venerdì 23 agosto 2013

Architetture di specchi:
"Adam Resurrected" di Paul Schrader




«La sanità mentale è piacevole e calma ma non c'è grandiosità, né vera gioia, né il dolore terribile che dilania il cuore».

Ho fermato più volte le immagini per cercare cosa si nascondesse dietro a uno sguardo, per poter comprendere meglio il senso di un dolore autentico, mai patinato, mai strumentalizzato, all'interno di una storia così straordinaria.
Ho trovato il bianco e nero di Sternberg, sempre a un passo dall'esplosione, ma anche i labirinti mentali in cui perdersi di Fuller. Ho ascoltato e riascoltato la voce off mentre osservavo Jeff Goldblum immenso, capace di dire tutto, ma proprio tutto, in uno sguardo. Che fosse il cane di un nazista con la faccia di Willem Dafoe o l'eccentrico "malato" all'interno di un istituto di igiene mentale nel deserto non fa poi differenza: la sua resurrezione avverrà nel deserto, a pochi passi da quella struttura architettonica razionalista, algida e rigorosa dove concentrare tanto disordine.
Allora ho visto rivisto “la storia di un uomo che un tempo era un cane, e che incontra un cane che un tempo era un ragazzo”.



Perché "Adam Resurrected" è un film di specchi (del cinema, della follia, dell'identità) che ne riflettono altri (della Storia, della religione, dell'altro). La mente stessa si palesa come una complessa architettura di specchi, dove la memoria procede per ellissi, rimandi e risonanze. Forse si potrà rintracciare in questi specchi, trasversalmente, il riflesso di tutti gli altri grandi personaggi Schraderiani (fu Giona Nazzaro ad identificare "Adam Resurrected" come l'ipertesto Schraderiano per eccellenza). Ed ecco l'ennesimo cammino di redenzione: come un cane nel deserto che per guarire deve estirpare il suo padrone.
E Paul Schrader, geniale creatore di immaginari e sperimentatore di nuove forme, non ha mai smesso di raccontarci un'umanità che deve affrontare i propri demoni per poter ricominciare a respirare. Era così oltre trent'anni fa con "Hardcore", è così in "Adam Resurrected". Del resto rimane uno dei talenti più visionari, nascosti e sottovalutati del nuovo cinema Americano degli anni '70, uno dei pochi, della sua generazione, ancora interessato a quelle identità scisse, labili e controverse che vivono nel deserto seppure si illudano di essere star ("Auto.Focus") o fascinosi gigolò ("American Gigolò").



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