venerdì 24 maggio 2013

Sognando Laura, la donna del ritratto




Il nero da cui nascono le immagini.
Il nero dove finiscono le immagini.
Il noir.
Strade perdute e fatali, nascono e muoiono nell'oscurità.
Detective di cul de sac di celluloide, indagatori di circoli chiusi, naufraghi in detour spaventosi, erriamo in un mondo dove ogni fuga è impossibile, dove il volto si perde tra le atmosfere fumose nebbiose brumose degli interni. Ma il noir che ho imparato ad amare più di ogni altro è quello che sfuma e rimanda a doppi sogni, che è onirico perché fa dell’ambiguità una prassi incontenibile e necessaria.
E’ “Laura”, un nome del cinema, un nome da cinema, un nome un'immagine un titolo (divenuto “Vertigine” nella traduzione italiana) del grande Otto Preminger, coevo di altri due capolavori come “La donna del ritratto” di Fritz Lang e “La fiamma del peccato” di Billy Wilder. La pulsione più violenta si rivela quella istintiva, quella di un amore che è ormai ossessione cieca ed esclusiva. Tracce di un amour fou che svela nel melodramma le origini più fiammeggianti del noir, rivelandosi precocemente moderno nella costruzione della storia come struttura narrativa. Siamo negli anni '40 ma il vertigo, la sensazione di un'inevitabile, fatale incompiutezza, abita inquieta in tutto il film.
"Vertigine" parte con la voce off che emerge dall’oscurità del pigmalione di Laura: flashback iniziale “impossibile”, data la morte dello stesso narratore (siamo già nel ricordo dall’oltretomba? Parlano già i morti come in “Viale del tramonto”?). Il triangolo del mistero (omicidio-mistero-indagine), pone inizialmente la domanda fondamentale di ogni detection classica: chi ha ucciso Laura? Ma all’improvviso avviene qualcosa. C’è un modernissimo cambio di punto di vista (PDV): gli occhi sono adesso quelli del detective. Il PDV può cambiare solo per amore e infatuazione, quando Laura diviene la torbida, affascinante ossessione di un altro uomo. Ma ciò che è interessante è il progressivo declassamento della struttura: al detective che analizza prove e fatti con la logica di un metodo scientifico, distaccato, si sostituisce il detective umanamente interessato al caso; Laura si configura come immagine per eccellenza, come spettro erotico che seduce nel distacco e nella lontananza di un quadro. E’ possibile innamorarsi di un'immagine (Fritz Lang "dialogava" cinematograficamente con Preminger girando “La donna del ritratto”)? Il detective s’infatua dell'idea di Laura, mentre si culla nel sonno e dà vita alle sue fantasie: la donna del ritratto prende così vita, si materializza improvvisamente, ma la materia di cui è fatta appare subito onirica e inafferrabile.



Laura, vittima e oggetto dell’indagine, ricompare, viva e vegeta. E' un'altra donna a essere morta (il pretesto banalissimo e sublime della campagna: i sogni sono sempre pretestuosi). Uno smacco al genere di questo tipo riunisce prima del tempo falsa pista, macguffin, e infatuazione surrealista presentando tutta la seconda parte come apparenza, illusione, ipotesi di sogno conturbante ed abissale.
Penso e ripenso a Preminger, vedo e ricerco Lynch.
Mulholland drive” e la sua struttura bipartita. Il tema del doppio che ritorna resuscitato da un impulso erotico che è la chiave d’(in)comprensione del film. Si spalanca, occultandosi, quel confine labile che separa la realtà dall’immaginazione (mi domando quanto Lynch debba aver amato il film di Preminger per prolungare la “vertigine” Laura in "Twin Peaks").
Ecco dunque emergere un disagio più grande e inafferrabile, una tensione che non è nella storia ma va prima e oltre essa. La natura umana non è narrativa, esclude qualsiasi ipotesi razionale, per ribollire continuamente dagli abissi dell’inconscio. Il noir si fa genere sotterraneo, pulsionale ma soprattutto erotico. E’ l’eros che regola i rapporti di potere, le indagini e le illusioni. Di conseguenza il detective MacPherson (Dana Andrews) risulta sempre più coinvolto, sempre più uomo e sempre meno archetipo: anche l’eroe ha un cuore, ma soprattutto anche l’eroe sogna la donna del ritratto.


venerdì 3 maggio 2013

Prime impressioni di post-visione:
"To the wonder" di Terrence Malick




Sospeso e svuotato.
Primi commenti di post-visione, poche parole in occasione di poterne scrivere in maniera più approfondita.
Vorrei parlare della scomparsa e dell'assenza, di come si possa saturare il vuoto, di quell'abisso percepito a ogni inquadratura, a ogni stacco netto, a fine film.
Vorrei parlare di quel profondo senso d'inquietudine, solitudine e nostalgia, ben sapendo che non ci sono più alberi della vita né grandi Storie in cui potersi rispecchiare.
Si nasce nel digitale della bassa definizione, nella consapevolezza che la bellezza pervade ogni cosa di questo mondo, ma nella tragica situazione di chi non riesce più a vederla né a sentirla. Come nomadi che cercano di catturare con lo sguardo ogni piccola epifania di luce, ogni singola rivelazione, mi rendo conto che guardare è cercare (ed amare). Ma ci ritroviamo soli, sempre soli.
Il progetto Malick, a mio avviso, inizia a delinearsi più chiaramente. In terre desolate nullifica la narrazione tornando sempre al crepuscolo, dove ogni immagine è tesa a squarciarsi, addizionandosi e inabissandosi.
Solo lui sa muoversi in perfetto equilibrio tra sublime e banale, tra bello e ridicolo.
"To the wonder" è un'opera talmente fragile che distruggerla sarebbe facilissimo.