giovedì 31 dicembre 2015

Bella e perduta




Questa cosa qui è la cosa più bella che abbia visto al cinema da diverso tempo a questa parte. Mi scopro commosso a osservare le soggettive di un bufalo, i viaggi di Pulcinella, gli sguardi post-mortem dell'Angelo del Carditello. E negli occhi dell'animale intercetto un sussulto, una luccicanza, un'improvvisa poesia che sembra bruciare la pellicola. In un modo o nell'altro, si potrebbe dire, Au hasard Sarchiapone: questo è il cinema che più amo, questo è il cinema che vorrei inseguire perfino sulla luna. Nei campi-controcampi tra animali eccola lì quell'improvvisa compassione, quel sopportare insieme i dolori del mondo. Uniti. Vicini. Grande, grandissimo Pietro Marcello.

Rabo de Peixe




l'incredibile capacità di essere tra la gente, di fare di un villaggio il mondo, di rendere il proprio cinema sempre disposto a rimontarsi, reinventarsi, rinascere, in un processo aperto, che può non finire mai...il film delle vacanze incontra la malinconia di uno sguardo consapevole di non poter fermare il tempo. Che registi, che personalità straordinarie Joaquim Pinto e Nuno Leonel...dopo il loro grandioso Vangelo, ecco Rabo de Peixe, uno dei pochi film che sono riuscito a vedere al TFF.

The Visit




Sui confini tra commedia e horror, sull'inquietudine che sposa il ridicolo, sulle deviazioni scatologiche come anticamera inquieta di una senilità che spaventa proprio perché vicina, sulla follia come meccanismo basico della paura. Che bello questo piccolo grande ritorno horror di Shyamalan che con "The Visit" firma un'opera dai contorni indefiniti, molto più libera di quanto potrebbe sembrare. Il film è in definitiva il geniale passo indietro di un autore, il modo stesso in cui il suo intero cinema regredisce verso il punto alfa, la radice stessa dell'immaginario horror.

The Heart of the sea - Le origini di Moby Dick



Incantato dalla meraviglia di un cinema che non esiste più, "The Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick" è un grande romanzo filmico d'avventura, miracolosamente fuori tempo massimo, che crede ciecamente nel fascino dell'ignoto, nella parabola dell'eroe, nella sfida titanica contro forze più grandi di noi. L'ultimo Ron Howard si apre a squarci pittorici di una potenza rara, fino a far ardere lo schermo nella mastodontica sequenza del fuoco. Cinema americano classico per eccellenza che risplende nel suo porsi come pura, grandiosa estasi narrativa.

Irrational man




Mi dispiace, ma anche questa volta non ci sono riuscito. "Irrational Man" mi è parsa l'ennesima, lampante testimonianza di come il cinema di Woody Allen sia ormai ingabbiato in un marchio, in un format, nell'ombra stessa dell'autore che fu. I suoi film, ormai da anni, procedono da soli con un'andatura programmatica e annoiata. Ogni azione è palese manifestazione di un'idea che sorveglia e guida tutti dall'alto: non c'è un guizzo, uno svincolo, una via di fuga. Quello che Allen continua a consegnarci è un teatrino di piccoli uomini che agiscono senza mai trovare un istante di libertà, dove non c'è spazio nemmeno un secondo per un sentimento, per un'emozione, per una verità dei personaggi: ognuno è così maledettamente convinto di ciò che fa da non perdere mai realmente la bussola. Tutto è incastonato nella mente razionale e matematica di un autore che gira bulimicamente senza credere più nei film che realizza. Sarà sicuramente un problema mio, ma io Allen, l'Allen degli ultimi venti anni, con l'eccezione di quel colpo di fulmine che fu "Blue Jasmine", continuo a non capirlo e - cosa più grave - a non sentirlo.

Il Ponte delle Spie




Ci sarebbero tante, tantissime cose da dire su "Il ponte delle spie" di Steven Spielberg e spero di poterlo fare presto. Intanto mi lascio gentilmente cullare dai postumi di una delle visioni più intense, più eleganti, più incondizionatamente umaniste dell'anno. Non avevo alcun dubbio: Steven Spielberg continua a credere nell'uomo, nel singolo in grado di fare la differenza. Tom Hanks è - ancora una volta - il suo James Stewart, il cantore morale di un mondo affondato che può riportare a galla unicamente con la sua fede cieca nei confronti dell'altro. Nell'eleganza formale di ogni piano, nella luce bianca, abbagliante, che supera le cornici dell'immagini e invade sempre il campo, riscopro l'alfabeto sentimentale - e mai sentimentalista - del cinema che più amo. Che è un cinema di sguardi, di grandi imprese, di uomini tutti di un pezzo detentori di un codice etico e di un'umanità a dir poco disarmanti. E la sequenza innevata dello scambio sul ponte è solo uno dei momenti di grandissimo cinema che Spielberg continua a regalarci. Per non parlare di quel finale, di quello sguardo sul mondo e sugli uomini, che traduce in pochi istanti il senso stesso stesso del gesto filmico spielberghiano. Che è un gesto, ancora una volta, carico d'amore.

Ritorno alla vita: il mio 2015 cinematografico




Arriva, come sempre, il mio personale archivio di visioni dell’anno che sta per giungere al termine. Non si tratta di una classifica convenzionale, ma di una sorta di piccolo atlante di suggestioni del 2015: oltre ai film usciti in sala, prendo in considerazione anche le visioni festivaliere e vari altri recuperi lontani dalle sale. Ci tengo sempre a sottolineare che questo giochino da cui non riesco a sottrarmi è altamente, fieramente instabile: è un magma di titoli non troppo ponderati, sono scintille, piccole esplosioni di cuore prima ancora che di cervello. Come al solito il modo migliore per partire è iniziare da ciò che manca in questa lista: non troverete gli ultimi film di registi che amo come Apichatpong Weerasethakul, Hou Hsiao-hsien, Hong Sang-soo, German jr., De Oliveira, Larrain e molti altri perché, purtroppo, non sono riuscito ancora a recuperarli. In attesa di poterli inserire in futuro, vi auguro buona lettura e, soprattutto, buone visioni!


L’oltre – Cronache dal Paradiso
(dove non può esistere paragone alcuno, perché nel regno dell’oltre non ci sono numeri o stellette che tengano. L’ordine, di conseguenza, è puramente casuale)

BLACKHAT Michael Mann
MAD MAX: FURY ROAD George Miller
RITORNO ALLA VITA Wim Wenders
TROIS SOUVENIRS DE MA JEUNESSE Arnaud Desplechin
THE WALK Robert Zemeckis
IL PONTE DELLE SPIE Steven Spielberg
FRANCOFONIA Aleksandr Sokurov
RABIN, THE LAST DAY Amos Gitai
INSIDE OUT Pete Docter, Ronnie del Carmen
OFFICE 3D Johnnie To
11 MINUT Jerzy Skolimowski
PER AMOR VOSTRO Giuseppe M. Gaudino
AMERICAN SNIPER Clint Eastwood
BELLA E PERDUTA Pietro Marcello


Gemme preziose
(Qui e nelle prossime due "sezioni" c’è un ordine, più istintivo che ragionato, dall’alto in basso).

45 ANNI Andrew Haigh
CAROL Todd Haynes
TURNER Mike Leigh
GLI UOMINI DI QUESTA CITTA’ IO NON LI CONOSCO. VITA E TEATRO DI FRANCO SCALDATI Franco Maresco
IN JACKSON EIGHTS Friedrick Wiseman
MOUNTAINS MAY DEPART Jia Zhang-ke
AFTERNOON Tsai Ming-liang
ANANKE Claudio Romano
IT FOLLOWS David Robert Mitchell
FOXCATCHER Bennet Miller
SANGUE DEL MIO SANGUE Marco Bellocchio
VIZIO DI FORMA Paul Thomas Anderson
RABO DE PEIXE Joaquim Pinto e Nuno Leonel
LOUISIANA Roberto Minervini
UNA NUOVA AMICA François Ozon
MIA MADRE Nanni Moretti
NON ESSERE CATTIVO Claudio Caligari
IL NEMICO INVISIBILE Paul Schrader
IN THE HEART OF THE SEA – LE ORIGINI DI MOBY DICK Ron Howard
MICROBE & GASOLINE Michel Gondry
TIMBUKTU Abderrahmane Sissako
SAUL FIA László Nemes
MATE-ME POR FAVOR Anita Rocha da Silveira
THE WHISPERING STAR Sion Sono
MISSION IMPOSSIBLE: ROGUE NATION Christopher McQuarrie
IL VIAGGIO DI ARLO Peter Sohn
A BIGGER SPLASH Luca Guadagnino
THE VISIT M. Night Shyamalan
LA CALLE DE LA AMARGURA Arturo Ripstein
JIA Shumin Liu
DAL RITORNO Giovanni Cioni
EVA NO DUERME Pablo Aguero
L’HERMINE Christian Vincent
JUPITER – IL DESTINO DELL’UNIVERSO Andy & Lana Wachowski
HUNGRY HEART Saverio Costanzo
SICARIO Denis Villeneuve
THE MARTIAN Ridley Scott
EX MACHINA Alex Garland
DHEEPAN Jacques Audiard
A FLICKERING TRUTH Pietra Brettkelly
MAN DOWN Dito Montiel
JURASSIC WORLD Colin Trevorrow
BAGNOLI JUNGLE Antonio Capuano
EQUALS Drake Doremus
SPOTLIGHT Tom McCarthy
LO CHIAMAVANO JEEG-ROBOT Gabriele Mainetti
INTO THE WOODS Rob Marshall
THE EVENT Sergei Loznitsa
ANT-MAN Peyton Reed
EL CLAN Pablo Trapero
GIOVANI SI DIVENTA Noah Baumbach
TRUTH James Vanderbilt



Sospesi nel limbo

BEHEMOTH Zhao Liang
HITCHCOCK/TRUFFAUT Kent Jones
JUNUN Paul Thomas Anderson
ABLUKA (FRENZY) Emin Alper
EVEREST Baltasar Kormákur
COSMOS Andrej Zulawski
IL RACCONTO DEI RACCONTI Matteo Garrone
GIRLS LOST Alexandra-Therese Keining
THE FIGHTERS – ADDESTRAMENTO DI VITA Thomas Cailley
THE DANISH GIRL Tom Hooper
MARGUERITE Xavier Giannoli
SPECTRE Sam Mendes
MONSTER HUNT Roman Hui
GRANDMA Paul Weitz
AMAMA Asier Altuna Iza
THE FORBIDDEN ROOM Guy Maddin
STAR WARS: IL RISVEGLIO DELLA FORZA J.J.Abrams
PIXELS Chris Columbus
MUSTANG Deniz Gamze Erguven
EXODUS – DEI E RE Ridley Scott



E poi giù all’Inferno

BLACK MASS Scott Cooper
TOMORROWLAND Brad Bird
HEART OF A DOG Laurie Anderson
DE PALMA Noah Baumbach e Jake Paltrow
LAND OF MINE Martin Zandvliet
WINTER OF FIRE Evgeny Afineevsky
LEGEND Brian Helgeland
ROOM Lenny Abrahmson
IRRATIONAL MAN Woody Allen
MARAVIGLIOSO BOCCACCIO Paolo e Vittorio Taviani
INTERRUPTION Yorgos Zois
CENERENTOLA Kenneth Branagh
THE IMITATION GAME Morten Tyldum
EXPERIMENTER Michael Almereyda
L’ATTESA Pietro Messina
TERMINATOR GENESIS Alan Taylor
WHIPLASH Damien Chazelle
ANOMALISA Charlie Kaufman
UNBROKEN Angelina Jolie
FREEHELD Peter Sollett
LA DELGADA LINEA AMARILLA Celso Garcia
BIG EYES Tim Burton
THE ENDLESS RIVER Oliver Hermanus
THE CONFESSIONS OF THOMAS QUICK Brian Hill
BEAST OF NO NATION Cary Fukunaga
GO WITH ME Daniel Alfredson
REMEMBER Atom Egoyan
YOUTH Paolo Sorrentino



Appendice: parole in disordine su primi piani, duelli e notti blu

Solo uno sguardo, un ultimo sguardo prima di morire. Gli occhi vitrei, congelati, tristissimi di chi è ancorato alla terra ma fissa il cielo: ecco come risplende ammaliante il seguito impossibile di Miami Vice. Nell’ultimo, potentissimo capolavoro di Michael Mann emerge l’estremo, dilagante romanticismo di un autore che scavalca costellazioni virtuali, realtà cibernetiche, hackeraggi invisibili per tornare nientemeno che ai corpi. Mann supera i regimi numerici della rete per lasciarsi andare alla materia, allo scontro di un cinema che (r)esiste, all’ultima, roboante mascherata post-ciminiana di un carnevale fatale. Blackhat supera le velocità extracorporee per ritornare al peso stesso del duello: dal file digitale alla massa corporea, dal virus elettronico allo squarcio fisico. Ed è questo il cortocircuito più grande del 2015 cinematografico: ritagliarsi attimi di tempo per sfuggire alle metastasi cancerogene del mondo, intercettare sguardi perduti capaci di cristallizzare la durata, interrompe il flusso dirompente dell’azione. Come nel 2006, quando Colin Farrell, malinconico come mai, perdeva il suo sguardo nel cielo e viveva un’avventura melò fuori-formato che spezzava i geniali disequilibri del film. Nessun cineasta come Michael Mann è in grado di astrarre il racconto, di interessarsi alle particelle, ai fuori-campo, alle deflagrazioni stesse dell’immagine all’interno delle rovine di un genere. Perfino più di Wong Kar-wai, perfino più di The Grandmaster (per certi versi opera affine a Blackhat).



E mentre l’action-movie si trasforma nel desiderio infinito di salvare quei corpi e quei cuori che noi siamo, George Miller, rockstar impazzita reduce da Babe il maialino coraggioso, si fa carico di blindocisterne, velocità supersoniche e rock acrobatico, per cantare le gesta della sua invincibile guerriera Furiosa e del suo mitico Max. Nelle notti fatate di Mad Max, con quel blu pittorico di zulawskiana memoria (canta ancora il globo d’argento), riscopriamo la magia di una luce calda che accende, scalda, irradia un cuore smarrito in un campo deserto. Mad Max: Fury Road è il miglior action-movie da tanti anni a questa parte, perché svuota completamente la narrazione e ci lascia in balìa di un’eccitante, febbricitante estasi visiva: inebriati da luci, colori, corpi e testosterone, ci lasciamo andare al piacere assoluto ed eroticissimo del movimento.
Se poi volessimo fare i conti con il vuoto, richiedere al cinema un ennesimo volo antigravitazionale, dovremmo salire a bordo del nuovo flight cinematografico di quel geniaccio di Robert Zemeckis, cantore sacro della nostra infanzia. Desideriamo ancora rimanere in bilico con lui in The Walk e vorremmo passeggiare su quel filo per tante altre vite, tanti altri spazi, tanti altri mondi. Mai come oggi lo spettatore rischia seriamente di farsi male, di cadere in quello spaventoso vuoto che è ai suoi piedi (il 3D inverso più bello che si sia mai visto: l’immagine non ci viene più addosso, siamo noi a scivolarle dentro). E ripensiamo a Doc e Marty mentre scorrono i sogni funamboleschi di un cineasta che, film dopo film, rimane sempre più in piedi sul gorgo del nulla. Le Torri Gemelle sono ancora a New York, al cinema, solo al cinema! Per ricordarci che un unico bellissimo gesto può riuscire a redimere il reale. Per ricordarci che si può ancora fare un film à la Frank Capra perfino nel 2015. Lo sa Zemeckis, lo sa ancora di più Steven Spielberg. Con Tom Hanks che fa James Stewart, i cerchi si chiudono, e vediamo una luce, un bagliore, un biancore che non esiste in nessun altro luogo sulla terra se non nel cinema di papà – quello consumato dai nastri visti rivisti troppe volte. Il Ponte delle Spie, da vedere insieme a The Terminal, è l’ennesimo, commovente atto di fiducia nei confronti dell’uomo da parte del Gigante buono.



Ma dov’è l’altra parte? Le immagini di repertorio, le tragedie del contemporaneo, il reale che imita sempre di più la finzione, fino al paradosso estremo di un cinema del reale. Il mantra cinematografico di quest’anno non può che essere l’assassinio di Rabin, l’immagine mancante, la voce che ci richiama, l’immagine-destino di un intero popolo. Si spalanca allora l’ultimo gigantesco film di Amos Gitai come se fosse il rebus cruciale di un’intera cultura. Rabin – The Last Day (che arriva dopo il folgorante, solitario Tsili) è il film sul giorno dopo (ma anche il film del giorno dopo), l’opera che più di ogni altra può, deve, vuole, può guardare avanti, ma sa che passato, traccia e cenere sono materia del futuro. Un po’ come Francofonia di Aleksandr Sokurov, entrambi i film sono oggetti liquidi, dove l’immagine è camaleontica, il montaggio si fa gesto fluido, incostante, fuori dal tempo (nel suo sforzo di essere sempre e comunque nel tempo). Non c’è differenza tra il girato di oggi e il girato di ieri, tra le preziose immagini dell’Istituto Luce e un primo piano fragilissimo del Pulcinella di Bella e perduta.
Siamo in totale (con)fusione.



Pietro Marcello gira su pellicola rovinata mentre ci regala la più bella fiaba del cinema italiano (quella che racconta un mondo fatto interamente di soglie), quel folle di Skolimowski allestisce diabolicamente il canto funebre del digitale mentre annega in un mare di pixel (eppure rimane sempre un punto nero ribelle). 11 Minut, ovvero tutto il tempo prima della fine del mondo (ma non siamo in 4:44, qui la fine non è l’attesa ma è l’inizio, la composizione stessa dell’immagine numerica). Dicevamo, 11 Minut è il film sul cinema che è e che sarà, quello che si prende tempo, che gioca a fare De Palma perché sa che non c’è più percorso, non c’è più traiettoria che non preveda una smisurata, colossale implosione (che film enorme il suo, così diverso, così lontano da Essential Killing eppure già lì, incastrato in quello stesso, generosissimo sguardo). Sommersi da questo mare magnum di immagini non rimangono che urla mute (A Bigger Splash), sedie lasciate vuote (Francofonia e Afternoon), astrazioni di un viaggio che si vorrebbe sempre ricominciare (Carol), ultimi balli prima che la nuova faccia del capitalismo faccia capolino (Office 3D) e primi piani che aprono varchi temporali (Ananke) mentre sognano nuovi cinema possibili, nuove vite che nascono dai resti del mondo: il film di Claudio Romano è un vero e proprio gesto politico, una piccola, grande nuova aurora.



Rimane il desiderio grandissimo di vedere il corpo, il volto, l’occhio di quel cadavere perfettamente conservato in un ghiacciaio: lei, eterna giovinezza, lei, volto trasognato che supera il tempo, lei, immagine negata, lei, amata, spensierata gioventù. E’ l’immagine più forte di 45 anni proprio perché è l’unica immagine che non c’è. Sei felice che non ci sia, ma la desidereresti così ardentemente da convincerti di averla già vista, da essere persuaso che quella donna sia nel film (un po’ come Jessica Chanstain che c’è/non c’è in To The Wonder). Altrove, si giocano le sorti del mondo, si parla di guerra osservandone causticamente i riflessi, le schegge impazzite, i momenti in cui si può ancora tornare uomini. Il proiettile in ralenti che buca lo schermo in American Sniper, l’ultimo incompreso tassello di Clint Eastwood. Il film che racconta l’educazione alla guerra, l’omicidio come gesto automatico e, ancora di più, la maledizione terribile di riportare il conflitto tra le mura domestiche. Gli fa eco il più acerbo, ma non meno interessante, Man Down dove il reduce americano è il soldato che arriva a identificare il nemico con la propria moglie. E’ l’America suicida, quella che si autodistrugge, che mina le sue fondamenta pur di continuare a vivere.



Ma il 2015 è stato anche l’anno della miopia critica nei confronti di alcuni grandi, sottovalutatissimi ritorni. E’ stato l’anno di Wim Wenders che, con Ritorno alla vita ci regala uno dei più intimi giochi di specchi del suo cinema. Un personalissimo hereafter dominato da un montaggio interessato solo agli echi privati, alle avventure del cuore, alle stagioni dell’amore, ai riflessi di ogni nostra singola azione. E’ stato l’anno del fischiato Marco Bellocchio che realizza l’unico (l’ultimo) film possibile su un gesto cinematografico sorto dalle ceneri, dagli allori, tra le derive vampiresche del mondo. Non rimane che un Nosferatu in Sangue del mio sangue e la consapevolezza amara, disincantata e dolente, che Bobbio - e solo Bobbio - sia il mondo. Infine, mentre Caligari regala il suo ultimo, splendido Amore Tossico e mentre Desplechin realizza una perla che assomiglia al diario dei nostri genitori, Giuseppe Gaudino gira un film per amor nostro, o meglio Per amor vostro: il primo piano della Golino, a cuore aperto, è la vera, straziante epifania di quest’anno. E di fronte a una Napoli mai vista e tutta mentale, ti ritrovi ad amare questo piccolo grande film come non avresti mai pensato…e ora, in attesa del nuovo anno che inizierà con l’amato Terrence Malick, tanti auguri a tutti e buone visioni!



lunedì 9 novembre 2015

Immagini mancanti: 45 Anni




Costruire un intero film intorno a un'immagine mancante, quella dell'eterna giovinezza di un amore congelato nei ghiacci. Fare di quest'immagine un fantasma che s'insinua all'interno della vita di una coppia al quaranticinquesimo anno di matrimonio."45 anni" è superbo fin dalla prima immagine per la sua capacità di addentrarsi nell'intimità di uno sguardo, nel calore di una casa, nella quotidianità di una relazione. Per come sa raccontare questi due straordinari personaggi, concedendogli un rispetto, una dignità, un amore davvero struggenti (chi oggi riuscirebbe a rendere così tenera, così bella, così vera una scena di sesso tra due settantenni?). Questo è cinema morale prima di tutto che si consegna ai nostri occhi umidi e grati come un dono prezioso: ogni momento, ogni gesto, ogni piccola cosa, dai campi lunghi dell'inizio all'ultimo ballo, tutto ci sembra vicino a noi, tutto è tangibile, tutto è qui, tutto è ora.
Personalmente piango ancora se ripenso alla luccicanza notturna degli occhi di Charlotte Rampling, al loro ricercare un punto, una solidità, un rifugio dai segreti silenziosi della notte. Una stabilità. Perfino un futuro.

venerdì 30 ottobre 2015

Carol di Todd Haynes




Che film magnifico "Carol" di Todd Haynes. Un'opera di riflessi, di sguardi e di mani, di campi tesi verso controcampi che il più delle volte non arrivano. L'eleganza formale di Haynes trattiene il film in moti tutti interiori per poi esplodere in un finale di rara potenza melò. Scalda il cuore nel suo essere un road-movie dell'anima, una giostra di sentimenti trattati con un rispetto, un garbo, un'umanità dilanianti. Rooney Mara, ancora più di Cate Blanchett, è l'occhio commosso, fragile e irrequieto del film, in grado di restituirne tutta la struggente delicatezza. Che è poi quella della storia d'amore che s'insinua lentamente in un lieve susseguirsi di sfioramenti, di tocchi, di evasioni impossibili. Ma soprattutto un atto di fede nei confronti di un cinema ancora capace di "lavorarci", di scoprirci, di toccare le nostre più intime corde. E, inaspettata, arriva una propensione di Haynes per l'astrazione delle forme, per le sfocature di un'immagine che, da sole, possono restituire tutti i segreti, tutti i misteri inestirpabili del sentimento. "Carol" è una perla da custodire gelosamente, come una vecchia canzone che abbiamo amato e che continua a tornarci alla mente. Come un ricordo che sfuma lievemente, senza appassire mai. E ritorna, eccome se ritorna...

domenica 25 ottobre 2015

Room di Lenny Abrahmson




Ennesimo filmetto indie americano che sembra confezionato appositamente per il Sundance. Se l'idea di partenza - quella di una madre e un figlio rinchiusi da anni all'interno di una stanza - era assai stimolante sulla carta, la regia non riesce nemmeno per un attimo a "sentire" il film e i suoi personaggi. Certo, quella del bambino non è claustrofobia, piuttosto un'infantile, immaginifica forma di claustrofilia, ma per metà film Abrahmson non è in grado di farci percepire il luogo fisico, di insistere sul legame tra spazio e personaggi (grave per quello che è, in gran parte, un vero e proprio kammerspiel). Tutta la messa in scena pare assolutamente illustrativa, priva di potenza, guizzi, di uno sguardo in grado di supportare un soggetto del genere. E quando finalmente usciamo fuori dalla stanza (e vorremmo ricominciare a respirare), "Room" si chiude ancora di più. Non c'è ossigeno, non c'è meraviglia, non c'è sorpresa: per consegnarci la visione virginale di un bambino che vede il mondo per la prima volta, Abrahmson realizza al massimo delle soggettive sfocate, depotenziando completamente qualsiasi epifania. Incapace di calarsi ad altezza-occhi di un bambino, lascia il sense of wonder alla parola, attribuendo la poetica del film alla voice over del piccolo protagonista. Una volta "nel mondo" (anche se questo mondo hai la sensazione che non arrivi mai veramente) "Room" devia, si blocca, scivola verso la retorica più fastidiosa, incerto com'è su quale direzione prendere. Arranca semplicemente, appiattendosi nell'opacità delle sue immagini.

Land of Mine di Martin Zandvliet




Alla fine della seconda guerra mondiale un gruppo di prigionieri tedeschi è costretto a disinnescare mine su una spiaggia danese. Zandvliet asseconda un soggetto davvero interessante, concependo un film che trova la sua grammatica nel montaggio mani-mina-volto, innescando così un grumo di suspense che regge bene per tutta la durata. Peccato che poi "Land of Mine" si trasformi in una grande occasione sprecata, prima di tutto da un punto di vista di scrittura. Se tutto il film punta sulla facile empatia con i giovanissimi prigionieri tedeschi, è il personaggio del sergente a non convincere affatto dal punto di vista psicologico. Passa da un estremo all'altro, con una gratuità che sembra davvero inspiegabile (dalla partita di calcio con i prigionieri, in cui è il sergente/padre buono, alla sequenza, davvero fastidiosa, in cui è il mostro che tratta uno dei ragazzini alla stregua di un cane). Come credere a un film che svela tutti le sue funzioni strutturali, i suoi motivi di scrittura, che si rivela finto, artefatto, ostinatamente costruito per piacere a tutti i costi? Un vero peccato, perché "Land of mine" conta diversi bei momenti, ma si perde nelle sue stesse insicurezze, affidandosi a mode registiche che più omologanti non si può: le riprese tentennanti, sempre a mano, anche quando desidereresti un minimo di stabilità; la musica pronta a sottolineare ogni umore dei personaggi; la color artefatta, desaturata dell'immagine. E così via...

Eva no duerme




In un festa, quella di Roma, praticamente priva di sorprese, arriva questo oggetto filmico misterioso ed affascinante. Aguero resuscita le pulsioni necrofile del cinema, costruisce un film dalla struttura dialettica con cui raccontare venticinque anni di peronismo. Un'opera seducente sedotta dagli occhi di un cadavere, quello di Eva Peron (la santa pagana), occhi che proiettano le immagini di una radiografia nazionale. Tra materiale di repertorio, voices over ipnotiche e follie centrifughe, tre episodi fondamentali scandiscono un quarto di secolo della storia argentina: storia di morti che scompaiono e ritornano, come a sancire i movimenti della storia. Aguero osa, inventa, destruttura, avanza soluzioni visive spesso impressionanti, si lascia attrarre dalla pulsione animalesca dei corpi (il piano-sequenza, pazzesco, con Denis Lavant), per poi "spegnere" progressivamente le sue immagini perturbanti. E alla fine tutto "Eva no duerme" sprofonda nel rosso saturo di una Storia implosa nel colore.

venerdì 9 ottobre 2015

Se The Martian è Matt Damon...




Al servizio di una buona sceneggiatura, Ridley Scott non può che confermare il suo strepitoso talento visivo. "The Martian" è in fin dei conti una riuscitissima commedia fantascientifica, un Cast Away su Marte che trova tutta la sua forza nel non prendersi mai completamente sul serio (più osa, senza paura del ridicolo, più funziona).
Ho apprezzato subito il tocco leggero del film, l'essere in tutto e per tutto un'opera che riflette sugli schermi, sulle modalità di comunicazione, sulle possibilità della rete (il "villaggio globale" non si ferma alla Terra, ma arriva perfino su Marte). In fin dei conti il Wilson di turno altri non è che lo schermo attraverso cui confessarsi: bisogna parlare alla propria stessa immagine per mantenere lucida la mente, viva la speranza ma, soprattutto, per non sentirsi soli.
Intercettata una formula linguistica (il montaggio alternato di Marte-Spazio-Terra), "The Martian" riflette sulle distanze per poi eliminarle, facendosi manifesto di un mondo, di una cultura, di una comunicazione completamente convergenti.
Accusarlo di mancanza di un sense of wonder sarebbe cosa assai fuorviante, semplicemente perché il film è interessato a ciò che conosciamo (e a ciò che si rischia di perdere), mai all'alieno, mai all'ignoto, mai allo sconosciuto. Solo la parte finale, quella degli equilibrismi spaziali, non può che riportare alla mente gli incidenti di Gravity, il fluttuare nello Spazio, la paura per la deriva. Ma è un istante.

p.s. se mai un giorno si dovesse scrivere una fenomenologia di Matt Damon, continueremo sempre a vedere l'uomo qualunque catapultato in contesti drammatici. Come Ryan, ancora una volta, Matt Damon dev'essere salvato. E, di nuovo, la sua missione è una sola: resistere e sopravvivere, malgrado tutto.

lunedì 28 settembre 2015

"Sicario" - a catastrofe già avvenuta




A catastrofe già avvenuta, non rimangono che scarti, singoli residui di umanità gettati nel biancore accecante di chi non può più distinguere tra bene e male, tra giustizia e vendetta: il mondo è frontiera, confusione di parti dove i confini sono stati superati. Un universo infernale dominato dalla violenza e dall'ossessione: qui la guerra si fa condizione permanente, base esistenziale. Difficile stabilire il momento in cui questa guerra sia entrata nelle nostre vite.
Ci si ritrova a vagare in piena confusione, senza più contrasti netti, senza più ordini o discipline morali da seguire. Un mondo senza più regole è un mondo dove tutto è permesso, un universo senza Dio (e senza Diavolo) consegnato agli istinti più bassi degli uomini. Eppure la protagonista, la splendida Emily Blunt, è la flebile luce nel buio, il ricordo mai appassito di chi, imperterrito, crede in un ordine possibile (in un'umanità che ancora vive e pulsa sotto le croste marce del reale). E' lei il contraltare perfetto della Maya di "Zero Dark Thirty", l'incarnazione femminile di una tenacia, di un morbo, di una fede che consuma fisicamente e psicologicamente. E, come Maya, il suo personaggio si rivelerà completamente impotente, quasi come se si ritrovasse "gettato" in un (dis)ordine dominato dal caos. Alla fine, tra lacrime e morti, non rimane che un universo di solitudine.
La Frontiera tra Stati Uniti e Messico assume l'aspetto di un nuovo west, la terra di nessuno dove poter regredire: qui il sicario è il lupo di un mondo di cui s'illude di decidere le sorti. Lui è l'uomo invisibile, il giustiziere privo di etichette, il fantasma che vive nell'ombra, lo spettro che torna sempre a chiedere il conto. Eppure soffre, perché è stato è un uomo (perché è ancora un uomo).
Dopo "Prisoners", Villeneuve continua a indagare le nostre pulsioni più animalesche e sotterranee, rigettando qualsiasi facile manicheismo e trattando i personaggi proprio come le sue frontiere: mondi liminali dove ogni cosa cambia il suo aspetto e rivela, sempre, una verità eccedente, inaccettabile, catastrofica. Tra i film più apocalittici dell'anno, proprio perché intercetta la fine del mondo non davanti a noi, ma alle nostre spalle. Tutto è già avvenuto, eppure nessuno se n'è accorto.

mercoledì 23 settembre 2015

Inside Out: la Pixar e l'oblio (2)




(1) Si rifiutano gli schematismi di ogni sociologia spicciola a favore di una (con)fusione essenziale: ogni uomo è un ossimoro, ogni individuo non può superare le correnti che lo percorrono, ma solo unirle senza alcuna possibilità di sintesi. In questo senso è Tristezza il polo attrattivo, l'origine, l'essenza di Gioia stessa. Non il suo opposto, ma la sua vera identità.

(2) La mente umana in "Inside Out" è una rete virtuale, un universo liquido, un complesso labirinto di pensieri sferici sempre a rischio di cadere. Ogni essere umano ha una sua geografia interna, un sistema ordinato e complessissimo controllato da Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Mentre scorrono treni-pensiero e crollano isole identitarie, "Inside Out" mostra tutta la sua grandezza: quella di scrivere una storia di formazione dall'interno della sua protagonista, con la notevole intuizione di riflettere sull'assenza, sulla perdita, sul potere rammemorante della mente (quasi ci trovassimo in un eternal sunshine animato, dove la vita scorre su uno schermo, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno e così via).

(3) Da ritornarci: la produzione-sogni che fa dell'attività onirica, giustamente, una produzione cinematografica (una parodia collaudatissima del sistema hollywoodiano) e il regno del pensiero astratto che diviene immagine bidimensionale, follia surrealista in movimento. C'è perfino Max Ernst in "Inside Out"!

Inside Out: la Pixar e l'oblio




La cosa più commovente di "Inside Out", capolavoro definitivo della Pixar, è come prenda consapevolezza dell'oblio che ci abita, e faccia di quest'oblio la condizione necessaria, basica per lo sviluppo e la crescita di ognuno di noi. Mi pare, questo, un film sul divenir nulla del pensiero, sui ricordi che, proprio come naufraghi, vanificano, dissolvono, spengono se stessi in un radicalissimo nulla.
La discarica dei ricordi dove tutto svanisce, cessando semplicemente di essere e di esistere, è la più straordinaria, la più straziante rappresentazione della perdita di sé che abbia mai visto in un film d'animazione (e ho pianto, chissà quanto ho pianto, alla vista dell'amico immaginario che si fa aria...).

Reagire a Cosmos




18 Settembre 2015 (subito dopo la visione).
Dopo tanta attesa ho finalmente visto "Cosmos" del mio amato Zulawski. Ebbene, come raramente mi capita dopo una visione, mi sento completamente impossibilitato ad esprimere un parere, un opinione, un discorso intorno al film. Sospendo il giudizio, perché ho trovato "Cosmos" un'opera tanto affascinante quanto respingente, tanto abissale quanto, forse, chiusa. Voglio tornarci, devo tornarci.
Avrei bisogno di una seconda, terza, quarta visione, vorrei leggere il libro di Witold Gombrowicz per comprendere che tipo di operazione ha fatto Zulawski. Per ora rimangono delle immagini, alcune fortissime, altre "troppo" (non so che significhi questo troppo, ma è l'unica parola che mi tornava durante il film).
Rimane l'attrazione per il movimento estenuante dei personaggi, che mi rimanda a tutto il Zukawski pre-fidelitè, eppure, allo stesso tempo, mi dà la sensazione di un film che non assomiglia a nient'altro della sua produzione.
Mi prendo tempo, semplicemente, per capire se è un film da amare incondizionatamente oppure no (rimangono le suggestioni del doppio, l'idea che tutto il film veicoli il due: dai finali che offrono una doppia possibilità del reale ai titoli di coda che denudano il film, svelano l'altro reale, quello del cinema). Che sia dunque un'opera che supera i limiti del linguaggio, che accumula citazioni con l'ostentata volontà di scivolare verso un impasse? Che il film stesso sia quell'impasse con cui riesplorare tutto il proprio cinema, con cui ritrovare una doppia Adjani, altri occhi verdi, altre possessioni?
Penso. Anche io cado nell'impasse.



21 Settembre 2015
Probabilmente una delle cose che mi ha fatto innamorare, diversi anni fa, del cinema di Zulawski è la sua stessa visceralità. I corpi, gli spasmi, i tic, le tensioni nervose, l'intera coreografia di movimenti epilettici restituivano un senso di attrazione e repulsione, di morbosità, di amore profondo per la carne. Un cinema in continua detonazione pronto ad avvolgere tutti i sensi, a solleticare, innervosire, eccitare lo sguardo come pochi hanno saputo fare. Un cinema messianico, eccedente, apocalittico e fieramente, saldamente disgustoso. "Cosmos", il suo ultimo film dopo una pausa di quindici anni, è un oggetto filmico che mi ha attratto, respinto, lasciandomi interdetto e impossibilato a scriverne. Eppure oggi mi rendo conto di una cosa: c'è uno slittamento, un passaggio dal cuore nervoso dei suoi film precedente al cervello che muove le immagini. E' un'opera dove tutto il disgusto, tutto il plus vitalissimo delle immagini, viene rinchiuso all'interno di un progetto calcolato minuziosamente, di un gioco cerebrale prima che fisico, concettuale ancora prima che motorio. L'anormalità del corpo zulawskiano diviene qui standard, maniera, deriva, e il rischio di essere monocordi, intrappolati in un film-pensiero, è evidente inquadratura dopo inquadratura. Quella che mi è mancata insomma in "Cosmos" è la vera libertà di Zulawski, il suo stesso gesto cinematografico che è quello della vita prima ancora della morte, dell'azione prima ancora del pensiero. Continuerò a rifletterci e a tornarci, perché "Cosmos" ritorna sempre nei miei pensieri. Ma più rifletto più comprendo che lo Zulawski che ho tanto amato è un altro.

Whiplash di Damien Chazelle




Recuperato dopo mesi "Whiplash" di Damien Chazelle: ennesimo filmettino furbissimo, ruffiano come pochi nella sua adesione incontrovertibile ai modelli più cari all'Academy. Opera quasi paradossale per come parla di un'amore viscerale per la musica senza poi, minimamente, essere in grado di restituirne fascinazione o magia. Non c'è passione, non c'è istinto, non c'è potenza, non c'è un briciolo di verità: perfino nella messa in scena delle esecuzioni musicali, la regia procede per accumulo, alternando inquadrature velocissime che vorrebbero seguire il tempo della musica e finiscono invece per deformarlo, allontanarlo, dimenticarlo (lo stacco a tempo, deformazione fastidiosissima che elimina il "tempo" dell'immagine, la sua durata, a favore di una tirannia tutta musicale). Anche i personaggi sono macchiette prive d'identità, con lo stupendo JK Simmons intrappolato in un ruolo che non concede nulla, non libera nulla e, soprattutto, non lascia nulla. Senza soffermarci sul punto di vista ideologico (in una morale così accondiscendente, così prevedibile da far paura) "Whiplash" è un'operetta servile e stanchissima, che vorrebbe esplodere ma finisce solo per annoiare.

Poetiche del colonialismo: Beast of No Nation




"Beast of No Nation" di Cary Fukunaga, la più cocente delusione del festival di Venezia 2015. Progetto difficile e ambiziosissimo sui bimbi-soldato africani. Mescola altisonanti derive malickianead allucinazioni coppoliane, senza mai riuscire a gestire il materiale filmico. Dalla prima all'ultima inquadratura Fukunaga osserva edulcoratamente la realtà che racconta, la osserva dal di fuori, come un testimone comodo che scava nella violenza per cercare nient'altro che l'effetto. Ciò che manca, ed è paradossale, è il vero dolore.La rappresentazione stessa della violenza appare completamente studiata a tavolino: come strumentalizzare l'alterità attraverso pesanti voice over, musiche onnipresenti, ondate di retorica moralmente inaccettabili per un film del genere. Anche nei suoi passaggi più gravi non c'è un'istante di verità, rimane solo il riflesso pallido di una tragedia che non si ha mai davvero il coraggio di affrontare. Ciò che si vede, in continuazione, è solo il set e la costruzione filmica. Moralmente inaccettabile per come, ancora una volta, il cinema americano più becero propone una scorrettisima poetica del colonialismo.

Black Mass di Scott Cooper




Gangster-movie derivativo, che guarda continuamente a Scorsese senza sapere restituire anima, corpo e sguardo ai suoi personaggi. Il film funziona per tutta la sua durata, ma l'abbiamo già visto, già subito tante di quelle volte da essere ormai arrivati a saturazione. Eppure il problema vero non è solo la mancanza di autonomia dal punto di vista cinematografico, ma anche la volontà pedissequa di non prendere una strada propria, di dover aderire, a tutti i costi, alla storia vera. E' proprio questa precisione filologica a indebolire la costruzione cinematografica. Il dover raccontare tutto, finendo poi per lasciar da parte l'umanità, il mistero, la fragilità dei suoi stessi personaggi. Con l'eccezione dell'agente dell'FBI, personaggio meraviglioso e davvero centrato, i personaggi di Cooper sono figurine che solcano modelli ormai stanchi. Lo stesso Johnny Depp nel suo glaciale trasformismo, è una maschera priva di qualsiasi credibilità. E il film, che pur sa come tenere uno spettatore incollato allo schermo, svanisce nella nebbia del già-visto.

Il Guadagnino che non ti aspetti




Nonostante non ami molto il cinema di Luca Guadagnino,questa volta mi sono dovuto ricredere. "A Bigger Splash" è un film che trasuda un'incredibile libertà cinematografica per tutta la sua durata. Sembra quasi un'opera prima per il suo coraggio di osare e mettersi in gioco, perfino contro qualsiasi buonsenso (il finale esilarante che sembra una geniale messa alla berlina di tutto ciò che si è visto). Mi piace l'irresponsabile assenza di senso della misura, la totale capacità di infischiarsene di piacere, la tensione narrativa che s'insinua passaggio dopo passaggio (fino alla straordinaria sequenza della colluttazione). E’ un'opera conturbante e sensualissima capace di cambiare pelle in continuazione, di farsi imprevedibile, virando dove meno te l'aspetti. E’ un film che non solo non teme il ridicolo, ma lo assume nella sua stessa struttura cinematografica. Tra luoghi chiusi e spazi immensi, "A Bigger Splash" è in definitiva un’opera sulla voglia irresistibile di far cinema, di giocare col cinema, di tentare il cinema, fino a smontare se stesso. E che bello quando un autore che non ha mai sopportato riesce a sorprenderti.

Gli uomini di questa città io non li conosco




"Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati" di Franco Maresco. Opera a cuore aperto su un grande autore teatrale praticamente misconosciuto in cui Maresco trova il suo ennesimo alter-ego. E' uno struggente film di specchi e richiami che squarciano il grottesco per scoprire un mondo di tenerezza: cos'è il cinema di Maresco se non una continua, umanissima riflessione sul suo essere inattuale, sul suo essere un profondo, purissimo atto resistenziale? E' il cinema dei grandi perdenti, il cinema degli invisibili, il cinema di chi ricorda un altro mondo, un'altra storia, sentendo la responsabilità morale di raccontarla: è l'unico modo per legittimarsi come esseri viventi, è l'unico modo per sussistere (o almeno illudersi di farlo) tentando di salvarsi dall'oblio delle immagini. Non importa se poi si rimarrà sconfitti. Maresco commuove per la sua infinita dolcezza, per il suo sguardo amaro, potentissimo, su un presente che dimentica troppo in fretta.Questo piccolo grande film, che forma un dittico perfetto col precedente "Belluscone", scalda il cuore e lascia dentro una tristezza priva di consolazioni, priva di mediazioni, ma viva, densa, fragilissima. Ancora una volta, viva l'invisibile Maresco!

martedì 22 settembre 2015

"Afternoon" di Tsai Ming-liang




L'impressione è quella di trovarsi già lì, all'interno di quell’unica inquadratura, di quell’unico spazio, e riscoprire, in un'istante, una famiglia a cui sei sempre stato affezionato. Una lunga, bellissima chiacchierata tra Tsai Ming-liang e Lee Kang-sheng (anche se, in realtà, a parlare è quasi sempre Tsai, mentre Lee è il vero mistero, il vero grande segreto, enigma del film). Una formidabile storia d'amore rinchiusa nell'intimità di una casa abbandonata, ennesima rovina del suo cinema. Perché - lo si dice nel film - tutto il cinema di Tsai è un cinema che si muove intorno alle rovine (anzi, i suoi film stessi sono rovine, resti del tempo, scarti esistenziali) e anche loro due, Tsai e Lee, saranno un giorno residui del mondo pronti a lasciare un silenzio, un'assenza, una mancanza sullo schermo (l'immagine finale delle sedie vuote, dove la mente rimbalza immediatamente alle sedie di "Francofonia" di Sokurov - in un gioco-rimando tutto festivaliero). "Afternoon" è un film lieve che ruota intorno alla morte, dove Tsai sembra consumato da una malattia che affronta con un'incredibile leggerezza (sembra quasi il film di un uomo prossimo a morire). E verso il finale si trova un momento davvero clamoroso, in cui il regista dice di credere ancora nella bontà degli uomini. E aggiunge: "In fondo il mio cinema ha sempre parlato di questo". Grazie.

mercoledì 15 luglio 2015

Jurassic World




Superata l'inutilità del terzo capitolo, ritorna il mondo creato da Crichton e Spielberg con "Jurassic World". Blockbuster divertentissimo, certo lontano anni luce dal sense of wonder dei primi due capitoli, eppure tutto improntato sulla ricostruzione di una magia e di una meraviglia ormai perdute.
Quasi un'opera fuori tempo, nostalgica tanto delle grandi avventure anni '90 quanto della fantascienza meravigliosamente ingenua degli anni '50.
In realtà il film di Colin Trevorrow si interroga lucidamente sul fattore intrattenimento e sullo stupore ai tempi della rete e del virtuale. La gestione del parco riflette, a tutti gli effetti, il tentativo di dar nuova linfa vitale alla saga: il semplice dinosauro "resuscitato" non basta più, bisogna che sia più grande, più spaventoso, più spettacolare.
Se più di vent'anni fa Jurassic Park era il primo vero baluardo di una CGI davvero sorprendente, oggi i tempi sono cambiati: si procede con ibridazioni, fusioni, combinazioni di DNA eterogenei. Si tratta di creare mostri mediatici. E il film, che non risparmia su facili machiettismi (il personaggio di Vicent D'Onofrio su tutti) e su situazioni saturissime, riesce comunque a infondere una certa idea di adrenalina e di tensione.
Con affettuose strizzatine d'occhio al primo capitolo (i due ragazzini vengono direttamente da un film di Spielberg), "Jurassic World" regala diverse splendide sequenze (come quella dell'operazione-raptor contro l'indominus rex). La comunicazione, la "chimica", il dialogo tra dinosauri, ci fanno precipitare in un mondo dove gli uomini sono una parte infinetisimale, inconsistente del tutto, mentre esseri enormi e primordiali si scontrano, in un finale che sembra continuamente fare il verso a Godzilla.

giovedì 9 luglio 2015

I Racconti dell'Orso (The Bear Tales) - Trailer ufficiale






Cari amici e lettori,
questa volta mi concedo un post un po' particolare: non scriverò su opere altrui ma, per una volta, pubblicherò il trailer ufficiale de "I Racconti dell'Orso", scritto, diretto e prodotto da Olmo Amato e dal sottoscritto. Si tratta di un film indipendente girato tra la Finlandia e la Norvegia e finalmente ultimato, dopo più di due anni di lavorazione. Una vera e propria scommessa: l'avventura vera inizia proprio adesso.

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martedì 30 giugno 2015

Due o tre impressioni su Tokyo Tribe




Mi duole ammetterlo, anche perché vado matto per il cinema di Sion Sono, ma "Tokyo Tribe", tour de force hip hop di botte, spari e sfide corpo a corpo, mi ha alquanto deluso. Il divertimento si è trasformato in noia dopo pochi minuti. Sion Sono sa cosa significa gestire lo spazio, sa cosa vuol dire lavorare sul rapporto erotico tra i corpi, sa architettare collisioni fisiche che sembrano mosse segrete di danze tribali...sa cosa significa creare un Giappone futuribile, tamarro e guerriero, ma tutto questo non basta. Qui perde di vista completamente il ritmo, il cinema, il tempo...le sue immagini saturissime diventano opache, chiuse in se stesse, godibili sì ma troppo incastrate in un divertissement eccessivamente autoreferenziale, in un giochino troppo preso da sé per poter davvero brillare. Ne risulta la sua opera più monocorde, completamente priva di tutte quelle aperture che mi hanno fatto sempre amare il suo cinema. Tokyo Tribe guarda solo se stesso e il rischio-bulimia è sempre dietro l'angolo. Peccato. Attendo fiduciosissimo i suoi prossimi cinque, sei, cento film.

Steven Spielberg è l'infanzia del (mio) cinema




Ieri sera ho rivisto, dopo tanti anni, Indiana Jones e il tempio maledetto e mi è sembrato un po' come tornare bambino. Questa è la grande avventura che piace a me, quella iconica, ricca di humour, quella che ti teneva incollato allo schermo, quella fatta di magia, mistero e ingenuità, quella che, all'improvviso, era capace di concedersi a insospettati picchi d'horror d'antan (come tutte le sequenze dei riti magici e sanguigni dei temibili Thugs che tanto mi facevano paura da bimbo). Continuo a ripeterlo: Steven Spielberg (almeno un certo Spielberg) è l'infanzia del cinema, almeno del mio cinema. E' una questione di cuore. E' un po' come il bisogno fisiologico di tornare sempre a casa. L'amore parte da qui (e da Zemeckis, Dante, Landis e tutti gli altri, solo poi, in un secondo momento, arriva il resto).

mercoledì 17 giugno 2015

Mountains May Depart di Jia Zhang-ke




sempre più interessata al fluire del tempo, dei volti e delle cose, Mountains May Depart è un'opera liquida che (con)fonde materiali di repertorio e immagini di finzione, fino ad arrivare al cortocircuito che porta il cinema di Jia Zhang-ke a farsi sempre più astratto, sempre più magmatico...l'impressione di trovarsi di fronte a un'enorme capsula per il futuro mi ha tormentato durante tutta la visione. Film da custodire, amare, rivedere per ricordare chi ma, soprattutto, cosa siamo diventati. Infine la Cina, definitivamente globalizzata, proiettata in un futuro plumbeo e tecnocratico dove l'oblio governa i rapporti umani: oblio nazionale, oblio di appartenenza, oblio di un nome che non si ricorda più...solo una canzone conserva il potere rammemorante della mente. Tutto il film racconta allora un percorso di reminescenza individuale (e nazionale), un'erranza infinita che è anche - e soprattutto - una grande storia d'amore. La ricerca della propria identità, ovvero la ricerca della propria vita precedente. Di un'altra Cina, di un altro mondo...

lunedì 15 giugno 2015

Saul Fia di László Nemes




Non potrei immaginare un'opera più liminale di Saul Fia, perché l'esordio di László Nemes è un incubo ai limiti dello sguardo, un tour de force infernale che lavora sempre intorno ai confini dell'immagine, al rapporto tra campo e fuoricampo, al cortocircuito stesso della morale. La camera, incollata alla schiena del protagonista, non lo lascia nemmeno per un secondo, concentrando difatti il fuoco quasi unicamente sulla sua figura. Il teleobiettivo aderisce a un punto di vista selezionato, pulsante e forsennato, deformando - amplificando - tutto ciò che lo circonda. Gli orrori del campo di concentramento sono in gran parte fuori fuoco, ma è proprio questa loro zona di confine a renderli autenticamente protagonisti. Nemes, lavorando di sottrazione visiva, amplifica inevitabilmente l'effetto del fuoricampo, facendone un polo attrattivo, una calamita impossibile da evitare, una traccia visivo-sonora potenziata proprio perché decentrata.
Ecco dunque che un film sull'olocausto si trasforma in un'indagine circa la visione, l'orientamento scopico, il fuoco percettivo e la ricerca disperata di un punto di fuga (o di una stasi).
Nemes lavora continuamente su uno scarto, quello tra visibile e non-visibile: ne deriva un cinema puramente esperienziale, iperpercettivo, che si dispiega in una sorta di crudelissima fenomenologia dell'oscenità. Nel fare questo sceglie il punto di vista di un uomo in bilico tra follia e anaffettività, che vive nella claustrofobia, dilaniato dalla costante mancanza d'ossigeno e dall'inevitabile azzeramento di qualsiasi memoria (la sequenza con la donna che lo chiama per nome è uno dei momenti più strazianti del film). Sarà proprio lui il soggetto di un percorso espiativo assolutamente anomalo, egoistico, perfino insensato: riuscire a seppellire un figlio morto (che non è necessariamente "il figlio" come tutto nel film sta ad indicare). Un'impresa folle che si traduce nel più estremo, ingiustificabile atto d'umanità. Salvare un morto prima ancora di salvare un vivo. E' proprio all'interno di questo meccanismo che il film alimenta la sua potenza, iscrivendosi in piani-sequenza asfittici dove ciò che manca è sempre il cielo. E poi, negli abissi della morale, la macchina a mano si fa sempre più concitata, l'immagine sembra esplodere fino a fermarsi - finalmente - in un finale "impossibile", dove la macchina lascia finalmente andare il suo nuovo bambino, senza seguirlo. Quel bambino che - guarda caso - sembra proprio "resuscitato" dall'abisso.

lunedì 1 giugno 2015

Louisiana di Minervini




che film bellissimo è Louisiana di Minervini. In alcuni momenti quasi pittorico, incredibile per come cerca di oltrepassare sempre i confini stessi del cinema. Abolendo qualsiasi differenza tra documentario e film di finzione, seguendo unicamente corpi vibranti di vita ed emozioni, Minervini pedina l'uomo, cerca i segreti di un volto che non vuole mai abbandonare, mette in luce le contraddizioni insite in ogni other side. E' un film di specchi, volti nascosti, ribaltamenti progressivi in bilico tra messa in scena e spontaneità dell'atto.
Il ritratto intimo di Mark è contrassegnato da un'inspiegabile, commovente tenerezza, in lui si aprono già le voragini di tutta la comunità white trash. Comunità che Minervini indaga con un'onestà e una sensibilità sconfinate, lontano dal giudizio facile, ma anche dal ritratto antropologico di chi vorrebbe spiegare ma non può, non riesce a farlo. Rimangono gli uomini, le comunità, i singoli gesti. Non ci sono cause né effetti, ma pure, fragilissime esistenze che semplicemente continuano a vivere. Come le milizie armate che si aggirano per la foresta, mentre sparano alla maschera di Obama: è il lato oscuro dell'America, un cuore selvaggio da cui, spontaneamente, liberamente, rinasce la poesia di uno sguardo mai calato dall'alto, ma sempre immanente, sempre tra le cose, sempre tra gli uomini. E, inaspettatamente, Minervini scopre una bellezza mai diretta, ma sempre emanata da un controluce lontano, sempre pronto a irradiare lo schermo.

mercoledì 27 maggio 2015

Il primo piano di Margherita nel Faust




Primi piani già pronti a incendiare lo schermo.
Cristalli di luce dove il tempo si è fermato, affondando nel bagliore accecante di uno spazio sconosciuto. In questa dimensione altra, il volto è quella figura segreta capace di sprigionare la potenza disioniaca di tutto ciò che è altrove e sconfinato.
Dove siamo? Cosa sono queste radiazioni di luce che bucano lo schermo?
E' come se, improvvisamente, l'interno bruciasse l'esterno, oltrepassando cornici e formati, in un radicale (e dolcissimo) rifiuto dello spazio. Questo è quello che io chiamo shock.
Il volto di Margherita è già, di per sé, l'atlante probito del cinema tutto, la terra desolata, il deserto senza fine, il settimo continente cui tornare sempre a perdersi ed errare. E' il primo piano che disvela l'invisibile e, mentre oltrepassa l'immagine stessa, scopre i fantasmi (angeli o demoni che siano) della sua stessa apparizione.

venerdì 22 maggio 2015

Sehnsucht




E' solo un attimo.
Ricordi che si accendono e si spengono nella mente.
E una nostalgia struggente per tutto ciò che non si è mai vissuto.

Appunti: Il colore è una visione, un lampo, un modo per ricordare, fissare il mondo nella propria testa.
L'altro mondo, l'altra Heimat.



Die andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht (Edgar Reitz)

Rinascite?




Quotidiani, riviste, televisioni, per non parlare della valanga di commenti online, non fanno che parlare di una presunta rinascita del cinema italiano, per il semplice fatto che tre titoli nostrani siano in gara al concorso internazionale di Cannes.
Eppure si potrebbe parlare di rinascita se esistesse un trait d'union, una scuola comune (che non vuol dire sguardo comune) sostenuta da un Paese realmente interessato a valorizzare il suo cinema.
Sorrentino, Moretti, Garrone, sono tre autori dalla poetica estremamente riconoscibile che, più che rappresentare l'Italia, rappresentano unicamente se stessi e la loro visione di cinema (e, per carità, non c'è nulla di sbagliato in questo). La trita e ritrita retorica della rinascita, della nuova, fiorente stagione del nostro cinema, è figlia di un provincialismo becero e colpevole - perché ci fa credere che questa povera Italietta faccia qualcosa per legittimare e proteggere una cultura sempre più assente.
Se un premio finisse a uno dei "nostri", si diffonderebbero raffiche di commenti su un'edificante vittoria nazionale (nemmeno fossimo allo stadio). Peccato che quella stessa Italia, all'inseguimento della ribalta mediatica e così profondamente, falsamente chic, non abbia mai puntato lo sguardo su tantissimi autori nostrani molto più sotterranei, giovani e (spesso) interessanti. Tutti loro sono affossati da un palese disinteresse mediatico, come buchi neri nell'indifferenza culturale della nostra vecchia e stanca penisola.

Moretti l'ha detto meglio di tutti: "Sono molto contento che ci siano tre film italiani in competizione e altri titoli nostrani in varie sezioni del festival. Ma la mia impressione è che questo sia ancora il risultato di iniziative individuali di registi e produttori mentre il clima in Italia intorno al cinema, sia come fenomeno industriale che artistico, è sempre molto distratto".