nuoto, rimane sempre un corpo solo, abbandonato nell'immensità del vuoto.


Barking dogs never bite di Bong




Prima di madri, mostri, omicidi seriali, treni e hikikomori, esisteva un grande e alienante condominio di Seul, dove finestre e appartamenti erano tutti uguali, dove nessuno conosceva il vicino vivendo la propria vita senza mai intromettersi negli affari degli altri. Ma sarebbe bastato l'insistente latrito di un cane ad attivare una commedia del sottosuolo bizzarra e a tinte grottesche capace. "Barking dogs never bite" rievoca gli spettri di un mondo sotterraneo, privo di guide o precetti morali, completamente sbandato e popolato di vittime sacrificali e uomini sull'orlo della rovina. Nell'esordio di Bong Joon-ho ci sono già tanti dei temi e delle situazioni narrative care al futuro grande autore coreano: dal paradossale, sfiancante inseguimento alle prime tracce di detection che porteranno a quello "spiare di nascosto", a quel guardare senza esser guardati, che avrebbe costituito il codice narrativo ed emotivo di "Mother" e "Memories of Murder".

martedì 20 gennaio 2015

Mondi paralleli: Industrial Symphony No.1
The Dream of the Brokenhearted




Storie d'amore che finiscono.
In una dimensione altra Sailor ha abbandonato la sua Lula e lei, in sogno, ha visto nei suoi stessi occhi profondità recondite e abissali. La dissolvenza è per Lynch una questione di luce, un'apparizione che, inquieta, balugina sul palco ed è sempre pronta a tornare all'oscurità. La dissolvenza è bagliore e volo d'angelo, cantata dalla voce celestiale e struggente di Julee Cruise. Perfino i sogni di una donna dal cuore spezzato sono fatti di luce: immagini di un mondo i cui fantasmi e demoni si librano lungo inferni post-industriali. Bambolotti dal volto bruciato piovono dall'alto, nell'impossibilità fisiologica di tornare indietro (o semplicemente di ricominciare a volare). Ma soprattutto "Industrial Symphony No.1: The Dream of the Brokenhearted" è una visione/riflessione ipnagogica sulla trasparenza di ogni immagine e corpo. David Lynch d'altronde è sempre stato un magnifico creatore di forme che scompaiono, con l'occhio mirabilmente teso verso lo svanire stesso di ogni figura. Ogni immagine è ancora una volta mente che cancella, pronta a svelare il fantasma stesso che in realtà è. E i fantasmi di Lynch sono matrioske incantate, infinite scatole cinesi che non conoscono occlusione alcuna, svelando il retrofondo illuminato e granitico di ogni corpo. Vige solo la più radicale, imperturbabile trasparenza che ci ripete, come un mantra incantato, che ogni immagine è ponte teso verso il nostro stesso abisso.

lunedì 19 gennaio 2015

Luna park biblici: Exodus




Dopo "Noah" non poteva che esserci "Exodus": luna park dell'immaginario biblico dove Dio ha le fattezze di un attore-bambino con seri problemi di espressività. Costruito come un comic-movie infarcito di effetti speciali, ghost-stories e sfide impossibili, il film di Ridley Scott è l'ennesima banalizzazione tutta hollywoodiana tratta dall'Antico Testamento. Mentre prosegue l'americanizzazione dei testi sacri, dimentichiamo il contesto produttivo e trattiamo "Exodus" per quello che è: un ambiziosissimo, sfegatato kolossal. Scott riesce ad orchestrare alcune sequenze vivisamente potentissime, ma naufraga miseramente appena si tratta di delineare la psicologia di un personaggio o, più semplicemente, di farlo parlare. Tra riprese aeree e dolly estenuanti, il rischio è quello di perdere empatia e identificazione con i personaggi, e perfino il senso stesso dello spettacolo. Ne emerge un caos roboante, pieno di elementi visivi e sonori che finiscono per saturare e depotenziare la visione. Più che un casino organizzato, "Exodus" pare un'accozzaglia di elementi che, a causa anche di una durata eccessiva, finisce per annoiare. E' ovvio dire che chi si aspettasse un mimino di complessità (o, meglio ancora, sacralità) è decisamente fuori luogo. Perlomeno "Exodus" dichiara apertamente, inquadratura dopo inquadratura, di voler essere solo un blockbusterone spettacolare e non, come "Noah", un film che ha le pretese di prendersi perfino sul serio.
piccolo appunto: interpretazione strepitosamente weirdo per John Turturro!

Assenza di cinema
The Imitation Game




Che la vicenda umana di Alan Turing sia appassionante e controversa è fuori da ogni dubbio, il problema principale di "The Imitation Game" è la radicale mancanza di uno sguardo cinematografico. Questo biopic tradizionale fino al midollo appare così innocuo, così edulcorato, così "istituzionalizzato" da scorrere via senza lasciare traccia. All'interno della prevedibilità strutturale e di una certa pigrizia in fase di scrittura, la messa in scena di Morten Tyldum è completamente illustrativa, e questo forse è il problema più grave del film. L'adagiarsi (l'appiattirsi) su forme depotenziate, che non riescono mai a sfruttare né interni né esterni, rende ogni ambiente uno spazio depersonalizzato, percorso dai personaggi, ma mai vissuto, esplorato fino in fondo. Benedict Cumberbatch fa quello che può per alimentare la tensione e il disequilibrio geniale del suo personaggio, ma da solo non riesce a sorreggere l'intera baracca. Quello che ne esce fuori è l'ennesimo film già confezionato per i prossimi premi oscar. Niente di grave perché, tutto sommato, il film si lascia vedere, ma una personalità come Turing avrebbe meritato ben altro trattamento.

Hungry Hearts di Saverio Costanzo




Con "Hungry Hearts" Saverio Costanzo dimostra di essere uno dei pochi registi italiani in grado di pensare un film mediante forme visive. Geometrie chiuse, spazi asettici, dissolvenze a nero, piani sequenza, ottiche estreme, deformazioni percettive, cambi umorali, per una messa in scena schizofrenica e mutante. Dagli esterni ingialliti di New York a cucine polverose, da ambienti immunizzati a luoghi contaminati da germi e batteri. Già nell'inquadratura iniziale è situato l'intero film: nella toilette di un ristorante cinese, si gioca il primo atto di una tragedia asfittica che, nel rifugio, intercetta l'ipotesi di una salvezza natale impossibile.
Tutta la narrazione è proiettata in un'incubratrice, in una monade fuori dalla realtà: ogni gesto è autointernamento, ritorno alla purezza originaria del ventre materno. La follia del personaggio della madre modella e distorce le prospettive del film, plasmando l'inquadratura e portandola verso una dimensione uterina e fondativa. Qui la nascita, il grado zero, la sottrazione diventano ipotesi perverse di purezza e santità (ancora una volta, da un certo punto di vista, il folle è identificato con il santo). Improvvise assonanze di sguardo ci portano entro le traiettorie ansiogene di una psiche distorta, che modella il reale trasferendolo in una casa di bambole capovolta.
Ciò che sorprende in Costanzo è la sua voglia costante di sperimentare e mettersi in gioco, perfino di rischiare il ridicolo, noncurante dei rischi, ma fieramente, nobilmente irresponsabile. Il fish-eye didascalico che iperbolizza la chiusura dei protagonisti diviene strumento perfettamente in linea con un film che vive all'insegna dei parossismi: dalla colonna sonora di Piovani che moltiplica déjà vu e risonanze agli inquieti, febbricitanti movimenti di macchina, per non parlare della narrazione stessa. Pezzo dopo pezzo, Costanzo realizza una tragedia contemporanea, che adotta la pazzia della sua protagonista come punto di vista privilegiato della macchina da presa.



In questa favola nera macchiata di sangue, il nucleo famigliare è costretto a lottare e disgregarsi per potersi poi salvare: dovrà superare tutte le tappe della tragedia, perfino quella del sacrificio, per poter tornare a vedere i raggi del sole. L'immagine finale, sulla spiaggia, è la luce in fondo al tunnel (come lo sono, ambiguamente, tutte le immagini conclusive e serene del personaggio di Alba Rohrwacher con il bambino).
L'immagine di Costanzo sa essere sporca e insieme elegante, sottoesposta o bianchissima, sempre viva, sempre pulsante. Non c'è poi grande differenza tra gli interni asfittici e le strade di New York, che sembrano bolle chiuse dall'atmosfera irrespirabile. Servendosi di due attori in stato di grazia, Costanzo porta avanti un film mutante, in grado di cambiar pelle e di assumere una tensione crescente, che s'insinua inquadratura dopo inquadratura.
In definitiva "Hungry Hearts" si fa quasi un horror dove il cibo (o la privazione di cibo) è arma di distruzione: ciò che si ammira è allora il coraggio, l'urgenza, la voglia di osare di Costanzo, che appare quasi un unicum nel panorama nostrano, almeno per consapevolezza del mezzo e amore del rischio. Il film, del resto, è girato in 4:3, formato che facilita quel senso di oppressione che abita ogni inquadratura. La grana avvolge l'immagine, rendendola pulsante, mentre primissimi piani sembrano squarciare lo schermo ricordando la forza epilettica di uno Zulawski (o di un Lynch) domestico o forse, ancora di più, le atmosfere polanskiane di un'altra famosa (mostruosa) gravidanza, quella di "Rosemary's Baby".
Ma, più di qualsiasi altra cosa, Saverio Costanzo sembra se stesso, nella sua capacità sorprendente di inquietare e di parlare un linguaggio troppo spesso estraneo al cinema nostrano: quello cinematografico.



venerdì 16 gennaio 2015

Come ti rimonto un film
(pre)visioni del 2001 di Soderbergh




Si sta alzando un gran polverone circa la più recente delle operazioni di Steven Soderbergh: rimontare "2001 Odissea nello spazio". Oltre all'articolo di fare.film, fazioso fin dalle prime battute, in giro per la rete si legge di una presunta mancanza di rispetto di Soderbergh nei confronti del "maestro", della gratuità dell'operazione macchiata da un'ambizione sfrenata. Ancora una volta rimango sbigottito di fronte a reazioni di questo tipo che dimostrano di essere completamente, radicalmente, fuori dal mondo (e dal tempo). Un'opera, per quanto grande, non dovrebbe mai essere intoccabile: limitarsi a venerarla significa renderla una monade priva di qualsiasi interesse, vuol dire museificarla, imbalsamarla, bloccarla nel tempo.
Basta conoscere lo stato delle cose per rendersi conto che il cinema, oggi, è dappertutto. Fluisce liquido ed extracorporeo come ogni cosa, dimentico di massa e volumi. L'unicum come santino venerato obbliga il pensiero e la critica entro i circoli chiusi, dogmatici della più becera venerazione. Trovo estremamente interessante che i film diventino oggetti vivi, plasmabili, ridefinibili, secondo le logiche attualissime del mash-up.
Del resto era quello che, a suo modo, diceva un'opera lucida e intelligente come "Be Kind Rewind": siamo nell'epoca del rimontaggio dei film, degli Psycho rifatti, delle versioni e delle copie. L'ideale della critica cinematografica, dell'interpretazione dei film, sarebbe quello di abbandonare finalmente la carta per poter commentare, studiare, analizzare un film con le sue stesse immagini. Del resto modificare uno stacco di montaggio significa risemantizzarlo. Questo, a mio avviso, vuol dire studiare, comprendere, esplorare un film.
Cosa c'è di male dunque nel fatto che un regista come Steven Soderbergh, da sempre interessato alla produzione bulimica di immagini che "rubano" il nostro tempo, che vincono il reale, che non sono mai ciò che sembrano, monti la sua versione di 2001? Potrebbero un giorno esistere cento versioni di 2001 oltre all'originale, dove autori anche navigatissimi interpretano e ridefiniscono a loro modo il film di Kubrick. Sarebbero oggetti di studio di altissimo valore e probabilmente si tratterebbe dell'unica vera critica cinematografica possibile.

Sognando Gioventù Bruciata




Ci sono dei film che il tempo non può scalfire, perché vivono nella loro stessa pulsante, segreta ingenuità, nel sogno di un'epoca passata ma mai dimenticata, nel loro stesso essere figli di una generazione che sarebbe stata sognata da tutte le altre. "Gioventù bruciata" è il grado zero del mito, il film da amare, omaggiare, tradire, ridefinire, come si fa con ogni grande amore. Il suo mondo è quello dell'icona colorata, che resiste al tempo perché decide insieme di subirlo e di negarlo. Mi sono sempre chiesto perché "Gioventù bruciata" di Nick Ray fosse a colori. Ho ceduto al desiderio di rivederlo: il colore del film è quello fiammeggiante delle pellicole che non ci sono più, è l'immagine densa, folle e lontana che continua a vivere beffandosi della morte, senza conoscere museificazione alcuna. Come James Dean d'altronde. A rivederlo, inoltre, ti rendi conto come il film di Ray nasconda una crudeltà, una perversione, un disagio che già macchia il mito e anticipa insospettabilmente tanto cinema americano a venire. E gli occhi del giovane Dennis Hopper già luccicano del Lynch di domani.

Appunti su "Burn" di Reynold Reynolds




I personaggi di "Burn", splendido lavoro di Reynold Reynolds, sembrano automi assuefatti e annoiati, che svolgono le loro azioni quotidiane nonostante il mondo (la loro casa) stia andando a fuoco. Dormono, leggono e quindi bruciano. Reynolds firma il suo apologo su come la più placida indifferenza finirà per ucciderci tutti. Eppure un giorno i tetti del mondo crolleranno, la neve invaderà le case, risvegliandoci forse dal torpore che ci attanaglia.

(qui "Burn" ---> www.vimeo.com/20706577)

giovedì 15 gennaio 2015

Lo specchio della vita di Douglas Sirk




Come una serpe velenosa pronta a desaturare il technicolor sfavillante delle immagini, lo spettro della morte aleggia su Lo specchio della vita, ultimo definitivo capolavoro del troppo spesso dimenticato Douglas Sirk.
Il colore saturo e fiammeggiante irrealizza ogni immagine, ribaltando la favola in un melò straziante e perverso che è costantemente sul punto di esplodere (non per niente Fassbinder adorava questo film).
Il personaggio di Annie è buono in modo assoluto, il suo amore è gratuito perché dona senza volere nulla in cambio, perché ama incondizionatamente nonostante sappia che il mondo è un posto pericoloso e malvagio. Eppure i suoi occhi continuano a scintillare, donando gioie e sorrisi a un'umanità che si fa sempre più grigia. Intorno a lei, nel regno chiuso e famelico dell'apparenza e dell'inganno, viene edificata quell'enorme casa di bambole che è poi il sogno americano.
Sirk architetta una gigantesca, lussureggiante armonia visiva, dove tutto è bellezza, lussuria e perfezione, salvo poi svelare, inquadratura dopo inquadratura, che tutta quella bellezza, quella lussuria e quella perfezione, si reggono in realtà su un vuoto assoluto. Sotto il technicolor abbagliante dell'immagine si agita un mondo irrequieto di pulsioni instabili e furenti, di odi e vendette, di rancori e crudeltà infinite. Quest'America, regno chiuso e monadico pronto a scoppiare, mostra i suoi ideali affettivi e morali. Non si accorge di star bruciando, mentre scivola verso un vortice di oscurità senza fine che inebria le libidini più recondite della mente umana.
Nel suo riflettere il sogno di una donna-bambina che voleva diventare star, Sirk esaudisce i desideri, "accontenta" i personaggi, li fa arrivare alla vetta, salvo poi rendersi conto che quella vetta era in realtà nulla. Con lucidità e disincanto il suo cinema assume il melò come condizione esistenziale, la recitazione come modus vivendi: ecco allora il dramma di coscienze infelici atte a cospargersi di beni materiali e sempre più dimentiche della potenza degli affetti. Il personaggio di Annie, d'altronde, è troppo fuori dal tempo, troppo ideale per continuare a esistere all'interno di quella realtà: il suo cuore verrà infranto, rendendola incapace di sopportare sulle sue spalle il dolore del mondo.



Gli altri personaggi, individui piccoli e fragilissimi in febbrile movimento, sono condannati dalle loro stesse aspirazioni. Scopriranno l'inevitabile vuoto che segue la propria realizzazione, quel senso di mancanza e di insoddisfazione che li rende davvero umani. L'impossibilità fisiologica di arrivare a un punto fermo li porta a scoprire il lato oscuro di ogni pulsione e desiderio: il chiaroscuro nascosto di tutte le immagini belle. Questo chiaroscuro è continuamente edulcorato dal colore, allo scopo umanissimo e tristissimo di proteggere un mondo che si sta disintegrando. Una volta svelate le misfatte e le apparenze delle immagini, emergono mostri bramosi di crescere, sporcarsi e tornare alla realtà (basti pensare al personaggio di Sarah Jane).
Davanti a figlie gelose delle proprie madri o a bambine che si vergognano pubblicamente delle proprie origini, davanti a egoismi, ambizioni sfrenate e peccati materiali, "Lo specchio della vita" è come un giglio infranto. Esempio perfetto di questo giglio è l'immagine deforme di un amore che è possessione e dominio dell'altro: Steve chiede a Lora di lasciar perdere i suoi sogni e le sue aspirazioni per amor suo.
All'interno di un vortice di emozioni senza fine,il film pare continuamente trattenersi fino a togliere il fiato. La forma pura, satura, enfatica del mèlo rivela infatti un tempo che scorre veloce e irrefrenabile, amplificando tutte le parole non dette, tutti i silenzi prolungati e i dispiaceri che con gli anni hanno prodotto rancori e distanze. L'esplosione arriverà finalmente con Mahalia Jackson mentre canta "Troubles of the World" durante i funerali che concludono il film. E' proprio allora che ti scopri ancora una volta a singhiozzare come un bambino. Un bambino che, per la prima volta, vede "Lo specchio della vita" in compagnia di un'altra persona e riconosce, nello sguardo dell'altro, le stesse dolcissime lacrime.


mercoledì 14 gennaio 2015

Sotto il cielo plumbeo di Glasgow
Red Road




C'è qualcosa che non mi ha convinto nella visione di "Red Road" di Andrea Arnold. Da anni volevo recuperarlo, perché sono da sempre attratto da finestre sul cortile e pulsioni scopiche moltiplicate.
Digitale sporco, camera a mano ostentatissima, derivazioni fastidiosamente Dogma (il film è prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier), soggetto che va svelando le sue piste narrative passo dopo passo, in un clima limbico-soporifero che ben ci immerge nell'apatia del film. All'interno dell'atmosfera plumbea e asfittica che avvolge le vite di Glasgow, il lavoro della Arnold si ritrova costretto all'interno di una struttura che pare imprigionarlo - non per mancanza di ossigeno (funzionale al film) ma per la sua stessa impostazione visivo-narrativa.
La regista pare così preoccupata a risolvere ogni snodo narrativo da non lasciare alcuna percentuale di dubbio: il rischio di facili psicologismi e di un didascalismo di fondo rimane a galla, sebbene sia sempre truccato da espedienti (il look visivo, la messa in scena, la durata interna) che lo fanno apparire ben più complesso di quanto non sia in realtà.
Davanti a delle immagini a circuito chiuso, la Arnold non riesce a fare altro che sottolineare l'evidenza: se Haneke ci ha insegnato come ogni immagine, perfino la più "oggettiva", sia di per sé ambigua e menzognera, la Arnold si limita a "guardare". Se Haneke squarcia la superficie dell'immagine, in una crudele indagine autoptico/ipodermica, la Arnold rimane incastrata e attratta da quella superficie, dimenticando l'ambiguità intrinseca a ogni immagine. Ancora: se l'immagine di Haneke è sempre stravolta epistemologicamente da un fuori-campo pronto ad apportare un nuovo senso (e mai un senso ultimo), quella della Arnold si ferma alla cornice e non oltrepassa il formato. Non c'è mai un oltre che surclassi ciò che vediamo: i personaggi (la protagonista per prima) vengono ridotti a burattini mossi da fili invisibili, che agiscono come insipide funzioni narrative.



Una traccia indelebile, un fantasma, muove ogni azione della protagonista, cadendo nei facili schematismi narrativi di causa-effetto. Peccato, perché il fil rouge squisitamente bataillano che collega attrazione sessuale e morte, pulsione scopica e libidine fisica, voyeurismo e sesso, finisce per diventare un'appendice, un plus didascalico, e mai il fulcro del film. "Red Road" si fa esempio perfetto e problematico di quando un'intuizione teorica "compone" il film e non viceversa, modellandolo a suo piacimento, e non facendolo mai respirare.
L'impressione è che l'opera della Arnold non faccia altro che scorrere davanti agli occhi della protagonista. Se per tutta la prima parte lei è l'occhio neutralizzato/anestetizzato che guarda, nella seconda diviene occhio che agisce. Dal vivere la vita degli altri a essere già un altro.
E alla fine diviene il film sull'elaborazione di un lutto, sulle possibilità di una nuova luce, sul sogno di un risveglio.
Tutto questo non fa una piega sulla carta, ma, al momento della visione, "Red Road" rimanere imprigionato tra le derive opache di un'immagine che rifiuta il caso e le possibilità imprevedibili/imprendibili dell'occhio. Grave che un film come questo - dopo Hitchcock, dopo De Palma, dopo Haneke - dimentichi che le immagini mentano. Sempre. Strutturalmente.


venerdì 9 gennaio 2015

L'atto di veder(ci) con i nostri stessi occhi




L'atto estremo, irresponsabile ed epifanico di veder(ci) con i nostri stessi occhi. Superare i limiti del visibile per ricercare la genesi di ogni visione. Intercettare, una volta per tutte, la radice instabile di un occhio che, nel corpo altrui, riconosce se stesso. Cinema autoptico che studia la carne morta e intercetta l'occhio vitreo, spento del cadavere, per ricordarci la mostruosa bellezza di cui siamo fatti. Lo schermo permette di vedere noi stessi con traumatica, lenticolare attrazione, e ci mostra morbosamente riflessi. Qui come mai compito del film è quello di scoprirci, guardarci, svelarci, fino al sospetto che non siamo noi a lavorare le immagini, ma, viceversa, siano le immagini a lavorare noi. Bisogna necessariamente tornare a Stan Brakhage e a "The Act of seeing with ones own eyes".

giovedì 8 gennaio 2015

Tutte le immagini mentono: Redacted




Per un'etica della visione: qual è il grado di complicità dello sguardo?
In epoca transmediale, all'interno di una cultura convergente, filmare significa uccidere o lasciare una traccia? Cos'è poi un occhio che documenta se documentare significa filmare l'infilmabile, disvelare l'osceno?
Come uno sguardo bazianiano resuscitato, quello di De Palma in "Redacted" è un occhio che uccide. Perché filma, plasma, modella in reale facendolo annegare nel suo doppio simulacrale, portando lo spettatore all'interno di un cortocircuito percettivo che non ha vie d'uscita (se non l'immagine di un reduce in lacrime durante una festa in suo onore).
"Redacted" di De Palma è uno spaventoso collage multimediale, un'opera che ha squarciato lo schermo plasmandolo in interfaccia. Materiali eterogenei che affondano nella bassa definizione dell'immagine, come a dire: il digitale ha risucchiato perfino la guerra e i soldati, implodendo all'interno di un horror tanto più esistenziale quanto bellico.
Nell'effetto-realtà ogni atto diviene riproducibile all'infinito, fino all'incubo di potersi portare la guerra a casa propria (la guerra fai-da-te). L'esistenza scorre in streaming, disgregandosi tra i pixell di un'immagine dimentica della materia.
"Redacted" è allora un film sulla viralità, sul contagio, sulla progressiva digitalizzazione delle nostre vite, ridotte ad avatar virtuali, possibilità su grande (o piccolo) schermo. Come in una cura Ludovico priva di scopo, De Palma è interessato a ciò che le immagini producono nella nostra mente, alla fruizione stessa di scene di violenza insostenibile, che, per un gioco perverso ma umanissimo, non ci fanno staccare gli occhi dallo schermo.



La pulsione scopica, l'atto di vedere a ogni costo, ha una matrice eminentemente sadica, poiché ciò che ci disgusta, ciò che ci terrorizza, ci rende vivi, ci protegge e, in qualche modo, ci assolve. E' allora il desiderio impossibile di assoluzione il centro nevralgico di "Redacted": come colpevolissimi voyeur assistiamo alle brutalità di uomini che hanno perso qualsiasi umanità. Ma viviamo nella distanza, all'interno del meccanismo protettivo/distruttivo della riproduzione che ci rende salvi e giudici (tutta la sequenza finale con la carrellata di foto terribili è il contrappunto crudele e cinicissimo dell'intero film).
Inoltre, rivedendo per l'ennesima volta "Redacted" che, a otto anni di distanza, si dimostra ancora il film più attuale e lucido possibile, penso a come la logica del sospetto si inserisca naturalmente all'interno dello stesso atto del guardare. La menzogna dell'immagine è intrinseca all'immagine stessa, come se fosse la sua componente strutturale e fondativa.
Uno dei personaggi del film chiosa: "Tutte le immagini mentono" e, su questo assioma, De Palma ha fondato un'intera, straordinaria carriera. Non esistono più immagini originali (anche perché l'immagine stessa non è mai originale) ma copie delle copie delle copie, rifatte, rimodellate, censurate, tagliate, per l'appunto redatte. Sulla manipolazione dell'immagine, sulla cesura, sul nascondimento, si fonda non tanto l'ipotesi di un complotto quanto la perenne, inevitabile, inaffidabilità di ciò che vediamo. Diffidate delle immagini, verrebbe da pensare, salvo poi rendersi conto che ormai è come dire: diffidate del reale.


I flash mob mortuari di "Suicide Club"




Flash mob mortuari, suicidi di massa come mode del nuovo millennio: atti estremi, devoti e decisivi per un istante, uno solo, di popolarità. Con "Suicide Club", uno dei film più importanti degli anni zero, l'estetica pop incontra la dimensione sacra. Il virus di una società alienata germoglia nella rete: non c'è più un solo portatore, non c'è più un unico responsabile, la "malattia" ha contaminato ormai case e scuole, tetti e strade. Il punto è essere connessi con se stessi, ventiquattro ore su ventiquattro.
Film fondamentale, attualissimo e devastante, dove i primi cinque minuti con la scena dolorosissima del suicidio nella stazione ferroviaria sono il punto di non ritorno di tutto un cinema (nonché il perfetto compendio dell'arte di Sion Sono che col successivo "Noriko's Dinner Table" firmerà uno dei suoi film migliori).

Autoparodie: "Big Eyes" di Burton




Dopo anni di operette scialbe e di maniera, dove il nome di Burton si ripeteva come un'etichetta stanca e innocua, "Big Eyes" poteva essere un probabile scacco matto, quell'opera emancipata con cui il visionario regista di "Edward" tornava giovane e ispirato, distaccandosi dall'immaginario/format in cui era rimasto incastrato per troppi anni. Eppure qualcosa è andato storto.
Nel suo raccontare la biografia dei coniugi Keane e quell'arte pop-kitch che sedusse l'America degli anni '50/60, il gesto filmico di Tim Burton sembra imbalsamato, come se anni di fantasticherie opache e debolissime lo avessero inevitabilmente depotenziato. Il problema non è nemmeno se "Big Eyes" sia un film burtoniano o meno. E' chiaro che all'interno dell'arte di Keane, Burton ricerchi i prodromi di tutta la sua carriera, ma "Big Eyes" non riesce mai a trovare un equilibrio: oggetto filmico costantemente indeciso su che strada prendere, su che film essere, su che identità promuovere.
E' come se l'autore volesse fare qualcosa di diverso senza però dimenticarsi di essere Tim Burton: è tutto così programmatico da somigliare più a una scialba operazione di rilancio (critico) che a un film ispirato e fatto col cuore. "Big Eyes", del resto, non riesce mai a scrollarsi di dosso un certo istrionismo che mal si sposa con l'immaginario di Keane.



Il film mette in scena una sorta di teatro dei burattini, senza preoccuparsi di dar credibilità a ciò che mostra, rifugiandosi dietro la "storia vera" per potersi autolegittimare. Ma da Burton ci si sarebbe aspettati un dialogo con Keane, una reinvenzione cinematografica dei suoi quadri, invece l'autore si limita a una sequenza didascalicissima dove Margaret è circondata da individui con gli occhioni enormi. Non ha nemmeno il coraggio di fare del kitsch la sua stessa forma, perché è troppo preoccupato a gigioneggiare e a farsi il verso da solo (basti pensare alla terribile sequenza del processo). Questo non è il film di Tim Burton che avremmo sperato di vedere dai tempi di Edwood, è piuttosto la sua parodia, la denuncia pubblica di un regista che soffre di una preoccupante carenza d'immaginazione.
Incapace di creare atmosfere, di far pulsare le sue immagini, chiede l'aiuto del complice Danny Elfman che invade l'intero film con una colonna sonora onnipresente. Burton infarina l'opera di temi warholiani, dal doppio alla riproduzione in serie, dall'originale alla copia, dal vero al falso e, non contento, alza il tiro con parabole femministe e fugaci apparizioni dei testimoni di Geova: il problema è che il film più che sembrare un pamphlet poco ispirato, appare come una noiosa accozzaglia che sottolinea una superficialità di vedute davvero imbarazzante.
Se a tutto questo uniamo una totale mancanza di spessore dei due protagonisti, "Big Eyes" naufraga in maniera ancora più grave rispetto ai tiepidi burtonismi dei suoi ultimi film. Proiettati all'interno di uno scenario reale (che sembra uscito da un manifesto pop-art), i personaggi sembrano marionette in balìa del regista, macchiette prive di qualsiasi spessore psicologico. Amy Adams ce la mette tutta, e forse è la sua recitazione in sottrazione l'unico pregio di un film che s'impone di essere sopra le righe e vivace a tutti i costi. Di certo Christopher Waltz riesce a regalarci la peggiore interpretazione della sua carriera: sembra una parodia di se stesso, un omino insopportabile perso in una valanga di faccette e movimenti imbarazzanti, in una recitazione che alle lunghe si fa pedante e insopportabile. Del resto, "Big Eyes" riesce a ridurre un personaggio tanto geniale quanto infame a un buffone di corte che ha le stesse espressioni di un personaggio da cartoon.



sabato 3 gennaio 2015

Con l'entusiasmo di un bambino
Il conformista




e poi ritorni a un film come "Il conformista" che è cinema puro, saturo, colorato eppure inquieto, malsano e labirintico. L'ambizione spregiudicata di diventare un uomo qualunque, di adottare la prospettiva di una quieta, borghese normalità: l'opera di Bertolucci è quel lucido miraggio che s'interroga sulla sanità intesa come malattia (e qui ancora sulla folle ordinarietà del fascismo). Cinema grandioso in preda a un nervosismo febbrile.

(penso alla fuga nel bosco, tutta in macchina a mano, dove puoi sentire ogni passo sprofondare nella neve, e poi il rumore degli spari, il sangue spalmato sul viso e quella macchina da presa che segue Dominique Sanda fino all'ultimo respiro. E alla fine rimangono gli alberi, il vento e il silenzio).

(penso alla scena del ballo, coreografia interiore in cui Trintignant si ritrova di nuovo nel mondo, completamente fragile, instabile e "nudo". Ed è la colpa a renderlo uomo).

e quindi i cromatismi emotivi di Storaro, la colonna sonora che è come una gabbia che confina il suo protagonista in un abisso senza via d'uscita.

Non riesco a scrivere di Bertolucci senza l'entusiasmo di un bambino, (ri)vedendo nella mente ogni singola scena.
Che meraviglia.

venerdì 2 gennaio 2015

Trucchi fatati: The Babadook




L'orrore come elaborazione del lutto, come dramma famigliare acceso e rilanciato a ogni nuova sequenza. Quali spettri dell'infanzia, si moltiplicano i sussurri del Babadook, ennesimo uomo nero questa volta interessato a estremizzare i conflitti di una relazione madre-figlio.
Lontano dalle mode trite e ritrite di tanto cinema horror contemporaneo, "The Babadook" è un film che presta attenzione alle frustrazioni e ai sentimenti di una madre vedova. Ogni singolo moto d'animo, che in tanti altri horror sarebbe stato confinato a elemento di sfondo, diventa qui autentico protagonista, capace di inquietare e deformare qualsivoglia passaggio narrativo.
Con insolita sensibilità, Jennifer Kent è consapevole che la fragilità della mente umana è capace di produrre i mostri più spaventosi, fino a sprofondare nell'incubo indicibile della possessione. La paura va ricercata nei legami affettivi, all'interno delle proprie mura domestiche, allo scopo di rendere spaventoso ed estraneo tutto ciò che c'è di più famigliare. L'incubo taciuto di ogni bambino, il fatto che la propria madre possa fargli del male, diviene il cuore pulsante della seconda parte del film. Dopo una parte insidiosissima, ogni cosa si fa sempre più asfittica, al servizio di una regia che non ha venduto i tempi dell'horror a mode splatter e videoclippare, ma sa bene che la paura è un fatto di tempo. E, quando meno te lo aspetti, "The Babadook" riporta tutto l'orrore, il mistero e la meraviglia, al suo terreno d'appartenenza: i trucchi fatati di mélièsiana memoria.

Coraggio italiota: Il ragazzo invisibile




Bisognerebbe rivedere un po' il concetto stesso di coraggio. Si legge dappertutto che l'operazione di Salvatores sia coraggiosa per il semplice fatto di inaugurare un filone supereroistico italiano. Ma se l'operazione, quantomeno eccentrica nel panorama nostrano, viene frenata da un film che denuncia continuamente la sua stessa mancanza d'immaginazione, allora di cosa stiamo parlando?
Il vero problema de "Il ragazzo invisibile" è il pigrissimo adagiamento su format americani, senza nemmeno preoccupazioni circa varianti o slittamenti, il pedissequo copia/incolla del già visto supereroistico made in Usa.
"Il ragazzo invisibile" fa del suo cavallo di battaglia il "made in Italy", sembrando più una furbissima trovata di marketing che un film vero e proprio. Certo, si potrebbe dire, è un omaggio fatto con la passione di chi non è mai cresciuto, che non ha alcuna pretesa di originalità ma solo una certa, divertita precisione filologica. Eppure verrebbe da chiedersi: perché sono anni che Salvatores si impossessa di modelli esterofili, omaggiandone (copiandone) le forme, rendendosi di volta in volta irriconoscibile? E' come se il suo cinema fosse diventato un contenitore vuoto pronto a ospitare, di volta in volta, la copia del film di un altro, per poi rivendicare la novità "tutta italiana" dell'operazione. Il sospetto che si tratti di una drammatica mancanza d'inventiva e non tanto di un presunto eclettismo diventa quasi una certezza. E viene confermato dall'imbarazzante flashback russo, dove tra nucleare e superpoteri naufraga qualsiasi lontano interesse per un film che non c'è.
Messa in scena sciatta e noiosa, che non s'illumina mai, tra sequenze videoclippare e stanche esigenze derivative. Quale sarebbe il coraggio?

Ironia mortifera: American Sniper




L'eroe guerriero, stanco e anestetizzato, osserva il suo riflesso sullo schermo di un televisore spento. Il mio 2015 cinematografico non poteva cominciare meglio di così.
Con "American Sniper", Clint Eastwood ritrova tutta la carica e la potenza di un cinema maschile, duro e roccioso, che però non ha paura di effeminarsi, di rilanciare tutte le sue contraddizioni, di porre conflitti esistenziali che vengono ben prima di qualsiasi schieramento politico.
"American Sniper" è un'opera profondamente, visceralmente americana, ma sbaglia chi lo identifica con il manifesto apologetico di un Paese. Il film di Eastwood è, al contrario, un dramma crudelissimo sulla fatalità, sulle responsabilità del singolo, sul proprio ruolo nel mondo che tanto somiglia a una vera e propria maledizione.
Il talento e il carisma appaiono come doni innati che ci perseguitano, rendendo impossibile qualsiasi possibilità di scelta e appiccicandoci addosso un carattere, un'identità, una tendenza per tutta la vita.
Come il femminile "Zero Dark Thirty" era in realtà la storia di un'ossessione, di una peste che ci nutre e ci consuma, "American Sniper" è un film che parla del potere irrefrenabile della pulsione e dell'istinto, in grado di disintegrare qualsiasi rapporto umano e fagocitare la nostra stessa esistenza.
L'obbligo etico che sente il protagonista del film nei confronti del proprio paese, si trasforma in una sorta di autoesclusione dal mondo: il militare diviene un freak della società, eremita impossibile da reintegrare, "suicidato" ideale perché ha visto e conosciuto la morte negli occhi altrui.
Con una messa in scena che ben conosce le tensioni del grilletto e le geografie degli ambienti bellici, "American Sniper" si rivela un'opera profondamente demitizzante, proprio il contrario del film conservatore e patriottico che molti hanno voluto vederci. Basti pensare a un finale che decide di omettersi da solo, concludendo in un batter di ciglia - e con una certa, terribile ironia - una vicenda umana che si voleva tanto singolare. Ancora una volta il vecchio Clint sa bene che non è più tempo di eroi, perché il mondo va avanti non attraverso il gesto più o meno eccezionale del singolo, ma attraverso la banalità sconcertante del quotidiano."American Sniper" è parabola/destino/cupio dissolvi di ogni presunto eroismo.


The wolf of the stars
IL MIO 2014 CINEMATOGRAFICO
(addio al linguaggio)




Come ogni anno quella che segue non è una classifica ma una sorta di raccolta, di atlante, di catalogo in movimento sempre pronto a modificarsi, ben cosciente che ogni giudizio può essere capovolto, che ogni visione può ribaltarsi quando meno te l’aspetti. Di seguito sono riportati tutti i film visti in sala nel 2014, le visioni dei festival di Venezia e di Roma e vari recuperi al di fuori della sala. Si potrebbe partire da ciò che manca: dai due Lav Diaz a Sion Sono, da “L’immagine mancante” a “Welcome to New York” di Ferrara, tanto per citarne qualcuno. Saranno tutti film che inserirò all'interno di questa raccolta in un secondo momento. Per adesso mi limito ad augurarvi buon anno e buona lettura.

L'oltre - Cronache dal Paradiso

(dove non può esistere paragone alcuno, perché nel regno dell’oltre non ci sono numeri o stellette che tengano. L’ordine, di conseguenza, è puramente casuale).

ADIEU AU LANGAGE Jean-Luc Godard
LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE Isao Takahata
MAPS TO THE STARS David Cronenberg
NOBI – FIRES ON THE PLAIN Shinya Tsukamoto
OS MAIAS - (ALGUNS) EPISODIOS DA VIDA ROMANTICA Joao Botelho
JA VISTO JAMAIS VISTO Andrea Tonacci
NATIONAL GALLERY Frederich Wiseman
THE OLD MAN OF BALEM Manoel De Oliveira
JAUJA Lisandro Alonso
THE WOLF OF WALL STREET Martin Scorsese
PASOLINI Abel Ferrara
SILS MARIA Olivier Assayas
GONE GIRL David Fincher
THE HOMESMAN Tommy Lee Jones



Gemme preziose
(Qui e nelle prossime due "sezioni" c’è un ordine, più istintivo che ragionato, dall’alto in basso).

TSILI Amos Gitai
BELLUSCONE – UNA STORIA SICILIANA Franco Maresco
THE POSTMAN'S WHITE NIGHTS Andrej Konchalovskij
MOMMY Xavier Dolan
AS THE GODS WILL Miike Takashi
THE IMMIGRANT James Gray
IL GIOVANE FAVOLOSO Mario Martone
ALL IS LOST J. C. Chandor
A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE Roy Andersson
THE LOOK OF SILENCE Joshua Oppenheimer
ONIRICA Lech Majewski
TORNERANNO I PRATI Ermanno Olmi
ANGELS OF REVOLUTION Aleksej Fedorchenko
IL SALE DELLA TERRA Wim Wenders e Juliano Salgado
THE PRESIDENT Mohsen Makhmalbaf
IN THE BASEMENT Ulrich Seidl
SHE'S FUNNY THAT WAY Peter Bogdanovich
HILL OF FREEDOM Hong Sang-soo
99 HOMES Ramin Bahrani
RITORNO A L’HAVANA Laurent Cantet
GRAND BUDAPEST HOTEL Wes Anderson
THE DIRK SIDE OF THE SUN Carlo Hintermann
APES REVOLUTION – IL PIANETA DELLE SCIMMIE Matt Reeves
EDGE OF TOMORROW Doug Liman
BURYING THE EX Joe Dante
LAST SUMMER Leonardo Guerra Seràgnoli
LE MERAVIGLIE Alice Rohrwacher
A GIRL WALKS HOME ALONE AT NIGHT Ana Lily Amirpour
LE DERNIER COUP DE MARTEAU Alix Delaporte
THE NARROW FRAME AT MIDNIGHT Tala Hadid
NIGHTCRAWLER – LO SCIACALLO Dan Gilroy
BIG HERO 6 Don Hall, Chris Williams
PHOENIX Christian Petzold
FLAPPING IN THE MIDDLE OF NOWHERE Hoang Diep Nguyen
REALITY Quentin Dupieux
REVIVRE Im Kwon-taek
IL PROCURATORE Ridley Scott
DEAREST Peter Chan
CHEN JIALING Tian Ye e Gu Yugao
THE BABADOOK Jennifer Kent
LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET 3D Jean-Pierre Jeunet
NEBRASKA Alexander Payne



Sospesi nel limbo

BIRDMAN Alejandro González Iñárritu
METAMORPHOSES Christophe Honoré
BIAGIO Pasquale Scimeca
RED AMNESIA Wang Xiao-shuai
ANIME NERE Francesco Munzi
BLACK AND WHITE Mike Binder
GOOD KILL Andrew Niccol
THE AMAZING SPIDERMAN 2 – IL POTERE DI ELECTRO Marc Webb
CLASS ENEMY Rok Bicek
EDEN Mia Hansen-Love
DUE GIORNI, UNA NOTTE Jean-Pierre e Luc Dardenne
IDA Pawel Pawlikowski
JERSEY BOYS Clint Eastwood
GODZILLA Gareth Edwards
LULU Luis Ortega
IN ORDINE DI SPARIZIONE Hans Petter Moland
THE GOLDEN ERA Ann Hui
LA SPIA Anton Corbijn
WINTER SLEEP – IL REGNO D’INVERNO Nuri Ceylan
TRASH Stephen Daldry
TIME OUT OF MIND Oren Moverman
GUARDIANI DELLA GALASSIA James Gunn
JACKIE & RYAN Ami Canaan Mann
MAGIC IN THE MOONLIGHT Woody Allen
WE ARE YOUNG. WE ARE STRONG Burhan Qurbani



E poi giù all’inferno

BOYHOOD Richard Linklater
INSIDE LLEWYN DAVIS Joel e Ethan Coen
12 ANNI SCHIAVO Steve McQueen
KAHLIL GIBRAN'S THE PROPHET Rogers Allers
INTERSTELLAR Christopher Nolan
THE CONGRESS Ari Folman TUSK Kevin Smith
LUCIFER Gust Van den Berghe
THE CUT Fatih Akin
MONUMENTS MEN George Clooney
LOIN DES HOMMES David Oelhoffen
ONE ON ONE Kim-ki Duk
NYMPHOMANIAC – VOLUME 2 Lars Von Trier
NYMPHOMANIAC – VOLUME 1 Lars Von Trier
THE HUMBLING Barry Levinson
TRANSCENDENCE Wally Pfister
LUCY Luc Besson
TRE CUORI Benoit Jacquot
IL RAGAZZO INVISIBILE Gabriele Salvatores
MANGLEHORN David Gordon Greene
AMERICAN HUSTLE David Russell
NOAH Darren Aronofsky
LA RANçON DE LA GLOIRE Xavier Beauvois
LO SGUARDO DI SATANA – CARRIE Kimberly Peirce
INDEX ZERO Lorenzo Sportiello
LOOKING FOR KADIJA Francesco G. Raganato
CYMBELINE Michael Almereyda
SOAP OPERA Alessandro Genovesi
MIO PAPA’ Giulio Base
LA VITA OSCENA Renato De Maria
ARANCE E MARTELLO Diego Bianchi

Restauri

LA PRINCIPESSA MONONOKE Hayao Miyazaki
LA CITTA’ INCANTATA Hayao Miyazaki
OPERAZIONE PAURA! Mario Bava



Appendice: L’uomo, la donna, il cane (flusso incontrollato di immagini e pensieri)

Ah Dieux! Adieu. Deux.
Addio.
Addio al linguaggio, dice Godard, torniamo alla visione di un cane, torniamo a due bambini che corrono in un campo.
Torniamo al cinema, o almeno balliamo sulle sue ceneri.
L’impossibilità del film al di fuori del cinema, la furia iconoclasta godardiana sciolta liquidamente nella dissolvenza, quale guerra tra le immagini, incapacità percettiva, persistenza retinica. Bisogna svuotare il linguaggio, dichiarargli guerra, e poi, ancora una volta, ricominciare. Tutto in Addio al linguaggio è movimento, gesto impossibile e quindi beffardo, ironico, sempre irrequieto da far male. Una volta che hai visto l’ultimo Godard ogni altra visione dell’anno si spegne nella mente, perché è un film così maledettamente, dolorosamente definitivo, da plasmarsi nel suo esatto contrario: in un nuovo inizio, un nuovo modo di vedere e sentire il cinema, che si beffe della terza dimensione e diviene tessuto esperienziale macchiato dall'errore (quello del nostro stesso occhio).



Scorro tra le immagini di un intero anno, ripenso subito al film straordinario di Andrea Tonacci, Ja Visto Jamais Visto e si proietta dinanzi ai miei occhi l'ipotesi di una storia alternativa. Questa storia nasce dall'incontro/scontro delle immagini di una vita. Icone prodotte da Tonacci nel corso degli anni, che riassembleate creano una sorta di geografia magmatica del mondo. Il linguaggio, fuso/triturato/reinventato di Godard, qui diviene una sorta di controlinguaggio, di processo mnemonico che porta inesorabilmente al cortocircuito di immagini che sostuiscono la vita stessa. Immagini che raccontano il tempo e superano lo spazio: ecco allora National Gallery di Wiseman che ci dice che i quadri ci guardano, ci scoprono, in un dialogo che supera qualsiasi confine fisico.
Tutte le cose che ho amato di più in questo 2014 riflettono sul ruolo delle immagini nell'era virtuale: da quel caleidoscopio di doppi e simulacri che risponde al nome di Gone Girl all'eccesso, alla bulimia, al montaggio strafatto di The Wolf of Wall Street che ringiovanisce il cinema di Scorsese, regalandogli quel pathos e quella carica ardente che era stata museificata dai suoi ultimi film. Ma soprattutto si pensi a quell'opera pazzesca che è Maps to the stars. Cinema che specchia il cinema, con tutte le deformazioni anamorfiche che questo comporta. Memore dei canyons di Hollywood, il film di Cronenberg sembra una soap-opera pullulante di fantasmi che non fanno più paura. Cronenberg arriva naturalmente a Maps to the stars, che è l'implosione di tutto il suo cinema, il seguito ideale di A dangerous method, l'ultimo film possibile dopo gli imperi della mente di lynchiana memoria. E in quest'operazione dove non c'è nulla di più profondo della pelle (e dunque della superficie), là dove Schrader si fermava con lo sguardo in macchina, Cronenberg rinnesca abilmente il mito. Maps to the stars è grande quando ci dice che il nostro futuro sono i fantasmi, gli spettri, gli archetipi stessi su cui è fondata l'intera società. Per contrappunto penso subito a De Oliveira e a quel libro che affonda nel mare in The Old man of Balem, ricordandoci il vuoto assoluto cui è destinata tutta la nostra cultura. E di vuoto parla anche Os Maias - (Alguns) Episodios da vide romantica di Botelho, che inscena un mondo letterario irrequieto e instabile, inesorabilmente attratto dall'oscurità e dalla morte (il decesso del vecchio padre mostrato con un lampo di luce è uno dei momenti più folgoranti di tutto l'anno).



Se in Os Maias è tutto concentrico e fatale, in Jauja di Lisandro Alonso, Viggo Mortensten supera i confini del tempo e dello spazio ritrovandosi all'interno di una Zona di stalkeriana memoria. Il 4:3 del formato, gli splendidi tableaux vivants, l'erranza come condizione esistenziale, la perdita e la Frontiera, riescono a creare una delle opere più ipnagogiche degli ultimi anni, retroilluminata da tutto ciò che è Altrove. Un altro film che recupera le traiettorie iconografiche del western per poi trasformarsi in qualcosa di mai visto e irriconoscibile è The Homesman, opera catastrofica e potentissima firmata da Tommy Lee Jones. Nel fuoco che fa da climax al film si bruciano tutte le classificazioni, tutte le parole, tutti gli sterili incasellamenti di "genere" per tornare solamente all'uomo e al suo dolore. Di fuoco e sangue è fatto anche Nobi, cinema-guerriglia puramente esperienziale, dove Tsukamoto avanza tra fango e interiora.
Di questo 2014 rimane anche quel bistrattatissimo film-cervello che è Pasolini, opera fluida e straziante in grado di raccontare l'individuo ancora prima del personaggio tramite dissolvenze, atti d'amore sconfinati che sono divenuti parte integrante dello stesso gesto filmico di Ferrara.
E tra le notti bianche di un postino, buffi lavoratori dell'industria del divertimento, donne ebree rifugiate nel grembo della natura, serpenti di nuvole e poeti che urlano contro statue di sabbia, ripenso immediatamente a La storia della Principessa Splendente. Tra le parole di una canzone che è un'ode all'aria, al cielo e alla terra, mi riscopro ancora una volta a piangere. Il film di Takahata è un miracolo.