martedì 29 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #7
"The master"



La guerra è finita.
Si torna a casa, ma che fine ha fatto poi la casa?
Dov’è la bella, giovane ragazza di una volta?
Il reduce scivola errante fra miraggi, ricordi e falsi profeti. Spalle curve e andatura incerta, com’è strano il suo modo di camminare, e com’è inquieta e nervosa quella risata! I piedi guidano lo sguardo e a quanto pare dagli occhi di Joaquin Phoenix non traspare più alcun al di là ma, sempre e comunque, si scorge un lacunoso, sconnesso al di qua. E’ lo sguardo di chi è tutto protratto verso un abisso imploso.
Ferita interiore mai cicatrizzata, si palesa in superficie e la chiamano nevrosi. E’ l’anima paranoica ed ansiogena a nutrire e abitare i tic. E’ dunque una cellula ribelle sotto il segno dell'instabilità che non ha niente a cui ribellarsi se non alla sua stessa identità di cellula.
Perfino l’ambizione cieca è morta a favore di un vagabondaggio privo di meta, di un perdersi e di un consumarsi nei vapori metropolitani, nelle lande infinite della coscienza ritirata.
Quando Joaquin Phoenix, a cavallo di una moto nel deserto, si dissolve nella velocità, si prende atto di come Paul Thomas Anderson stia dolorosamente cambiando. Non tanto dal punto di vista del linguaggio cinematografico: vive ancora quell’estetica sontuosa e annichilente, quell’audio caotico e perturbante che disturba i silenzi di chi non può sentire, quei piani-sequenza che non sai mai dove ti porteranno (se non all’incubo della spirale di un vuoto sempre più vuoto sempre più vuoto).
No, cambiano gli sguardi, cambia la luce del suo cinema.
L’espressione fangosa, diabolica e vigorosa del Petroliere è ormai un mondo lontano. L’estasi del capitalismo e quella dell’evangelismo sono i credi di chi aveva ancora qualcosa da trovare. In “The Master” il petrolio è finito e la terza rivelazione è già stata rivelata. Non c’è più niente da trovare, ma cosa ancora più grave, non c’è più nulla da cercare. Ma non esistono nemmeno più le frustrazioni e i sogni dei petali della Magnolia o le migliaia di budini collezionati per accumulare miglia o, ancora, i centimetri di cazzo di Dirk Diggler come viatico per il mondo dei sogni e del sesso.
Niente di tutto questo permane, se non sottoforma di residuo corporale, di tic e di convulsione. L’ultima traccia del sentimento, la sua cicatrice esteriore, è lo spasmo, l’epilessia, la contrazione. Questa frenesia del corpo è lì pronta a testimoniare la non-conformità al mondo.
Ogni potenziamento (ogni correzione, verrebbe da dire) è sottoposto a una doloroso test psicologico, a un faccia a faccia con la propria mancanza. Ma questa mancanza è il bisogno di una guida, di un maestro che possa indirizzare, rigenerare e nutrire il desiderio. Eppure questi occhi aperti spalancati, che osservano senza poter sbattere le palpebre, non vedono altro che vagine di sabbia in cui sprofondare per sentirsi meno soli e più amati. Il desiderio è pura libido sessuale. Schiavi del corpo e vittime delle pulsioni sessuali, sono uomini soli devastati e in frantumi. E quindi si può solo ricercare nuove discipline, nuova fede, perfino un'infatuazione per il maestro del titolo e amare il proprio guaritore.
Sì perché “The Master” è prima di tutto la storia d’amore fra due menti complementari e in realtà affini: maestro (splendidamente intepretato da un sobrio e gigantesco Philip Seymour Hoffman che ben bilancia gli straordinari eccessi di Joaquin Phoenix) e discepolo. Ancora una volta due solitudini che cercano di volare ma che hanno i piedi ancorati a terra, sotto il peso di catene inviolabili.
Perché perfino il Maestro non è mai padrone ma, in questo gioco di ruoli potenzialmente infinito, è schiavo a sua volta di quella vera mente, cinica e ammaliatrice, che tutto progetta: sua moglie (Amy Adams), vera potenza invisibile, forza che agisce nell’ombra e fa intuire quello che è il vero rapporto di potere.
In tutta questa rumorosissima confusione non si può fare altro che aspettare: la deriva non arriva mai, ma si può correre per chilometri senza poi muoversi di un passo. Proprio per questo la regia si trasforma in un meccanismo senza fine di scatole cinesi, o un cul de sac di vuote, effimere apparenze. E il montaggio rimane un rebus tutto da completare: ellissi e flashback ci trasportano all’interno di un linguaggio che è quello emotivamente instabile del mondo interno e della sensibilità del personaggio di Joaquin Phoenix. Allora seguiranno i test e la masturbazione, le deflagrazioni improvvise del corpo, i raptus di inaspettata violenza e le lacrime di chi è già morto troppe volte.
E poi correre in un campo senza recinti né frontiere e avvertire un respiro affannato e terrorizzato. Ultima ipotesi di una libertà che non potrà mai essere tale: piccoli schiavi in solitudine, avremo sempre paura.

domenica 27 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #6
"Amour"


E’ bene precisare che questo servizio che sto compilando ormai da diverso tempo è intitolato “Orfani di realtà” proprio perché va a rintracciare tutti quei germi nefasti, quei virus e quegli intrusi che hanno oltraggiato le nostre case e i nostri mondi obbligandoci a convivere all’interno di geografie chiuse. La costante cinematografica del 2012 è dunque quella dell’ospite sgradito in grado di ribaltare il mondo. Che quest’ospite sia un crack finanziario o un’imperfezione anatomica (Cosmopolis), un essere raccapricciante che abita il nostro corpo (Prometheus) o una visione profetica e nefasta (Take Shelter) poco importa.
Entra proprio qui, con voce pacata ma sguardo crudele ed acuto, Michael Haneke che ha costruito intorno al tema dell’intrusione la cifra stilistica di un’intera carriera. In fondo non ha fatto altro che manipolare, osservare, studiare quest’ossessione costante di un’intromissione più o meno latente: l’ingresso del male, come ospite inatteso, all’interno di un ordine prestabilito. Filo rosso che unisce tutta la filmografia Hanekiana, da “Benny’s video” a “Caché”, dove la visione diventa (re)visione, dove la realtà è fatta di pixel e non sai mai chi o cosa ti stia osservando (forse proprio tu).


Si tratta della reiterazione perenne di un gesto filmico crudele ed essenziale che rintraccia quest’oscura presenza in gesti o fatti o espressioni più o meni visibili (come le eclatanti esplosioni di violenza in “Funny games” o, al contrario, come l’inquieta, sobria, anomala luccicanza negli occhi dei bambini de “Il nastro bianco”).
Solo a una lettura superficiale “Amour” non si inserirebbe all’interno di questo discorso. Questa volta la presenza malefica che si cela e si svela all’interno dell’individuo non è più una luccicanza, ma è, al contrario, la privazione di una qualsiasi luce dagli occhi. Non esistono più sguardi intenzionali e identitari ma si realizza, estroflettendosi, la minaccia più oscura: che lo sguardo diventi vuoto ed opaco, che le luci si spengano e che l’uomo, la memoria, la volontà entrino in un perverso corto-circuito di quotidiano, perenne stanby. Ecco realizzarsi l’incubo della morte della coscienza sottoforma di malattia, ospite cieco e spietato che invade le nostre solide case, che sconvolge gli equilibri e ci porta incontro alla morte.
L'istante sacro di questo film coincide con lo sguardo spento e negato di Emanuelle Riva, terrificante epigrafe della visione e dello scambio. Gli occhi della donna sono una porta invalicabile che porta ogni ipotesi di riconoscimento a un osceno grado zero. “Amour” non è che il racconto di questo svuotamento, con tutti i ritorni improvvisi di coscienza e di luce, destinati però a soccombere nel vuoto della memoria.


In una delle prime inquadrature del film Haneke allarga il campo a tutti noi, con un piano fisso sospeso e lapidario, straniante per la sua ambigua e presunta oggettività. Ci mostra la platea di un teatro, specchio di ogni altra platea. I personaggi che impareremo a conoscere sono due anziani poco riconoscibili in mezzo alle altre persone, come a dire che l’intruso si muove già tra di noi.
Ma di soli intrusi è composto un racconto che ruota intorno ai concetti di violazione ed intromissione. Programmaticamente il film si apre con la polizia che fa incursione all’interno dell’appartamento dei due anziani e vi ritrova la Riva morta (prima violazione). Più avanti assistiamo a un sogno di Trintignant dove l’intruso si presenta come ladro nella notte che invade gli spazi e la tranquillità altrui (seconda violazione). Poi, ancora, la figlia (Isabelle Huppert) che non comprende il comportamento del padre e vuole portare la donna in un ospedale (terza violazione). E quindi passiamo alla badante che infrange continuamente la dignità del corpo nudo e abbandonato della paziente (quarta violazione). Troppo forte, troppo intensa, troppo invasiva perfino l'opera per organo di Bach che, difatti, viene bruscamente interrotta (quinta violazione). E, ovviamente, quello strano piccione che entra e vaga per l'appartamento (sesta violazione). Infine c'è un'ironica, settima violazione: la macchina da presa, il cinema, l'atto stesso del filmare.


Ma Haneke, figlio di Bresson, conosce bene la distanza, sa fotografare dei piani lunghi e fermi, privi di intepretazione e di aggettivi tecnici, di movimenti di macchina e di ipotesi, seppur lontane, di ruffiano sentimentalismo. Guarda invece con sobrio, rigoroso pudore, perfino nei momenti più necessari ed osceni, filmati senza rispariamire nulla, sempre attento a non sottrarli alla loro ovvia verità.
"Amour" è quindi il racconto di un'identità violata, di un amore straziante che non conosce confini, della sofferenza che si prova vedendo appassire la persona amata. Il personaggio di Trintignant si prende cura della moglie, vivendo recluso con lei nell’ennesimo spazio chiuso, casa della memoria e del passato, combattendo ogni possibile invasione. Ma anche quella casa così grande, così borghese e così bella, è destinata a comprimersi, costringendo i personaggi ad avere sempre meno spazio, sempre meno aria, fino a ritrovarsi come gli ultimi uomini del mondo, soli entro le pareti della camera da letto.
Rimangono i piccoli gesti, come quelli dei corpi che si supportano toccandosi, ora sfiorandosi, agitati innamorati mai desti tra schiaffi e sorrisi.
E' dunque inevitabile il gesto di rottura come terribile promessa di vero amore: la morte.
Solo allora il personaggio di Trintignant, immerso tra le atmosfere del sogno, può tornare a vedere Emanuelle Riva, viva e radiosa, e abbandonare con lei l'appartamento per poter uscire fuori e dissolversi nel tenero gioco dell'amore.

giovedì 24 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #5
"Hunger" (sotto la pelle, oltre la carne)


Corpo camuffato (Holy Motors), imperfetto (Cosmopolis), invaso (Amour), convulso (The Master), umile (A simple life), radiografato (La guerra è dichiarata) ed infine esplorato (C’era una volta in Anatolia): indaghiamo sempre di più quest’esile massa, in attesa di scoprire se non ci sia niente di più profondo della pelle (Paul Valery) o se si possa trovare, tra organi e carne, una verità ipodermica, che non ci vergogneremo a chiamare anima. Corpo, meccanismo autoptico per eccellenza, soggetto-oggetto privilegiato della storia del cinema e dell’arte più in generale.
Nella seconda scena del “Faust” di Aleksandr Sokurov, il dottore, attratto da misteri cadaverici e anatomici, espelleva le budella da un addome squarciato. Indagare le profondità sottocutanee è prima di tutto un lavoro di ricerca, un viaggio nel tentativo di capire dove si trovi il tesoro per eccellenza, l’anima. Forse si trova nei piedi?
Il viaggio cinematografico è quanto di più affine all’analisi anatomica, quella che spinge a guardare più da vicino e a capire se l’essere umano sia un risultato più nobile e misterioso dell’addizione delle singole parti che vestono una carcassa. Emergono ancora dall’oscurità le strane immagini di “The Art of Seeing with One’s Own Eyes” di Stan Brakhage, e quel momento preciso in cui ci guardavamo (cos’è l’autopsia se non un guardarci?) e, inquieti, non ci riconoscevamo. Non c’è incubo più grande di vedere noi stessi. In “Vital” Shynia Tsukamoto si chiede se, espulso ogni organo, si possa trovare traccia di una coscienza ipodermica. (Si potrebbe andare avanti per una vita, tornare nell’Anatolia anatomica di Ceylan, ma è un rimando infinito che ci porterebbe troppo lontani, fino a Cronenberg, a Miike, e a chissà quale altra strana, orientale, cavità oscura).


Ora è chiaro che nell’esordio di Steve McQueen, “Hunger”, uscito in Italia solo nel 2012 dopo quattro anni dalla sua effettiva distribuzione, ci siano diverse tematiche che hanno la priorità, soprattutto a carattere storico-politico, ma non ne parleremo in questa sede. Quello che qui ci interessa è altro, riguarda i limiti del corpo come strumento politico, lo svuotamento progressivo della massa e l’inevitabile decadimento motorio. Non ci sono autopsie perché il fisico è già manifesto intenzionale: nessun demone sottocutaneo, nessun segreto da svelare dal momento che l’ipocoscienza si è già mutata in coscienza, esponendosi in tutta la sua evidenza.
Steve McQueen fa cinema del corpo, o, se preferite, fa del corpo cinema (ma sempre di corpo si parla). Da questo punto di vista sono emblematici i titoli dei suoi due film: il primo, “Hunger”, fame, riguarda quella mancanza che è l’unica vera lotta, la sola, fortissima manifestazione di vita in un contesto (quello carcerario) che la nega. Il secondo, “Shame”, vergogna, meno interessante singolarmente ma stimolante come frammento di un dialogo, riguarda l’eccesso, l’opulenza, la bulimia. Ma la mancanza rimane e si fa ancora più abissale: non si muore più perché affamati ma perché sazi e soli. Laddove il sesso diventa bisogno alimentare il corpo si automatizza, il desiderio si reprime e ci si trasforma in esseri incapaci di amare.
La rivolta di Bobby Sands è quindi quella politica del digiuno e della sottrazione. Assistiamo per ellissi a un corpo che si svuota, che rifiuta il suo pane quotidiano a favore di una causa. Lo vediamo farsi sempre più leggero, come ad inseguire l’aria e il volo degli uccelli in una notte oscura ma magica. Il film di McQueen è ammaliante perché parla di un fisico che si spoglia per poter essere libero e tornare a volare nelle distese immense del cielo. Chi insegue la libertà ad ogni costo dev’essere disposto ad una trasformazione corporea senza precedenti, a una leggerezza (im)mortale, come quella degli uccelli.
Detour. Sono da sempre attratto dalle immagini di uccelli in volo: tornano spesso nel cinema contemporaneo, come a perturbare uno stadio di coscienza antico e nostalgico. Da diverso tempo vorrei prendere un nutrito gruppo di persone e porlo davanti all’immagine di stormi (ormai è l'immagine delle cose e non più le cose stesse a creare empatia e ad avere credibilità). Vorrei rintracciare un rapporto di parentela atavico con questi volatili all’interno della coscienza collettiva, seppure a livello sottile e nascosto. Vorrei individuare quanto permanga un desiderio di ritorno al passato proiettato nel futuro: del resto facciamo di tutto per tornare a volare.
Gli uccelli che compaiono in “Hunger” sono però molto strani, sembrano quelli cupi ed oscuri di una fiaba nordica, come se si trattasse dell’ultima notte dei tempi. Nel film vengono collegati alle immagini delle esalazioni finali di Bobby Sands: inquadrature dall’alto, roteanti e pulsanti di scattante mortalità, riprendono l’effettiva scarcerazione di chi ama la vita. Recluso e ferito, Bobby Sands, non potendo evadere dal carcere, fugge dal suo stesso corpo, cella per eccellenza. Ancora una volta i luoghi non sono altro che proiezioni dei labirinti interni, losche, asfittiche emanazioni di una mente che aspira ad essere libera.
E se il corpo è una prigione, allora bisogna svuotarlo, camminare tra i liquidi corporei, superare il sangue, il vomito e il piscio, e risalire in superficie (o meglio scavare in profondità). Sotto la pelle, oltre la carne.

martedì 22 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #4
"Killer Joe"



Trama semplice ma crudele: il giovane Chris convince suo padre ad assumere un sicario, il killer Joe del titolo, allo scopo di uccidere la madre ed intascare così il premio dell’assicurazione. Killer Joe, non potendo essere pagato in anticipo, si prende come garanzia la sorellina di Chris.
Verrebbe da dire che gli anni non passano.
Verrebbe da dire che William Friedkin rimane un regista crudo, sporco, cinico e violento.
Ed è vero, verissimo. Non ha perso una traccia del suo efferato, lucido nichilismo, ma qualcosa è cambiato. Sotto le pelle di questo noir postmoderno ho avvertito una strana pulsione dominante, come una carica propulsiva che sembrava calamitare i personaggi agli interni, agli spazi domestici, ai locali e ai night club. Probabilmente è la stessa forza invisibile, la stessa impercettibile ma grandiosa vibrazione che obbligava i personaggi del "Carnage" Polanskiano a non lasciare mai l'appartamento. Ora è chiaro che non si tratta di un kammerspiel alla "Carnage" anche perché in "Killer Joe" si possono contare diversi esterni. Ma il fatto è che ogni esterno sembra come proteso ad annullarsi, a lasciar trasparire un fondo opaco, traducendosi in una povertà di luoghi e situazioni, in un'impossibilità di andare oltre.
E' come se l'esterno fosse già, prima di tutto, interno. L'aria aperta non esiste (più?), è una gabbia recintata, con lucchetti e cancelli, memori di quel “No Trespassing” che ha cambiato inevitabilmente la sorti del cinema.
Ritorna subito, impellente e necessario, il tema centrale che avevo rintracciato in “Cosmopolis”, ovvero quello di un mondo, scatola-cervello, che traccia nuove superfici e geografie, internandosi per bisogno di autosostentamento, organizzazione e controllo. O, ancora di più, "Take Shelter" dove il protagonista si rifugia in un bunker sotterraneo assieme a moglie e bambina, allo scopo di salvarli da un'apocalisse annunciata. Ma l'apocalisse non è quella del mondo bensì quella della psiche. In questo paradigma instabile la tragedicommedia dell'umanità non si può che consumare in interni: in "Killer Joe" si gioca al massacro in casa e la vittima sacrificale è, ovviamente, la famiglia.
Ne deriva un’impossibilità di evasione, una fatalità cieca e senza via d'uscita.
Emblematico, da questo punto di vista, il fallimento di qualsiasi prospettiva di nuova vita da parte di Chris: il desiderio impossibile di scappare con sua sorella lontano dalla famiglia, da killer Joe e dal mondo conosciuto. A umiliare il sogno c'è questa nuova, solitaria geografia: il confine texano, un fiume che separa un esterno da un altro, che li internizza creando barriere percettive invalicabili. Morte della continuità spaziale e vita delle isole.


Esistono solo un’al di là e un al di qua, senza un prima e un dopo, in mancanza di qualsiasi nesso o stabilità: mondi diversi e paralleli, esistenze impossibilitate a convergere ma capaci di guardarsi solo a distanza (e immaginarsi, sognandosi/sperandosi non speculari). Ed è così che il mondo si è fatto minuscolo.
Anche gli inseguimenti, famosi nel cinema di Friedkin (questa volta in moto e a piedi), hanno perso il loro ossigeno per trasformarsi in autentici cul de sac. Le strade sono sbarrate e a senso unico, non c’è più alcuna via d’uscita.
Non si vive e muore più a Los Angeles, non c’è più alcun braccio violento della legge (non c’è più legge verrebbe da dire), ormai la tragedia umana è una commedia d’interni. Come Polanski, oltre Polanski. Il problema, ancora più grande, è che questi interni hanno perso la loro sacra identità, che le famiglie che li abitano sono diventate unioni perverse, unità coese solo (e non sempre) geneticamente ma oscure e inconciliabili socialmente. Gioco-rimando scorrevole e ipnotico, il non-luogo si è fatto casa (e famiglia).
Sotto questa luce oscura Friedkin non può che lavorare di contrappunto, nella direzione di un’ironia impetuosa, che trasforma l’azione in un gioco parossistico dove improvvisi slanci di violenza sembrano irrompere e squarciare lo schermo. La distruzione di una famiglia, ancora una volta disfunzionale, avverrà con l’aria scanzonata della beffa. L’America della speranza, dell’happy ending e del sogno è svanita per sempre sepolta dall’irriverenza del non-sense.
Friedkin indaga furibondo e divertito, perché è l'ironia l'unica forma di narrazione (e di riscatto) possibile e, soprattutto, la sola, politica manifestazione di una rabbia lucida e rinvigorita.
Il Killer Joe del titolo è interpretato da uno strepitoso Matthew McConaughey alle prese con la miglior prova della sua carriera. In questo perfetto meccanismo a orologeria Friedkin dimostra – una volta di più – come dietro alle pieghe del terribile e dell’osceno si nasconda sempre l’esilarante: gli ultimi venti minuti sono puro, violentissimo divertissement. Dal sesso orale applicato a una coscia di pollo al gioco al massacro in tempo reale. Il fatto è che questa spirale di determinismo e fatalità, di nichilismo e mostruosità, non provoca più nessuno spavento, anzi, fa solo ridere. Ecco il punto! Moriremo dal ridere e niente farà più differenza: il film si spezza dopo il massacro, quando Joe scopre che la (sua) ragazza è incinta. Schermo nero: e questo è l’unico, delirante, coraggiosissimo lieto fine possibile.
Grande Friedkin, il suo è cinema politico fino al midollo.

domenica 20 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #3
"C'era una volta in Anatolia"

”Un giorno uno potrà dire: una volta in Anatolia, lavoravo in campagna. Mi ricordo di quella notte in cui accadde questo. Potrà raccontarla come una favola, non è vero dottore?”
(C’era una volta in Anatolia)


C’erano una volta degli uomini che, immersi nel buio della notte, si smarrivano fissando l’oscurità. Avanzavano con le automobili lungo le enormi distese della campagna turca, cercando di fare luce su un cadavere inghiottito dal buio.
Così si apre “C’era una volta in Anatolia” di Nuri Ceylan, come il manifesto di chi crede che fare cinema sia perdersi nell'oscurità, raccontando un’umanità dispersa, vagante ed impotente di fronte alla banalità del male. I fari delle automobili, uniche luci nel regno delle tenebre, danno voce ai pensieri non detti, al silenzio di uno sguardo e agli spettri del passato. E' possibile andare avanti solo per supposizioni e per istinto, come a ribadire che, del resto, siamo solo uomini.
Ceylan ci avvolge nel suo cinema-fiume, accompagnandoci in un viaggio lento e desolato, usando il linguaggio dell’ipnagogia e del sogno: e com’è bello nuotare sott’acqua senza mai sprofondare ma senza nemmeno poter risalire a galla. Agitiamo le braccia sospese ma scorgiamo, con un senso di quieto, flemmatico orrore, la vertigine che si agita impetuosa sotto di noi.
Abbiamo tempo, tutto il tempo del mondo, per pensare e guardarci, per ricordare ed amare, ed è proprio questo a far paura: quando lo sguardo si volge in profondità gli occhi si stancano perché si abituano al buio e capiscono che un fondo proprio non c’è. Eppure, ostinati e ormai ciechi, continuiamo a guardare. Il buio non è mai buio ma vive di sfumature di oscurità: è esattamente come immergere la testa in un pozzo senza fondo. Non rimane altro da fare che perdersi in campagna, girovagare senza trovare, precari di verità e succubi del mondo. Il passato ha generato ferite che non possono essere rimarginate.
Ma nelle favole e nei miti, qualche volta, la luce irrompe nel notturno che sembra un po' più luminoso.
C’era una volta in Anatolia una giovane donna, misteriosa apparizione angelica, che illuminava una stanza con la fioca luce di una candela e riusciva a scaldare le fredde membra degli eroi presenti.
C’era una volta in Anatolia una notte luminosa o un giorno che era già notte. Inno capovolto alla luce oscura, fino alla psicosi di un giorno che non sa più chi è, perché vede opposti dappertutto, proprio come nella poesia.
Del resto non si conoscono le risposte neanche indagando il corpo, come avviene nell’autopsia finale. Perché è vero che il cadavere viene ritrovato ma il film non è finito: rimane sempre qualcosa da cercare, un vuoto da colmare, in’insoddisfazione impossibile da superare. In piedi sul gorgo dell’incertezza la notte lascia filtrare le prime luci dell’alba. Rimane lo spazio per un’ultima autopsia: abbagliati ci affacciamo all’interno del corpo e scorgiamo l’autentico abisso che siamo noi.

venerdì 18 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #2
"Cave of forgotten dreams"


"C'è una scimmia sulla luna!" ("Faust" di Aleksandr Sokurov)


Partiamo da dov’eravamo rimasti, dall’era della fine del cinema e delle narrazioni: “Holy Motors”. Ma soprattutto partiamo dalla scena che precede il finale, quella in cui Monsieur Oscar torna dalla “sua”(?) famiglia di scimmie. Dalla finestra di un appartamento parigino vediamo questi nostri buffi antenati mentre ci guardano. Avvertiamo subito una stranissima, anomala possibilità di scambio, come l'eco di un riflesso lontano ed ancestrale. Ma, soprattuto, avvertiamo una possibilità di riconoscimento.
Cosa vive nello sguardo di un animale che non è in noi? Ma soprattutto siamo ancora noi quelle scimmie? Ecco, il punto focale del discorso si trova proprio qui: in quegli abissi profondi che solo uno sguardo sa (s)velare, in quegli attimi di inversione prospettica in cui gli occhi languidi si riconoscono come in quel quieto, lontano primo amore.

Uno sguardo che in un solo istante è in grado di annientare il mondo, la storia e la cultura, l’evoluzione e la caduta, per ricordarci chi eravamo e chi siamo sempre stati. Per rimandarci all’interno delle nostre prime grotte, dove l’umanità diventava tale, dove tra le pitture rupestri scoprivamo e svelavamo un altro mondo proiettato all'interno della caverna.
Forse alcuni sogni sono perduti, ma quegli uomini siamo ancora noi (e del resto, verrebbe da dire, di sole caverne è fatto il mondo). Ecco “The cave of forgotten dreams” in cui Werner Herzog scopre la prima grande sala cinematografica dell'umanità: la grotta di Chauvet.
E’ d’obbligo premettere come Werner Herzog non abbia mai smesso di camminare, nel folle, insensato, meraviglioso tentativo di ricercare una continuità in un mondo che ne è privo, che vive sempre di più di isole e frammenti. Questa volta, facendo un passo al di qua dall’ignoto spazio profondo e uno al di là del paese del silenzio e dell’oscurità, guarda direttamente a 32.000 anni fa, sostenendo che il cinema, o meglio l’immagine in movimento, abbia una storia antichissima. Ennesima ipnotica sfida ai limiti del visibile e del possibile, sguardo atletico ed irresponsabile, Werner Herzog continua a guardare in affondo proponendo una perla rara e preziosa, sottraendosi dagli sguardi delle masse per finire nel limbo dei “non visti” (dove il cuore del cinema degli ultimi anni sembra pulsare).
Accompagnato da una troupe ridotta ha la possibilità di filmare l’interno della grotta di Chauvet, nel sud della Francia. Qui sono state scoperte le pitture rupestri più antiche dell’umanità che sembrano già presentare un’idea di movimento. Come a dire che l’immagine in movimento sia stata lì fin dal principio.

Il cinema non è mai stato inventato, piuttosto è stato scoperto. Già era lì, 32.000 anni fa, diretto, manipolato, perfino postprodotto, godeva di un regista e di una platea che attraversavano (e attraversano) i millenni. In questo tempo fatato e sospeso assistiamo a opere d'arte comunicanti nell’arco di secoli, avvertiamo gli spettri dei nostri antenati, sentiamo le loro voci, il loro sguardo e perfino il loro respiro che aleggia su di noi.
Opera incredibile sulla memoria, sul movimento, sulla successione e la cooperazione che non conoscono distanze temporali: è la storia dei film infiniti, privi di pellicola o durata. Intuizione straordinaria poi quella stereoscopica: restituire profondità e idea di movimento alle nostre origini vuol dire rigenerarle, come un rito magico ed ancestrale che ha la pretesa di dare nuova vita ai morti: ed ecco che i cavalli ricominceranno a correre e i bambini torneranno amici dei lupi.
Il segno diventa la misteriosa, oscura quintessenza della memoria e dell’immortalità: come quel pittore antichissimo che tracciava la grotta con i palmi della sua mano, liberandosi per sempre dalla prigionia del tempo. E ci si chiede chi, cosa siamo diventati, cos’è cambiato in trentamila anni, se siamo ancora noi gli uomini delle grotte. E poi, con sottile e caustica ironia, ecco l’immagine dei coccodrilli albini, abitanti della centrale nucleare vicino alla grotta. E, come avveniva con le scimmie di Carax, ci scopriamo di nuovo riflessi nei loro corpi a guardare i (nostri?) dipinti. Perché forse un giorno potrebbero essere proprio loro i nuovi abitanti delle caverne.

giovedì 17 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #1
"Holy Motors" e "Cosmopolis"




Il cyberspazio è un ventre materno, attutito e protetto, iperfunzionale e domestico come una limousine. Casa-cervello che vive osservando il mondo, internizzandolo e addomesticandolo: la claustrofobia è uno spettro del passato, la claustrofilia è un modus vivendi (e non siamo di fronte, nel 2012, a svariati esempi di questa “libera” reclusione dello sguardo, di quest’ossimoro liquido che abita “Cosmopolis”, “Amour” fino, ovviamente, a “Io e te”?).
Vive nel nulla la morte degli esterni: abbiamo fatto del mondo una scatola d'interni, abbiamo creato nuove superfici e nuove barriere che ci cullano proteggendoci dall’indifferenza e dalla solitudine. Una nuova pelle ci separa dal mondo. Ed ecco avanzare per le strade delle metropoli limousine color panna, tutte identiche e rarefatte. Come corpi metallici, artificiali e meccanici, sensuali e domestici, ospitano le non-vite dei loro abitanti. Il mondo oltre il finestrino appare distante ed ovattato, ormai ha perso completamente credibilità.
In “Cosmopolis” non rimane altro che un “di dentro” artificiale e vacuo, il mondo cibernetico del dialogo e dello sproliloquio. E’ ormai inevitabile seguire quel dangerous method dove la parola si è fatta carne. Quest’astronave di lusso viaggia per le strade di una Manhattan alla deriva capitalistica. L’impero sta crollando ed Eric Packer (Robert Pattinson), vampiro della finanza, cyborg del mondo, tutto programma e tutto progetta in una società dove il topo è unità monetaria. Packer dà forma alle cose, controlla e stabilisce l’ordinario, neutralizza i rapporti umani dietro a una sessualità meccanica e liquefatta che abolisce ogni forma di desiderio. Il suo unico obiettivo è quello di dare forma a capelli informi, ma questo vuol dire arrivare dal barbiere fidato dall'altra parte della città.
L’humanitas muore schiacciata dalla forma.
Ma tutto questo iperrealismo così aumentato e patinato, così perfetto, non può che esigere un’imperfezione, un errore di calcolo (tema dominante in tutta la filmografia Cronenberghiana, da “La mosca” a “Inseparabili” fino a “History of violence”), e quell’errore, guarda caso, si trova proprio all’interno del corpo: Eric ha la prostata asimmetrica. Questo non può che portare al collasso fisico e mentale, alla caduta necessaria e inoppugnabile di un sistema: Eric deve uscire dalla limousine, liberarsi da ogni protezione (uccide la sua guardia del corpo) e scontrarsi col suo doppio, con la sua nemesi originaria all’interno di un altro, ennesimo interno che tanto assomiglia a una discarica. Ed è nella sospensione di un grilletto che esita (esita!) a premere, negli sguardi per una volta vivi e nel riconoscimento nell’altro, che Cronenberg interrompe il suo film. Con questa significativa cesura Cronenberg radiografa come nessun altro la nostra contemporaneità, che non conosce più finali ma solo attese e sospensioni, ennesime “non vite” sul baratro della stasi.
“Dove finiscono le limousine di notte?” è la domanda di “Cosmopolis”. E, di conseguenza, Leos Carax pare rispondere “A Holy Motors”.


Sulla limousine accanto a quella di Eric Packer si muove Monsieur Oscar (Devis Lavant), performer all’interno di una realtà così assurda da sembrare irreale. Ma qui la limousine assume la dimensione vaginale del camerino di un attore, dove tanti, nuovi personaggi prendono vita. Perché Oscar non è nessuno e, di conseguenza, può essere tutti vivendo le vite degli altri. Una volta uscito dall'automobile "diventa" un mostro, una barbona, un padre di famiglia, un killer professionista, un anziano sul letto di morte. Ma chi è poi veramente?
Orfani di un’identità dimenticata, laddove ogni luogo è morto, si realizza l’incubo della vita come non luogo per eccellenza. Oscar arriva perfino a vedere “se stesso” e a uccidersi.
Davanti agli spettatori assopiti dell'inizio del film (che, guarda caso, comincia con Carax stesso che osserva il suo pubblico) il (non) protagonista di quest’odissea cinematografica contamina generi differenti, frammenti di storie che non hanno più il tempo – né il bisogno, né il senso – di svilupparsi, di vivere e protrarsi. E’ nel movimento frenetico all'interno della Ville Lumière che avvertiamo come non esistano più case né narrazioni. Carax racconta la nostalgia per le storie che non potranno più essere e poi, anarchico come sempre, apre i viatici del labirinto, tornando ad (in)abitare una casa di scimmie. Queste creature sembrano guardarci da lontano e ricordarci che loro non si sono mai mosse ma sono sempre rimaste lì, in attesa che potessimo guardarle e capire. E così gli sguardi si scambiano in quel gioco di specchi e di rimandi che trova le sue origini ai tempi delle caverne.
In questa corsa all'invisibile (dove tutti simulano e nessuno più è) anche il personaggio dell'autista, che sembrava l'unico autentico, a fine turno indossa una maschera ed esce dal garage di "Holy Motors".
Ma allora, in assenza di qualsiasi essere umano, succede qualcosa di completamente inaspettato: emerge un impossibile, dimenticato sentimento di compassione, di sofferenza condivisa, ma a provarlo non sono più gli uomini ma le stesse limousine, tracce di materia che, molto presto, verranno sostituite da qualche nuovo, invisibile simulacro.

mercoledì 16 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA’

2012 - uno sguardo sotto il segno dell’instabilità.




Ultimamente ho lavorato molto a un testo che riuscisse ad abbracciare le immagini, le idee, i temi e i film più interessanti di questo 2012 cinematografico. Una sorta di grande edificio di suggestioni ed emozioni o forse, per dirla alla Bauman, una sorta di ipertesto liquido. Ovviamente ho dovuto abbandonare molto presto l'idea di un unico articolo (sarebbe stato troppo lungo e dispersivo per un blog), preferendo dividere tutto il lavoro in più parti. Premetto subito che tutti i film a cui saranno dedicati i prossimi articoli o sono usciti nelle sale italiane nel 2012 oppure sono stati recuperati da festival, rassegne e altre piattaforme. E' ovvio che non ci saranno molti film datati 2012 che, per una ragione o l'altra, sono stati acquistati per essere distribuiti nel 2013.
Fatta queste premessa di carattere organizzativo possiamo andare avanti. In questo primo post troverete solo un'introduzione a quello che sarà il lavoro sui singoli film.



Alla fine del 2011 mi pareva di rintracciare una serie di film tutti protesi in un dialogo fondativo sul cinema, sul suo nuovo inizio e sulla sua fine obbligata: era come se ognuno di questi film fosse una chimera pronta a testimoniare il suo punto di non ritorno, il fatto che nulla fosse più reversibile. (Se Tarantino aveva dimostrato la reversibilità del cinema e della storia qualche anno fa con “Bastardi senza gloria”, Malick, Tarr, Sokurov e Trier sono lì a dimostrare l’irreversibilità del mondo, della storia e del cinema). Ho visto quei film parlare in un linguaggio senza parole, li ho osservati nel loro simbolico scambio di immagini-pensiero: la tela era il cinema e potevi vedere allo stesso momento, su schermi diversi, “The tree of life”, “Melancholia”, “Il cavallo di Torino”, “Faust”.
Quest’anno, quello dell’Apocalisse (ma il mondo non era già finito?), non ha avuto gli stessi dialoghi del 2011, ma ha vissuto all’ombra di una defaillance collettiva che sarebbe banale additare unicamente alla rinomata, chiacchieratissima crisi. Ormai siamo andati oltre la fine, nei territori baudrillardiani del postumano. Non c’è più nessun inizio o fine del mondo, e anche i film più catastrofici sono lì a dimostrarlo. Non possiamo più credere a ciò che vediamo, la vista non è attendibile, ma anche il corpo millanta e camuffa oscure nuove identità. Siamo sotto il segno dell’instabilità all’interno di un sistema che ci esclude. Sistema perfetto dove ogni ingranaggio è al suo posto, dove anche la/e crisi sono parte di quella perfezione.
Il mondo dell’indifferenza e della decodificazione, del numero e del digitale, diventa cyberspazio per Cronenberg e Carax ("Cosmopolis" e "Holy Motors"), test perpetuo per Garrone ("Reality"), rinascita per Bertolucci ("Io e te"), oscurità autoptica e riflessiva per Ceylan ("C'era una volta in Anatolia"), viaggio alle origini del cinema per Scorsese ("Le avventure di Hugo Cabret") e viaggio alle origini della visione per Herzog ("The cave of forgotten dreams"). E intorno ci sono tanti altri film che, nel bene e nel male, hanno contribuito a squarciare, una volta di più, i residui del corpo.

(continua...)

sabato 12 gennaio 2013

Lulù



Perturba le notti candide il solo ricordo di "Lulù e il vaso di Pandora".
Quant'è pericoloso il giovane fiore ed innocente il peccato!
Mi pare di scorgere uno spettro sullo schermo del silenzio, come linda, genuina, pericolosa bellezza che non ha bisogno di parole perché ha il potere di ammaliare (e di distruggere) con il solo sguardo.Vicina e distante, come eco di un regno oscuro ma immacolato, Louise Brooks ha sedotto il cinema.
Penso al volto della sua Lulù come immagine-affezione per eccellenza, insieme forse alla Giovanna D'Arco della Falconetti e alla fumosa, smaliziata, divina Marlene Dietrich. Torna alla mente come visione alchemica, amorale perché non conosce nè bene nè male, la bambina alla corte del mondo: la purezza della creatura di Pabst non può che annientare chiunque la circondi, per finire a sua volta annientata in un finale meraviglioso e tristissimo, ma fatale e necessario. La potenza sconosciuta e struggente che emana il primo piano è quella delle figure che emergono dall'oscurità, che richiedono all'occhio di abituarsi al buio per poter essere comprese ed amate. E' la luce che nasce eterea nel regno dell'ombra.
Il volto di Louise Brooks è un paesaggio infinito, misterioso e sublime, dove perdersi tra i segreti del tempo e le forme dello spazio.





"Perché il bello è solo l’inizio del tremendo,
che sopportiamo appena,
e il bello lo ammiriamo così
perché incurante non disdegna di distruggerci".


(Rainer Maria Rilke, “Elegie duinesi”)

venerdì 11 gennaio 2013

WHAT IF? Indagini sul reboot





Ho come l’impressione che oggi non si possa più immaginare un cinema al di fuori della fine: intrappolata in prigioni liminali ed evanescenti la narrativa si sta nutrendo di elementi anacronistici per poi digerirne delle componenti mutanti. L’impossibilità sistematica di nuove narrazioni ha a che fare con la limitatezza delle storie possibili, con teorie archetipali e grammatiche sovrastrutturali. Il rifugio postmoderno si è rivelato il più comodo ma rarefatto dei nascondigli. Caratterizzato com’è da un regime primariamente logico-quantitativo, il postmoderno ha fatto del pastiche la sua forma, del boutade la sua parola, del riciclo (sistematico, transitivo e infinitamente declinabile) il suo topos. E così è stato possibile che i Puffi sposassero Pocahontas, che il porno bussasse all’interno di un izba Tarkovskiana, che i gangster Scorsesiani praticassero kung fu, che Baudrillard diventasse minestrone new-age. L’entrata nel nuovo millennio è stata segnata da troppi finali che hanno marcato, corroso, sporcato forse un immaginario ben più infantile. La realtà, invidiosa, ha imitato la narrazione (il riciclo del “tragico” dell’11 Settembre), il vero il verosimile (la morte in diretta), per poi portare a cortocircuiti irrimediabili (la strage di Denver).
“L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia…”(1). Questo reale utopico, memoria di un mondo perduto e antico, artigianale e non digitale, manuale e non cibernetico, rientra ormai nell’al di là. L’al di qua è pura, autentica narrazione. Siamo già modelli del cyberspazio. E’ impossibile, allora, superare la fine e inventare? Gli anni ’90 e i primi anni ‘0 sono stati la vittoria del remeake, del sequel e del prequel. Ma oggi bisogna cambiare l’origine per poter ricominciare. Bisogna immaginare reboot e infiniti what if. Centro nevralgico, polo di attrazione e repulsione, il buco nero della narrativa si erge impetuoso come colonna terminale del lungo viaggio dell’immagine-narrazione. La vita tumultuosa, rumorosa e blockbusterizzata della grandi saghe del passato dev’essere rivista.
Mi pare di scorgere ormai una chiara tendenza al reset, al riavvio del sistema, al reboot come indice sommario di una nuova esistenza del cinema e delle sue narrazioni. Il reboot è oggettivazione dell’impossibile, è un what If storicizzato. Ricomincio da capo, per l’appunto. La sensazione è che la narrativa, per superare il postmoderno e ricominciare ad inventare, debba emulare gli strumenti dell’informatica. La soluzione più efficace, si sa, rimane quella più semplice agli occhi. Davanti a un problema si arresta e si riavvia il sistema (davanti a un punto morto di una narrazione ormai stantia si riavvia il meccanismo narrativo). Se il problema persiste non resta altro da fare che usare una time machine: si torna indietro nel tempo quando ancora tutto funzionava. Si fissa una data, un nuovo inizio per proseguire come se niente fosse stato, come se tutto il tempo trascorso non fosse mai esistito. L’universo narrativo, esattamente come quello multimediale, viene resettato, sparisce dissolto nella formula del deserto: quel non è mai successo che trasforma il futuro in miraggio. Le grandi saghe, come le avevamo conosciute, diventano così autentiche fate morgane, visioni illusorie e tracce di un mondo parallelo ma ormai perduto e inconciliabile. D’ora in poi il narraresettatore potrà muoversi liberamente su un’altra linea temporale perché il futuro non è più scritto e definitivo. Il reboot si profila così come morte del determinismo narrativo, sfida vinta contro il fato, manifesto del libero arbitrio che per esistere ha bisogno di negare quanto è esistito: la sua stessa storia. E allora, alle origini di una nuova, revisionista mitologia, Spiderman può tornare Peter Parker e rivivere diversamente la propria storia.



Mi pare di rintracciare tale tendenza al grado zero del mito in svariate creazioni del nuovo Re Mida di Hollywood, J.J.Abrams, prima con la sua creatura più famosa, “Lost”, e poi con il reboot di “Star Trek”, vero e proprio indice di un what if di proporzioni epiche. Davanti a una saga che rischiava di giungere ormai al capolinea J.J.Abrams è salito al timone dell’Enterprise per rilanciarla. Il problema era evidente: come muoversi in un universo perfettamente collaudato e coerente come quello di “Star Trek”, famoso per la precisione quasi filologica con cui presentava strutture federazionali, sociali e relazionali, razze aliene con culture, lingue, religioni, usi e costumi completamente diverse dalle nostre? Il rischio era quello di rimanere intrappolati nei rigorosi codici Trek, senza la possibilità di attirare nuovi spettatori. J.J. Abrams ha fatto così scacco matto: ha riportato il mito al suo grado zero, ovvero ha deciso di tornare ai tempi dell’entrata nell’Accademia della Flotta Stellare di un giovane e irrequieto James T.Kirk. L’intuizione è stata quella di trasformare il prequel in reboot attraverso l’espediente di Nero, ennesimo cattivone interstellare che, spinto da sete di vendetta, torna indietro nel tempo per alterare per sempre la storia. Distrugge Vulcano e il mondo di Star Trek, così come l’avevamo conosciuto, non sarà più lo stesso. “James T.Kirk era un grande uomo” recita Nero “Ma quella era un’altra vita”.
Il reboot sfida la Storia mostrandola infinitamente reversibile e insegnandoci che nulla è definitivo, nemmeno la morte; trattasi di un revisionismo rivoluzionario senza precedenti che fa del familiare sconosciuto la sua legge aurea. Familiare perché il mondo che conoscevamo prima non permane se non come traccia (il ritorno dello Spock “originale”, Leonard Nimoy, è da leggere come residuo e salvaguardia della memoria); sconosciuto perché la storia è andata diversamente e gli eventi hanno preso una piega imprevedibile. Questo familiare sconosciuto rende, ovviamente, ancora più impressionante e teorica l’ucronia se essa viene applicata alla realtà e non ad un universo narrativo. Il cinema immediatamente si nobilita perché, per la prima volta, ha la possibilità di riscrivere la storia e di giocare con il mondo. Nella sua sfida all’impossibile, allora, Quentin Tarantino fa morire Adolf Hitler all’interno di un cinema, le Torri Gemelle sono ancora in piedi in un episodio di Fringe e chissà quanti altri spunti potrebbero esistere. Orizzonti distopici potrebbero raccontarci gli effetti nefasti di una guerra nucleare che ha colpito il mondo negli anni ’90, oppure, qualcuno, potrebbe pensare a un presente diverso e gigantesco, parallelo, vicino e assai lontano.
E’ con il what if che il cinema può riscrivere le sorti del mondo e tornare a credere nell’Utopia.




(1) Cfr. Jean Baudrillard: “Cyberfilosofia”, Mimesis edizioni, Milano 2010, p.10.