sabato 14 dicembre 2013

Il dispiegarsi dello sguardo:
intorno a "Stray Dogs" di Tsai Ming-liang




il dispiegarsi di Tsai dello sguardo degli sguardi di tutta la vita davanti agli occhi mentre frammenta la storia le storie immaginando una nuova arca come un'altra morte che corre sul fiume quella del cinema al cinema nessun movimento scompare anche l'uomo rimane lo schermo solo lo schermo se ne va anche l'audio è solo silenzio poi il buio che non si dissolve ma arriva quando l'immagine è ormai giunta al suo massimo grado di durata emotiva esplodendo scoppia tornando fotografia come l'apocalisse che (non) parla al cavallo di Torino addio al cinema addio mentre le crepe sono le rughe dei muri nessun tempo fuori dal tempo.

*Parole sospese e giochi d'apnea che avevano seguito la visione di "Stray Dogs" al festival di Venezia. Film definitivo del maestro Tsai Ming-Liang. Ancora oggi mi sembra l'unico modo per poter parlare di questo incredibile film.

In un mare di canneti
Onibaba di Kaneto Shindō




"Il buco, profondo e oscuro. La sua oscurità dura fin dai tempi più remoti".

Un mare suadente, instabile ma infinito di canneti.
Percussioni che rimbombano, un sax che sembra prevedere ogni peccato, ogni ingiustizia, ogni bramosia d'amore.
L'oceano è il microcosmo di piante mosse dal vento che si agitano come onde mentre disegnano figure concentriche quali nuove, asfissianti geometrie.
Non rimane altro che correre nella notte, o ardere, vittime di un fuoco erotico che sembra l'unica ragione prima della futura dannazione.
"Onibaba" mi ha ricordato il movimento della danza ancestrale, dei riti pagani e dei racconti infernali, delle superstizioni e dei fantasmi: quel folle, magico mondo dell'amore e della morte dove si riflette microscopicamente la storia di un Giappone medievale immerso tra guerre e carestie. Qui due donne sopravvivono alla fame e alla miseria uccidendo uomini e vendendo poi le loro armature.
"Onibaba" è il film delle paludi e degli spettri, di una bestialità animalesca sempre pronta a tornare a galla, ma soprattutto di una sessualità repressa e di un desiderio incondizionato (penso al sentimento passionale, vendicativo e ardente della gelosia, alla scena meravigliosa di quel tronco rigido, eretto, da abbracciare e tutelare dopo aver spiato orgasmi da cui si è esclusi). Si rimane sempre in equilibrio precario, sospesi e in bilico, sopra quel buco nero di ossa dimenticate.
Perché poi quella maschera del demonio che non si leva più dalla pelle, che "proteggeva" la bellezza e la purezza di un giovane, ha il potere di distruggere tutto: nessun oltre metafisico, il demone è già dentro di noi.



venerdì 13 dicembre 2013

Paradisi pacchiani e perduti
Behind the Candelabra di Steven Soderbergh




Con questo suo ennesimo ultimo film Steven Soderbergh si è veramente superato. "Behind the Candelabra" non è solo un film coltissimo e intelligentissimo, ma è, soprattutto, l'esposizione del corpo nudo e fragile di un intero sistema: è il dietro i candelabri, il retroscena dello star system e della patina glamour. E' il mondo sfavillante degli showman iconici che non invecchiano mai, disegnato all'interno di una traiettoria scintillante e coloratissima. Traiettoria, del resto, tutta pervasa di quel nulla mellifluo che si andava a formare a cavallo tra gli anni '70 e '80. Bene, tutta questa realtà viene risucchiata in una dimora che è prima di tutto un museo, un tempio religioso in cui celebrare il culto di se stessi: gioielli, statue, goduriosi bagni nell'oro, oasi kitch che sprofondano in paradisi pacchiani e perduti. Ma allora dove siamo? Non certo in un biopic di Liberace ma piuttosto in un racconto d'amore come contratto di possessione: si inscenano rapporti di potere che svelano un mondo di solitudine estrema. Pulsioni incontrollate si susseguono come lati oscuri del desiderio, eccessi di libidine abitati da una dolente, fragilissima umanità: c'è un senso di morte che pare invadere tutto il film, riflettendosi in ogni gioco di colore, in ogni luce sfavillante, in ogni canzone.
Come se sotto la pelliccia si situasse un mondo già finito. E' la forma stessa del film, la medesima finzione scenica, a fare corto-circuito, a dichiarare la sua essenza mortifera in ogni inquadratura.

E non si parla mai di morte senza l'ipotesi di un amore romantico e arditissimo, esclusivo e devoto: l'amore di quel ragazzo fedele e innamorato disposto a perdere letteralmente la propria faccia, a diventare un figlio, un sosia, un doppio di Liberace perché solo così Liberace sa e può amare: nella vana eppur necessaria duplicazione di se stesso. L'icona, per essere tale, deve vivere senza tempo e morire fuori dal tempo, non può permettersi di invecchiare né di sembrare altro da ciò che (non?) è: ecco dunque il ripetersi incessante di operazioni di chirurgia estetica, infiniti perfezionamenti di un volto sempre più immobile, che ha perso la sua fisiognomica elasticità in favore di una maschera fissa (non è l'ipotesi di eternità il nuovo paradiso del freak partorito chirurgia estetica?). Una nuova gioventù figlia del bisturi, pronta a glorificare la pelle artificiale.



Al punto tale che il vero aspetto di Liberace, quello di un anziano fragile, calvo eppur vero, risulti ai nostri occhi come osceno. E Michael Douglas e Matt Damon, da sempre icone di hollywoodiana mascolinità, abbandonano corpi, status e virilità.
E mentre suona il piano riecheggiano le parole di Liberace, che vola come un angelo verso un'altra stella: "Perché ti amo? Ti amo non solo per come sei, ma per come sono io quando sto con te. Ti amo non solo per quello che sei diventato, ma per quello che mi fai diventare. Ti amo perché tralasci l'eventualità della mia pochezza ed accogli le possibilità della bontà in me...Perché ti amo? Ti amo perchè distogli lo sguardo dalle mie contraddizioni e perché addolcisci la musica in me con il tuo accorato ascoltare. Ti amo perché mi aiuti a costruire la mia vita, non un tugurio ma un tempio. Ti amo perchè hai fatto così tanto per rendermi felice, facendolo senza parole senza un gesto senza un segno. L'hai fatto essendo semplicemente te stesso. Forse, dopo tutto amare significa questo. Ed è per questo che ti amo".

Piccolo post-scriptum: "Behind the Candelabra" mi sembra una sorta di epitaffio, di chiosa, di conclusione perfetta della carriera cinematografica di Steven Soderbergh. Il suo è sempre stato un cinema travestito, mutaforma e multiforme: un cinema di pelle, volti e superfici che non sono mai pelle, volti e superfici. Come chi indica con un dito quella cosa lì che non è mai (solo) quella cosa lì (Magic Miike, Effetti Collaterali, The Girlfriend Experience, Knockout e così via, titoli esemplari pronti a dimostrarlo). Un cinema che non è quello che sembra, pervaso com'è di macguffin, false piste e traiettorie inattese.

lunedì 25 novembre 2013

"Die Andere Heimat -
Chronik Einer Sehnsucht"
Prime impressioni sull'ultimo Reitz




Incollo qui le prime impressioni di post-visione di ormai alcuni mesi fa riguardo all'ultimo capolavoro di Edgard Reitz visto al festival di Venezia.

In attesa dell'uscita al cinema di "Die Andere Heimat - Chronik Einer Sehnsucht" (31 Marzo-1 Aprile) riposto le mie parole sul capolavoro di Reitz datate festival di Venezia 2013.
Sehnsuct è una parola tedesca che sta ad indicare la passione struggente, la malattia dolorosa o la spinta vitale di chi anela a un oltre indefinito ma è impossibilitato a raggiungerlo: sincera, dolente passione romantica che s'impossessa di corpo e mente e conduce letteralmente alla rovina (perché l'uomo in fondo è quella coscienza infelice troppo fragile, troppo piccola per il mondo che la circonda).
Tapanama è una parola indiana che significa "ritorno alla fine del tempo". Ed è il tempo ad interessare ad Edgar Reitz che dilata e ipnotizza, scolpisce e indaga. Il tempo delle ragazze che si rotolavano nude sull'erba sotto lo sguardo di chi aveva appena scoperto il primo amore. Il tempo della festa, tra passi di danza e fiumi di vino riconquistato. Il tempo dello sguardo e di qualche dolce, spensierata parola, prima del rimpianto di tutto ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato.



Ecco allora "Die andere Heimat - Chronik einer Sehnsuct", estasi di cinema puro, esperienza ineguagliabile che vive di visioni infinite e bagliori lontani.
Questo è il cinema, viene da dire, perché Reitz, oltre a essere un grandissimo narratore di storie (e di Storia), è regista di spazi infiniti ma anche cantore dell'uomo e dei suoi limiti, della fragile potenza del sogno e di quell'infinita indecifrabile nostalgia: nostalgia per mondi straordinari, quelli letti sui libri o sognati di notte, nostalgia per le grandi avventure e per i viaggi sterminati. Nostalgia, dolcissima e tremenda, per tutto ciò che c'è ma è da un'altra parte, lontano troppo lontano per essere acchiappato. Nostalgia per quei luoghi che sembra di conoscere da sempre, come ombre di vite mai vissute ma sempre adorate.
(e, mentre piangi per quattro ore speri che tutto questo possa non finire mai: l'immagine resiste ai titoli di coda e ritorna, baluginante, alla mente). Enorme.



Ricognizioni cameroniane: "Titanic"
l'ultimo grande classico




Mi sto sempre più convincendo di come "Titanic" rappresenti, a tutti gli effetti, l'ultimo grande classico della storia del cinema.

E' una questione di immagine e di grandezza, di estetica, di codici, di umori e di ritmo, è una questione puramente cinematografica di ambizioni e movimenti di macchina, primi piani e respiri leggendari, di giovani attori trasformati in star perché già si conosceva il potere dirompente del Mito.

Il cinema d'altronde impara dal passato a costruire leggende, anche se si basa sulla storia vera. "Titanic" di James Cameron si situa fuori dal tempo proprio perché è un film d'amore incredibilmente ingenuo, che ha il coraggio e la voglia di credere in delle relazioni umane che sono fuori tempo massimo, in un romanticismo estraneo non solo all'oggi ma perfino agli anni '90: ha la forza, prima di tutto, di farsi suggestionare dalla visione e dal sogno, contrapposti al mondo della patina e del lusso.

Ma poi ti rendi conto di come tutto questo sia il canto del cigno della materia, la risposta abissale del cinema - e della Storia - all'oggetto, al dècor, all'abbigliamento, all'immagine stessa di un'intera classe sociale. Tutto, ma proprio tutto, finirà nel fondo dell'oceano, come un raro diamante.

D'altronde mi piace identificare il Titanic con il cinema stesso. Ho sempre visto nella nave dei sogni il simbolo di un mondo che c'era e non esiste più, ma sempre in grado di riprendere vita con il ricordo (e dunque col linguaggio). Un enorme pachiderma che, una volta riesumato, ritornerà a naufragare (e a vivere oltre il tempo, fuori dal tempo).

Chissà forse è stato proprio il film di Cameron, in questa sua lontana sensuale dolcissima classicità, a immaginare la sua stessa scomparsa (la scomparsa di quel modo esagerato, magniloquente, gigantesco di concepire il cinema, di fare il cinema, di vivere il cinema), a favorire l'ingresso di un mondo e di una visione in procinto di superare la materia, tutti tesi verso un'invisibilità ormai prossima, verso un avatar spettrale e un inevitabile regno di simulacri.



Fear of Falling di Jonathan Demme




Inizia Fear of Falling di Jonathan Demme e il miracolo di una visione incredibile si sostanzia inquadratura dopo inquadratura. Testo teatrale divenuto film, Cinema (proprio lui, vero, autentico, grande Cinema) che entra dalla porta d'ingresso presentandosi a venti minuti dall'inizio del film, quando cambia il formato, si allarga lo schermo, e appare lei, visione angelica e indefinibile, irradiata di luce come la Margherita del Faust di Sokurov e come poche, altre epifanie visive.
E allora ci si perde tra le parole, troppe, tante, troppo poche, lasciandosi cullare da attori che sembrano posseduti da un'energia vitale, da una follia distruttiva che incendia il film a ogni movimento di macchina.
Ancora: il primissimo piano di un volto di donna che da solo è una geografia infinita e misteriosa dove perdersi senza trovare più vie di fuga. Danza di luce e movimento verbale coincidono.
E quei venti minuti finali, che vivono nella trasparenza di un riflesso, nel sogno di una vita gigantesca che è stata "detta" e che è divenuta carne: solo allora immaginiamo il costruttore pronto a scalare la torre e a vedere il cielo.


O Novo Testamento de
Jesus Cristo segundo Joao

"In principio era il Verbo".



"O Novo Testamento de Jesus Cristo segundo Joao" di Joaquim Pinto e Nuno Leonel, è una di quelle esperienze incredibili che possono accadere solo in sala. Una voce legge il Vangelo secondo Giovanni raccontando macchie di luce in movimento che si disperdono dall'alba al tramonto. Il potere della parola (che fu in origine) apre il film ad immagini di una natura ancestrale, a dei controluce che sembrano indagare tremolanti, esitanti, vibranti, ogni elemento in campo. Figure indefinite che nascono dall'oscurità.
Il film di Pinto e Leonel è popolato da un'infinità di immagini che si disvelano soprattutto al momento della loro assenza, del loro nascondimento. Mettere in scena il Verbo significa, prima di tutto, svelare un mondo di immagini, che sono prodotte, sedotte, ipnotizzate nell'istante stesso in cui vengono a mancare.
Lo schermo diviene nero e non rimane altro che la parola. Immaginare una sala cinematografica completamente raccolta nell'oscurità, pronta a fissare una non-immagine (che è insieme l'immagine per eccellenza, lo schermo nero, la vocazione mentale) restituisce la dimensione di una visione cultuale e ipnotica, uno stato ipnagogico, di dormiveglia in cui il cinema comunica come voce nel buio.
Poi l'immagine ritorna. E così la figura umana. Per poi svanire di nuovo.
Straordinario proprio nel suo essere così radicalmente visivo.

Lui e Lei:
"Venere in Pelliccia" di Roman Polanski




“Il signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una donna”

In novanta minuti Roman Polanski dischiude mondi, tradizioni e ribaltamenti di ruolo, intelaia un film bellissimo e complesso che gioca sulle diverse declinazioni del rapporto di potere.
Con l'ombra di Masoch che aleggia per tutta la durata del film, in un continuo meccanismo di rovesciamenti, Polanski delinea prima il rapporto tra regista e attrice, interpretando la "regia" come desiderio di dominio sulla materia-uomo, desiderio che comprende, al suo interno, la stessa brama di esser dominati; nessuna contraddizione, solo coesistenza di istinti opposti che non possono che abitare la stessa casa: il teatro.
Dal legame fra regista e attrice si passa al rapporto fra i sessi: il dominatore che diviene schiavo, l'umiliazione e il dolore come forma di comunicazione e appagamento.



Tutto questo viene tradotto in un meccanismo di scatole cinesi, in una messa in scena (all'interno del film) che avanza ipertrofica (con)fondendosi con la vita stessa. Più si va avanti più risulta difficile distinguere i livelli: verso il finale qualsiasi dichiarazione "esterna" ai personaggi risulta spiazzante, come se Polanski infrangesse equilibri per poi riunirli, ricodificarli. Tutto ritorna alla danza nebbiosa di quella Venere in Pelliccia che emula la voce della Dietrich mentre finge di bere un caffè.

Ciò che continua a sorprendere in Polanski è il senso innato, vertiginoso di ritmo, la totale padronanza di una messa in scena che si fa squisitamente semplice, acquistando la grandezza immutata dei classici. Due attori meravigliosi (con Amalric dichiarato alter-ego di Polanski), al servizio di dialoghi scritti con un'intelligenza e una raffinatezza impressionanti. E' un piacere vedere come Polanski continui a "giocare", contribuendo ad edificare quella gigantesca cattedrale di maschere, di ruoli, di doppi che pare il suo cinema. Dai travestitismi di "Cul de Sac" e "L'inquilino del terzo piano", alle due coppie in frantumi di "Carnage".
Il suo cinema sta implodendo: ormai gli servono solo un uomo e una donna. Lui e Lei. Restringe il campo, asciuga, svela.

Un (ennesimo) plauso al maestro.



domenica 13 ottobre 2013

Sull'inevitabilità della Storia:
"Sul Globo d'Argento"
di Andrzej Zulawski




Ci sono dei film.

Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, che sarebbe impossibile (e sbagliato) riuscire a condensare, a riassumere, a rinchiudere entro determinati schemi.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, per cui ogni parola è ingiusta, perché sfuggono a qualsiasi controllo, perché sono più belli di qualsiasi cosa che si potrebbe esprimere, dire o affermare.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, che non richiedono altro se non di lasciarsi vivere, perché conservano una potenza intatta e disarmante, una rabbia devastante, un'idea di cinema che è già pronta a scavalcare tutto il resto.

Idea di cinema che si traduce in un gesto filmico reiterato, in una visuale distorta, eccessiva e grandangolare (se non deforme perfino fastidiosa, insinuosa e sensuale, definitiva, innamorata eppure così dolcemente aurorale).



Aprire gli occhi.
Guardare.
Tornare a sorprendersi per tutto, proprio tutto e aver paura, immemori di inizi e di finali, dimentichi della direzione del film perché ormai non è più "solo" un film. Lasciarsi trasportare, perdersi forse, e amare fino in fondo quella perdita, quella mancanza, quel disagio che è, è stato, e sarà l'Opera vera, lontana, irraggiungibile.

Guardando "Sul Globo D'Argento" si ha come la percezione di un tempo che scorre diversamente, di un modo di intendere il cinema, l'immagine, la Storia, l'umanità, completamente fragile, umano, devastante. Il film è tutto lì, nella sua stessa incompiutezza, in quelle parole pronunciate da Zulawski mentre vaga per strade polacche: la parte "aggiunta" rappresenta una riflessione gigantesca sul cinema in grado di sconfiggere tutto il resto, su un "atto di resistenza" che va salvaguardato, protetto da qualsiasi fattore esterno, da qualsiasi regime o proibizione.

Ciò che sorprende è il continuo disorientamento operato da Zulawski, il suo imperterrito abissale far sentire fuori posto lo spettatore, che diviene nomade in un altro regno della visione, più oscuro, più ignoto perfino più doloroso. Come un Tarkovskij virato in blu, pregno di rabbia e risentimento, che ha bisogno di urlare, perché crede nel corpo prima di tutto come movimento instabile, come possessione che domina la carne, come continuo, inafferrabile momento della verità. La parola, componente fondamentale del film, assume un aspetto fondamentale, quello di una carnificazione del sentimento, una sorta di protesi stessa del corpo.



Non è cinema che si racconta perché "Sul Globo D'Argento" è un film che si può solo sentire (e subire e assorbire) sulla propria pelle, che richiede allo spettatore di perdersi in un regno che non può che essere dominato dal caos. Che poi sia l'intera storia umana il manifestarsi animalesco, bestiale di quel caos è la teoria zulawskiana: la nuova civiltà nata da un sogno generoso è condannata a essere un doppione della storia della Terra. Questo è il film sull'inevitabilità della catastrofe, sul fatto che tutto avvenga - e avverrà - allo stesso modo, con le stesse facce, all'interno dell medesimo mito aurorale, della medesima grande dimora.

Si arriva addirittura a esistere e a rivivere all'infinito solo in virtù di una grande storia d'amore e dolore. Ognuno è, è già stato e sarà, poiché ci assomigliamo tutti e non siamo altro che l'ennesima versione di un mito iniziale (ma non era questa la premessa geniale anche de "La terza parte della notte", splendido esordio di Zulawski?): come doppioni infiniti, estreme copie di un "vecchio uomo" primordiale. Ecco dunque l'immagine Cristica di un regno della sofferenza, dove l'avvenire si configura come il nostro stesso passato. Ogni demone, ogni Shern, siamo noi. Ripenso al "Diavolo" e all'inevitabilità del male, alle proiezioni dell'inconscio, alle paure che prendono forma, alla possessione e al mostro ipodermico che è in noi ("Possession" e l'angoscia insostenibile di chi ha scambiato il bene con il male, di chi si è corrotto in un mondo capovolto e scivola nell'equilibrio instabile del caos).

Da spettatori siamo infine chiamati a vedere-non vedere e completare: radiografia dello sguardo o forse indagine del cuore. E ritrovarsi testimoni di ogni domanda, di ogni lamento, di ogni urla e convulsione, mentre si assiste (disorientati) a un video registrato prima del tempo, a una visione per cui non si è mai troppo pronti.

E' meraviglioso pensare che esista tanto cinema così grande da scoprire. .

mercoledì 9 ottobre 2013

Il regno del caos:
"Il diavolo" di Andrzej Zulawski




"Dio esiste o no? Una volta per tutte!"
"Una volta per tutte, no!"
"E chi si prende gioco degli uomini, Ivàn?"
"Dev'essere il diavolo" ridacchiò Ivan.
"Ma il diavolo esiste?"
"No, neppure il diavolo".
"Peccato. Che il diavolo mi porti, so io che cosa farei a chi ha inventato per primo Dio! Impiccarlo a una tremula sarebbe poco!"
"Ma non vi sarebbe la civiltà se non avessero inventato Dio"
.
(Fedor Dostoevskij "I fratelli Karamazov")

Genesi ideale de "Il diavolo" di Zulawski.
Siamo oltre i grandi inquisitori, in quell'assoluta, abominevole, tremenda banalità del male e delle (re)azioni (in)umane. La Polonia tardosettecentesca, ferita, invasa, lacerata, è un autentico inferno sulla terra, un viaggio negli abissi più oscuri e reconditi dell'animo (?) umano. Non rimane altro se non l'orrore, l'orrore per tutto ciò che è e non può essere, ma soprattutto per il ricordo (offeso, umiliato, negato) di tutto ciò che era e non potrà più essere.



Dostoevskianamente un mondo senza Dio è un mondo in cui tutto è lecito: crolla la morale, crollano le leggi e le norme, crolla la dimensione dell'altro e quella della compassione, muore un intero sistema di valori e si finisce per dimenticare i divieti più antichi, quelli riguardanti il sesso e la morte.
Là dove cessa il regime della proibizione tramonta l'idea stessa della civiltà e, di conseguenza, il desiderio s'inibisce, la speranza muore, il buon auspicio diviene un miraggio: se si può tutto non si desidera più niente. Ci si lascia condurre in una spirale cieca e senza via d'uscita: il corpo non ha altro modo di esprimersi se non attraverso l'epilessia e la convulsione. Si cessa allora di vivere per lasciarsi vivere, come impossessati da un caos primordiale (ma d'altronde non è attraverso il corpo che si definisce la caduta, la follia e dunque la possessione?). Cade qualsiasi tipo di tensione verso l'alto in favore di una schiavitù nei confronti della carne tremula e di un pensiero completamente, definitivamente autodistruttivo.
Il mondo è finito.
Apocalittico, frenetico e maestoso, bellissimo come tutte le cose più orrende, questo è il mondo rovesciato di Zulawski, quello dell'assoluta indifferenza per le cose umane: tutto è permesso d'altronde, non rimane altro da fare che vedere (e far finta di vivere) come in uno specchio oscuro.
Solo allora s'instaura il regime del caos.



martedì 1 ottobre 2013

L'abisso siamo noi:
"La terza parte della notte"
di Andrzej Zulawski





Assisto all'esordio di Zulawski con la precisa volontà di essere tramortito, di guardare sentire percepire le immagini e venirne soggiogato (e i suoni, e la colonna sonora, e i volti, e il sangue, e i batteri, e i virus, tutto, proprio tutto!). Quello che richiedo, ansiosamente, devotamente, è solo di lasciarmi inabissare. Perché nel cinema, nel cinema che amo, Io voglio prima di tutto perdermi.

Zulawski imprime su pellicola la sua stessa frenesia, muove la macchina come se essa fosse un arto claudicante, bisognoso di agire, di dire e fare finché può. Un arto che si muove perché si sente in pericolo in questo mondo e ha il bisogno viscerale dell'ansia, dell'isteria e dell'eccesso perché solo allora può credersi (e sentirsi) vivo.



La terza parte della notte, meccanismo espanso e vitale portato fino a parossismo, risonanza infinita di donne che vissero due volte e inquilini del terzo piano. L'esordio di Zulawski è un film sul doppio esponenziale, sulla realtà in cui tutti siamo uno, dove l'identico ritorna in continuazione, fino a mandare in corto-circuito l'intero sistema (ovvero: fino alla follia di ogni singolo uomo). Ogni vita, ogni esistenza, è indipendente, come una sfera a parte, un mondo privato e personale separato fin dall'inizio da tutto il resto (ma esiste poi un resto che non sia illusorio, dono o miraggio di gentile concessione?). "Le persone" si dice nel film "si muovono su orbite che sono così lontane tra loro, si incontrano così di rado e quando lo fanno non sono quelle che avrebbero dovuto incontrarsi". Tra sangue e pidocchi Zulawski inscena l'incubo di un mondo arrivato alla catastrofe, di un sentire o sentore apocalittico nella Polonia occupata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. In questo inferno sulla terra non si può fare altro che rivivere la propria vita, incontrare i propri demoni e scoprire che loro - proprio loro - hanno il nostro stesso volto. L'abisso, il male, il portatore del virus, siamo noi. Ma noi siamo, allo stesso tempo, l'antivirus. Non esiste scissione, si vive nella danza di forze opposte, mai conciliabili, complesse e sfinenti: il germe è l'anticorpo, l'anticorpo è il germe. Negli occhi del protagonista il suo stesso annientamento. Nella vita si annida il principio della morte. Ne consegue che ogni uomo sia un abisso.
Nella vita si annida il principio della morte.
Ne consegue che ogni uomo sia un abisso.

venerdì 23 agosto 2013

Architetture di specchi:
"Adam Resurrected" di Paul Schrader




«La sanità mentale è piacevole e calma ma non c'è grandiosità, né vera gioia, né il dolore terribile che dilania il cuore».

Ho fermato più volte le immagini per cercare cosa si nascondesse dietro a uno sguardo, per poter comprendere meglio il senso di un dolore autentico, mai patinato, mai strumentalizzato, all'interno di una storia così straordinaria.
Ho trovato il bianco e nero di Sternberg, sempre a un passo dall'esplosione, ma anche i labirinti mentali in cui perdersi di Fuller. Ho ascoltato e riascoltato la voce off mentre osservavo Jeff Goldblum immenso, capace di dire tutto, ma proprio tutto, in uno sguardo. Che fosse il cane di un nazista con la faccia di Willem Dafoe o l'eccentrico "malato" all'interno di un istituto di igiene mentale nel deserto non fa poi differenza: la sua resurrezione avverrà nel deserto, a pochi passi da quella struttura architettonica razionalista, algida e rigorosa dove concentrare tanto disordine.
Allora ho visto rivisto “la storia di un uomo che un tempo era un cane, e che incontra un cane che un tempo era un ragazzo”.



Perché "Adam Resurrected" è un film di specchi (del cinema, della follia, dell'identità) che ne riflettono altri (della Storia, della religione, dell'altro). La mente stessa si palesa come una complessa architettura di specchi, dove la memoria procede per ellissi, rimandi e risonanze. Forse si potrà rintracciare in questi specchi, trasversalmente, il riflesso di tutti gli altri grandi personaggi Schraderiani (fu Giona Nazzaro ad identificare "Adam Resurrected" come l'ipertesto Schraderiano per eccellenza). Ed ecco l'ennesimo cammino di redenzione: come un cane nel deserto che per guarire deve estirpare il suo padrone.
E Paul Schrader, geniale creatore di immaginari e sperimentatore di nuove forme, non ha mai smesso di raccontarci un'umanità che deve affrontare i propri demoni per poter ricominciare a respirare. Era così oltre trent'anni fa con "Hardcore", è così in "Adam Resurrected". Del resto rimane uno dei talenti più visionari, nascosti e sottovalutati del nuovo cinema Americano degli anni '70, uno dei pochi, della sua generazione, ancora interessato a quelle identità scisse, labili e controverse che vivono nel deserto seppure si illudano di essere star ("Auto.Focus") o fascinosi gigolò ("American Gigolò").



giovedì 15 agosto 2013

Qualcuno deve gridare
che costruiremo le piramidi




«C'è una speranza che l'uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall'evidenza dei fatti?»
(Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo)

Salto nel vuoto, salto d'amore.
Il cinema di Tarkovskij è situato a un passo dalla catastrofe, in un mondo troppo impegnato a continuare la sua farsa per poter realmente vedere. Il suo profeta, che sia uno stalker, uno scrittore o un pittore, può riconciliarsi con la terra e con l'assoluto solo tramite il gesto. Solamente un atto estremo, che appare insensato, completamente al di fuori della ragione, deliberatamente gratuito, potrà salvare il mondo (come credere nella stanza dei desideri o lanciare dei dadi per indicare la strada all'interno della zona). La dinamica del sacrificio percorre il cinema tutto di Tarkovskij sottolineando il momento di una dolorosa conciliazione, l'ipotesi (e l'augurio) di un'unica, estrema salvezza dell'uomo. Credere, ancor prima di vivere (perché la bellezza, è proprio vero, salverà il mondo). L'Eroe di Tarkovskij è figlio dell'Idiota doestoevskiano, è fragile (ma quella sua fragilità, quella sua debolezza è forza ed è vita), dolente, tutto umano, e si trova già da solo in piedi sul vortice del nulla, eppure è ancora in grado di saltare.
Per guarire il mondo un uomo fa l'amore con una strega e poi brucia una casa. Bisogna guardare oltre: come la tradizione russa insegna il folle rimane l'ultimo dei santi. Un avventuriero potrà volare prima del tempo con un pallone aerostatico (ma la creazione richiede sempre un sacrificio, volare significherà anche morire), e un ragazzino farà suonare la campana nonostante non conosca il segreto della fusione. E, lontano dalla sua casa e dalla sua terra, Gortčakov attraverserà la piscina di Bagno Vignoni, nel tentativo assurdo, estenuante, devoto di non far spegnere la fiamma, di conservare ancora la luce.
Solo un gesto estremo potrà salvare il mondo.

«Qualcuno deve gridare che costruiremo le Piramidi, non importa se poi non le costruiremo» (Domenico in "Nostalghia")



Come in uno specchio: fede, speranza e amore. Love Exposure di Sion Sono




Istanti di luce.
L'amore è radioattivo, l'esposizione ai suoi raggi è abbagliante.
Speranza, fede e amore dice San Paolo nella prima lettera ai Corinzi.
E' lungo il percorso della rinascita, perché non c'è vita senza amore. E' lo sguardo, il primo sguardo, a segnare per sempre la visione (e la vita), e quando gli occhi non basteranno saranno le mani a unirsi dopo aver tanto patito il mondo.
Cercarsi, (ri)cercarsi, amare e negare. Perché anche qui l'Amore vince sulla religione, sulla società e sulla famiglia, ma soprattutto l'Amore vince la Morte.
Capolavoro sfavillante, immenso nella sua leggerezza, melting-pot di immagini, visioni, umori differenti. "Love Exposure" è un film in continua erezione, che si desidera, si riempie e si svuota, intreccia e ritorna alla sua prima esposizione. Ma è anche il diario personale di Sion Sono che racconta, in fin dei conti, la storia di un'educazione alla visione: fotografare le mutandine delle ragazze, imparare a "vedere" dalla miglior posizione possibile: la macchina fotografica è l'arma, protesi dell'occhio e sua grandiosa possibilità di conservazione.



Sion Sono si mette in discussione, rischia, non si perde, non ha paura del ridicolo nè del trash: d'altronde la storia di un pervertito che amava solo una donna (la sua Maria) è anche il racconto archetipale della ricerca di una fede, nell'attesa di poter tornare fuori a vedere di nuovo la luce.
Speranza, fede e amore per l'appunto.
Uno dei film più importanti ed abissali del nuovo millennio (e in pochi se ne sono resi conto). Semplicemente incredibile: d'altronde vediamo come in uno specchio, con l'obbligo di crescere e la paura di perdere ciò che amavamo. E quando Yoko urla a Yu il capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi di San Paolo, il mondo sembra cadere, tutto è destinato a cedere per essere invaso dalla forza prorompente (e divampante) dell'amore e della salvezza.



"Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo.
Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla.
Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente.
L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.
L'amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita; poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito.
Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino.
Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.
Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l'amore"



venerdì 2 agosto 2013

Lo sguardo prima di tutto.
Auto Focus di Paul Schrader




Lo sguardo prima di tutto.
Poter vedere e rivedere, guardare più da vicino, di fronte a una realtà che sarà per sempre schermo. La rappresentazione non è solo entrata nelle nostre case, incoraggiata dalla riproduciblità tecnica e dal mito del progresso, ma è sempre stata dentro di noi. Nessun nuovo organo, nessuna nuova protesi o tecnologia che non fosse già, sempre e comunque, nell'essere umano. L'ossessione abita, ancora una volta, la carne. Ma soprattutto l'ossessione abita il sesso ("Mirate al sesso!" si urlava nell'ultimo Carax).



In "Auto Focus", lucidissima quanta sottovalutata opera di Schrader, l'ossessione voyeuristica subisce un transfert tecnologico: guarda più da vicino, riavvolgi il nastro, torna avanti e indietro, monta e ricomincia a guardare. Ovvero la sessualità nell'era della riproducibilità tecnica, quella che ha preceduto internet ma ha iniziato a immaginare una rete (di sguardi e fruizioni). Il "domestico", l'artigianale, il video divengono subito gli strumenti di una nuova proliferazione pornografica: ed è allora che l'ossessione bulimica sconfigge il desiderio. Filmare vuol dire registrare, spudoratamente (s)velati, non solo gli altri ma (soprattutto) se stessi. Ecco allora che guardare diviene guardarsi, con passione ed eccitazione: follie libidinali come indici di nuove identità.

L'ossessione narcisista del protagonista viene condannata dal tempo: il voyeurismo si rivela una spinta autodistruttiva, una pulsione scopica incontrollata e difficilmente censurata.
Ecco dunque "Auto Focus", ennesima riflessione Schraderiana sul conflitto tra istinto e ragione.


mercoledì 31 luglio 2013

L'atleta dei sogni:
Werner Herzog e la sua Fata Morgana




Mi ha sempre colpito moltissimo il racconto di come Werner Herzog fosse riuscito a filmare miraggi in "Fata Morgana". Non più mettere in scena l'invisibile, ma trovarlo, scoprirlo, svelarlo, e poi sentirsi traditi. In Herzog non c'è messa in scena che non sia già vita. Filmare qualcosa che esiste in un altro luogo, chissà a quanti chilometri di distanza, ed impressionarla su pellicola. La trovo una cosa straordinaria.
Sinfonia lisergica e primordiale, culla del mondo e spettro infinito, "Fata Morgana" è un film da completare e in cui perdersi a lungo (a partire dalla straordinaria sequenza iniziale, autentico test per lo spettatore): il paesaggio del deserto africano, così lontano, antico, immobile e piatto, ha il potere di azzerare la visione e farla ripartire da capo (come se non ci fosse stato niente lì in mezzo, come se fosse stato tutto, per l'appunto, una fata morgana). E quindi, assistendo a "La creazione", al "Paradiso" e a "L'Età dell'oro", Lotte Eisner recita versi del testo sacro Popol Vuh e un varano cammina sul braccio di uno scienziato: blocchi di immagini che ipnotizzano, sequenze alla deriva, idee di film mai visti che emergono dal profondo. Sempre oltre la fine, un passo dopo il limite, Herzog è l'atleta dei sogni.

Di seguito estratto da "Incontri alla fine del mondo" di Werner Herzog:
«Un miraggio è il riflesso speculare di un oggetto che esiste davvero e che puoi vedere, anche se non lo puoi realmente toccare. (...) Il migliore esempio che posso fornire è la sequenza del pullman che si sposta all'orizzonte. E' un'immagine strana: il pullman sembra quasi galleggiare sull'acqua er le persone sembrano scivolargli dietro, invece di camminare. Il caldo quel giorno era inimmaginabile. Noi avevamo una sete tremenda e sapevamo che alcuni pullman tenevano scorte di ghiaccio a bordo, così, appena abbiamo fermato la cinepresa, ci siamo precipitati là, ma non abbiamo trovato tracce per terra. Nessun segno di gomme. Non c'era niente in quel momento e non c'era stato niente prima; eppure noi avevamo filmato quelle immagini».

lunedì 29 luglio 2013

Discesa negli inferi per un calvinista
"Hardcore"




Discesa negli inferi per un calvinista.
Jake, industriale bigotto, va alla ricerca della figlia entrata nel mondo del porno. Il secondo film diretto dal tanto grande quanto sottovalutato Paul Schrader (sceneggiatore di "Taxi driver", "Toro scatenato" e "Mosquito coast", ma anche regista, tra gli altri, di "Affliction", "American gigolò" e "Auto.focus") esplora i lati più oscuri dell'animo umano, racconta la perdita dell'innocenza, il marciume che si nasconde dietro a un uomo e a un paese intero. L'America pornografica e sadomasochista è dietro l'angolo tanto da diventare l'altra faccia dell'America perbenista, religiosa e puritana. Del resto Schrader, calvinista in fuga che a diciott'anni scopre il mondo, è sempre stato ossessionato dagli strati più sotterranei ed abissali dell'animo umano. L'Inferno non è nel mondo, non è il mondo, ma si trova sotto la crosta o la superficie, come a dire: l'inferno siamo noi, è la prospettiva dolorosa di dover convivere con noi stessi. La redenzione è a un passo dalla regressione, la violenza scaturisce dalla rabbia, dal silenzio, dalla repressione e da un'educazione che ha dimenticato il resto del mondo.



Il sesso diviene così un'ossessione cieca e compulsiva, non solo nell'ambito pornografico, ma agli occhi stessi di chi lo demonizza. Film conciliante solo in apparenza, mai moralista, mai facile, che racconta il marciume senza eccitazione e senza biasimo. Le colpe dei padri generano incubi claustrofobici da cui sarà per sempre impossibile uscire. Non c'è nessun lieto fine nel film di Schrader, anche se così potrebbe sembrare: non esistono ritorni a casa, il mondo precedente è finito per sempre. Si ha come l'impressione di una solitudine estrema, di un'impossibilità fisiologica di un autentico lieto fine. Basti pensare alla relazione che sembrava quasi paterna con la prostituta che lo aiuta nelle ricerca, quando in realtà lei rappresenta per Jake un mero strumento.
"Torniamo a casa" diceva John Wayne a Natalie Wood, dopo aver affrontato i suoi demoni e le sue ossessioni, nel suo inferno personale. Bigotto e razzista, i suoi abissi erano gli indiani. Negli anni '70 il nuovo abisso è il sesso.
Enorme, è quasi pleonastico sottolinearlo, George C. Scott.


venerdì 26 luglio 2013

Canto elegiaco di un presente che non c'è:
"Prima della rivoluzione"




«Ricordati Fabrizio, non si può mica vivere senza Rossellini»

Ogni giorno di più mi viene da pensare alla carriera di Bernardo Bertolucci: a un percorso che parte dai territori pasoliniani de "La commare Secca" fino ad arrivare a quel dono prezioso, a quella cantina-mondo che è "Io e te".
Ritorno indietro a "Prima della rivoluzione", secondo film della sua carriera che dimostra, una volta di più, tutta la potenza energica, vibrante e dirompente del suo cinema. Un cinema che è sempre stato profondamente giovane e ribelle, un cinema che avrebbe voglia di esplorare il mondo ma racconta universi chiusi e senza via di scampo. Un cinema che ha la capacità di interrogarsi non solo su ciò che c'è stato prima di lui, ma anche su ciò che verrà. Un cinema che lucido dichiara che il presente non esiste più, ma si può vivere solo nei ricordi, lasciando che la realtà faccia poi il suo corso. Un cinema che non è mai timido, ma è ambizioso, vivo e testardo, come l'uomo che lo porta avanti.
"Prima della rivoluzione" è il racconto di un mondo che finisce e di uno nuovo che sta per nascere. In mezzo a tutto questo un flusso ininterrotto di elegie e di ricordi, di corpi e seduzioni, di occasioni e di sconfitte, di parole e nostalgie. Ma l'unica nostalgia che esiste non è quella per il passato ma quella dolorosa per il presente.
Per finire "Prima della rivoluzione" appare ancora oggi, dopo cinquant'anni un film fresco che sembra prodotto nella Francia godardiana/truffautiana, perché ha la stessa voglia di vita (e di cinema) dei film della Nouvelle Vague. E' un (melo)dramma musicale che è il racconto di una crisi, di chi ha amato cinema e letteratura, Rossellini e Hawks, Melville (lo scrittore) e la sua balena bianca. Tutto finisce e si fa canto elegiaco di un presente che non c'è.
Grandiosa colonna sonora.
E amore incondizionato.


mercoledì 17 luglio 2013

Animali. E poi forse uomini.
La promessa dell'assassino



Ripenso alla sequenza del bagno turco de "La promessa dell'assassino". Immagini laceranti che rimangono impresse nella mente, selvagge e primitive, sporcate dal sangue e da un senso di umana, ancestrale bestialità.
Animali prima che uomini?
C'è una fisicità che emerge poderosa e prorompente, un corpo che è istinto prima che ragione, macchiato da sempre da quel peccato originario che ci ha resi, in fin dei conti, uomini. Quella messa in scena da Cronenberg è una violenza primordiale, atavica, Kubrickiana, con tutte le possibilità di eludere perfino il mito del “buon selvaggio” di Rousseau. Un paradigma della violenza.
Che arriva.
E che fa male.

Vorrei scrivere tante altre cose, vorrei parlare dei tatuaggi come indici di identità, come segni o ferite corporee, come cicatrici, tracce che scavano nelle derive patologiche dei loro "portatori"; vorrei parlare della mafia russa trapiantata a Londra, di quel finale pazzesco, di quel senso di impotenza, di fragilità, di umiliazione del bene nei confronti del male. Vorrei anche rivederlo perché film come "La promessa dell'assassino" sono ferite bellissime che non si rimarginano mai.


venerdì 24 maggio 2013

Sognando Laura, la donna del ritratto




Il nero da cui nascono le immagini.
Il nero dove finiscono le immagini.
Il noir.
Strade perdute e fatali, nascono e muoiono nell'oscurità.
Detective di cul de sac di celluloide, indagatori di circoli chiusi, naufraghi in detour spaventosi, erriamo in un mondo dove ogni fuga è impossibile, dove il volto si perde tra le atmosfere fumose nebbiose brumose degli interni. Ma il noir che ho imparato ad amare più di ogni altro è quello che sfuma e rimanda a doppi sogni, che è onirico perché fa dell’ambiguità una prassi incontenibile e necessaria.
E’ “Laura”, un nome del cinema, un nome da cinema, un nome un'immagine un titolo (divenuto “Vertigine” nella traduzione italiana) del grande Otto Preminger, coevo di altri due capolavori come “La donna del ritratto” di Fritz Lang e “La fiamma del peccato” di Billy Wilder. La pulsione più violenta si rivela quella istintiva, quella di un amore che è ormai ossessione cieca ed esclusiva. Tracce di un amour fou che svela nel melodramma le origini più fiammeggianti del noir, rivelandosi precocemente moderno nella costruzione della storia come struttura narrativa. Siamo negli anni '40 ma il vertigo, la sensazione di un'inevitabile, fatale incompiutezza, abita inquieta in tutto il film.
"Vertigine" parte con la voce off che emerge dall’oscurità del pigmalione di Laura: flashback iniziale “impossibile”, data la morte dello stesso narratore (siamo già nel ricordo dall’oltretomba? Parlano già i morti come in “Viale del tramonto”?). Il triangolo del mistero (omicidio-mistero-indagine), pone inizialmente la domanda fondamentale di ogni detection classica: chi ha ucciso Laura? Ma all’improvviso avviene qualcosa. C’è un modernissimo cambio di punto di vista (PDV): gli occhi sono adesso quelli del detective. Il PDV può cambiare solo per amore e infatuazione, quando Laura diviene la torbida, affascinante ossessione di un altro uomo. Ma ciò che è interessante è il progressivo declassamento della struttura: al detective che analizza prove e fatti con la logica di un metodo scientifico, distaccato, si sostituisce il detective umanamente interessato al caso; Laura si configura come immagine per eccellenza, come spettro erotico che seduce nel distacco e nella lontananza di un quadro. E’ possibile innamorarsi di un'immagine (Fritz Lang "dialogava" cinematograficamente con Preminger girando “La donna del ritratto”)? Il detective s’infatua dell'idea di Laura, mentre si culla nel sonno e dà vita alle sue fantasie: la donna del ritratto prende così vita, si materializza improvvisamente, ma la materia di cui è fatta appare subito onirica e inafferrabile.



Laura, vittima e oggetto dell’indagine, ricompare, viva e vegeta. E' un'altra donna a essere morta (il pretesto banalissimo e sublime della campagna: i sogni sono sempre pretestuosi). Uno smacco al genere di questo tipo riunisce prima del tempo falsa pista, macguffin, e infatuazione surrealista presentando tutta la seconda parte come apparenza, illusione, ipotesi di sogno conturbante ed abissale.
Penso e ripenso a Preminger, vedo e ricerco Lynch.
Mulholland drive” e la sua struttura bipartita. Il tema del doppio che ritorna resuscitato da un impulso erotico che è la chiave d’(in)comprensione del film. Si spalanca, occultandosi, quel confine labile che separa la realtà dall’immaginazione (mi domando quanto Lynch debba aver amato il film di Preminger per prolungare la “vertigine” Laura in "Twin Peaks").
Ecco dunque emergere un disagio più grande e inafferrabile, una tensione che non è nella storia ma va prima e oltre essa. La natura umana non è narrativa, esclude qualsiasi ipotesi razionale, per ribollire continuamente dagli abissi dell’inconscio. Il noir si fa genere sotterraneo, pulsionale ma soprattutto erotico. E’ l’eros che regola i rapporti di potere, le indagini e le illusioni. Di conseguenza il detective MacPherson (Dana Andrews) risulta sempre più coinvolto, sempre più uomo e sempre meno archetipo: anche l’eroe ha un cuore, ma soprattutto anche l’eroe sogna la donna del ritratto.