giovedì 28 marzo 2013

Il vero amore supera la morte: "Violent Virgin" di Koji Wakamatsu




Ieri vedevo "Violent Virgin" del gigantesco Koji Wakamatsu, scomparso da pochi mesi.
Il film ha continuato a vivere nella mia mente e ad alimentarsi nei miei sogni per tutta la notte.
Scrivo con le immagini ancora nitide in testa.

Campo desolato e desolante,
qui si consuma la battaglia di individui tornati animali,
di uomini con la coda
di donne crocifisse.
Inferni lisergici
dolci e violenti,
baci carezze
e colpi di sangue.
E correndo nudi nei campi
torna la straziante devastante ossessione.
Allegoria e mitologia cedono il passo alla poesia
allora è proprio vero
il vero amore supera la morte.

Uno dei capolavori assoluti di Wakamatsu e del cinema nipponico.

martedì 19 marzo 2013

Riflessioni a caldo su alcune direzioni del cinema meanstream Americano




Guai a chi esce fuori dal tracciato!
L'America è ancora la terra del riscatto, dove anche l'ultimo degli uomini può guarire e rifarsi una vita. Pareva morto, ma il sogno Americano è più vivo che mai, e si declina cinematograficamente in svariate forme. Vai a vedere un filmetto per giunta mediocre, tanto esaltato dagli Americani, come "Il lato positivo" e ti rendi conto di come l'America non sia mai uscita dal suo sonno narcolettico.
"Il lato positivo" è un prodotto prevedibile e consolatorio, dove i personaggi sono ridotti, ancora una volta, a figurine e funzioni (guardare per credere l'ossessivo-compulsivo padre di Robert De Niro che non è poi così distante, come verosimiglianza e credibilità, al padre paranoico di "Ti presento i miei" e seguiti). E Jennifer Lawrence, che mi dicevano fosse una nuova grande rivelazione, mi pare un'attricetta piuttosto trascurabile che ha soffiato un Oscar alla ben più corposa Jessica Chanstain.
Di conseguenza il successo de "Il lato positivo" si inscrive nel percorso di un'America sempre più conservatrice e retrograda, che premia il buon "Argo" sentendosi progressista ma che in realtà testimonia tutta la sua arretratezza. Non perché "Argo" sia un brutto film, al contrario, è ben diretto e costruito in maniera esemplare, ma perché presenta un'America per cui vale ancora la pena lottare e credere. Inoltre mostra sempre un ritorno al nucleo familiare inscindibile, alla sicurezza del sogno. Al contrario un film ben più coraggioso come lo straordinario "Zero Dark Thirty" (uno dei capolavori della stagione) viene snobbato perché l'America qui rappresentata è una terra di solitudini, misfatti e crudeltà. Qui non c'è più nessuna famiglia in cui tornare, ma solo le lacrime sul volto di Jessica Chanstain, testimoni di una solitudine e di un malessere molto più profondo.
"Zero Dark Thirty" è la controversa ed ineccepibile parabola sull'ossessione come fame onnivora e unidirezionale, capace di accecare e di inghiottire tutto il resto in un vortice di follia senza fine: l'America descritta nel film è asfissiante ed esclusiva, è quella delle stanze di tortura, degli elicotteri e delle automobili, della sale di riunione e progettazione, degli uffici e dei rifugi insospettati, distanti dal mondo e dagli occhi dei media. La caccia all'uomo si consuma lontana dagli occhi del comune cittadino, completamente (e genialmente) escluso dal film, come una sorta di protagonista assenteista. E quando lo scopo viene raggiunto non esiste nè pentimento nè rielaborazione, ma solo un terribile, avvolgente senso di vuoto. L'ossessione è stata consumata e ora?
La differenza, direi, mi pare questa: in "Zero Dark Thirty" il personaggio si "svuota" progressivamente fino a ritrovarsi a un disperante, consapevole grado zero, come in una sospensione reale e insieme cinematografica, in "Il lato positivo", "Argo" e affini i personaggi si riempiono, quasi abbuffandosi, arrivando alla bulimia di chi è "solo" finzione.


venerdì 8 marzo 2013

ORFANI DI REALTA' #15
Il ritorno dell'Angelo sterminatore




Terra due. Specchio (riflesso). Guardando sei guardato.
Siamo ormai all’ultimo capitolo di “Orfani di realtà” e mi ritrovo a pensare ad “Another Earth”, interessante opera prima di Mike Cahill. Un pianeta speculare al nostro che ospita, presumibilmente, un’altra versione di noi stessi. Questa copia (o originale? O copia della copia? Ma che ha importanza ha poi?) ha fatto altre scelte, ha preso altre strade o direzioni. Mentre ci guardiamo possiamo immaginare tutti i possibili what if di ieri, di oggi e di domani. E' questa l’intuizione interessante di un film tutto volto a rintracciare uno dei principi base della narrazione in toto: poter pensare al condizionale, immaginando infiniti come se. Del resto il cinema (come ogni letteratura) è sempre stato scritto al condizionale, mentre quella che chiamiamo “realtà” (obbligatoriamente tra virgolette) è vittima di un indicativo imperante.
Ma è interessante notare come il fenomeno del what if si generi, sempre più spesso negli ultimi anni, dall'esperienza del lutto (o meglio, dall'elaborazione del lutto). Sembra proprio che tanto cinema recente ci stia letteralmente dicendo che per immaginare e vivere una nuova vita, per rifondare la visione e guarire gli occhi, sia necessario morire, simbolicamente o letteralmente. La palingenesi dello sguardo, quindi, richiede come espediente narrativo la morte, e si presenta, di conseguenza, come una nuova, vitale elaborazione di questo lutto. I collegamenti sono subito immediati: quando Terrence Malick torna a vedere per la prima volta ha bisogno di una scomparsa, di un immediato tangibile non esserci; la morte del fratello del personaggio di Sean Penn che, sebbene non venga mai mostrata, è l’ombra oscura ma fondante di “The Tree of life”. Oppure, ancora, vediamo la morte come assenza di azione, come quella depressione o melanconia che avvolge il personaggio di Kirsten Dunst nel primo tempo del film. Questo stato di distanza dagli altri, di morte apparente, è l’unico modo possibile per poter “sentire” il mondo e i suoi mali, per poter aspettare la fine con nuovi occhi e senza paura, arrivando perfino a poter amare quella fine. La morte è il punto di non ritorno per un viaggio: “Faust” di Sokurov sta lì a testimoniarlo.
Ecco che la scomparsa da questo mondo (e di questo mondo) si profila come ipotesi di apertura e di narrazione, come unione panteistica tra microcosmo e macrocosmo.



Perfino un film solo in apparenza più innocuo e meno teorico come “Skyfall” viaggia in questa direzione. Assistiamo, difatti, alla prima, clamorosa morte di James Bond. Ed è questa morte a poter generare una resurrezione e una nuova, umanissima versione dell’agente 007: solo morire ha permesso a James Bond di essere un uomo come tanti, di uscire dallo spettro supereroistico per profilarsi come individuo dolente e fragile, depresso e dubbioso, in preda a un’autentica crisi d’identità che non ha precedenti nella sua storia. Stiamo parlando di un eroe che non passa i test psicofisici e che è succube di un matriarcato ormai esplicitamente crudele: una vera e propria rivoluzione portata da Sam Mendes e dal suo staff. Rivoluzione che molti hanno giustamente individuato nella progressiva, inevitabile Nolanizzazione di Hollywood. Che Christopher Nolan abbia portato alla ribalta il supereroe stanco, fragile, non più invincibile (che può anche morire) è evidente a tutti: da questo punto di vista la trilogia di “Batman” rappresenta il punto di non ritorno che ha inevitabilmente oscurato il destino e il futuro delle grandi saghe (nel bene e nel male).
E’ una direzione interessante ma pericolosa, demitizzante e in equilibrio precario: se i supereroi possono morire allora è ovvio che il cinema immaginifico e "impossibile" rischia di andare sempre di più nella direzione della “realtà” (con tanto di ovvi riferimenti alla crisi economica, all’11 Settembre, al terrorismo e al crollo della borsa). Ovviamente il rischio è che la vita ordinaria rischi di stabilizzare e quotidianizzare il fantastico (per poi, eventualmente, farlo rinascere e rivendicare come nel finale fiorentino ed imbarazzante dell’ultimo mediocre Batman). Di conseguenza se l’ultimo Batman è stato vittima e manifesto di questo processo perdendo, nel suo essere cinema d’attualità, tutta l’immaginazione del primo Nolan (mi riferisco a “The prestige”, “Insomnia”, “Following” e non certo dello sterile e per niente onirico “Inception”), “Skyfall” si è presentato al contrario come una rivoluzione interessante ed abissale (il rischio, semmai, sarà nei prossimi capitoli). Comunque staremo a vedere. Certo è che basta osservare il trailer di “Star Trek – Into the Darkness” per rendersi subito conto di questo processo di Nolanizzazione dei blockbuster.



Torniamo ancora alla morte come anticamera della nuova narrazione. Gioca su questo il sempre citato “Holy Motors” che potrebbe ergersi a manifesto epocale di un cambiamento, come l'epitaffio dell'identità (chi non muore non è) e documento prezioso e visionario sulla continua trasformazione della narrazione. Qui, addirittura, la morte non esiste più. Tutto è simulato (esatto contrario della tangibilità dell’universo Nolaniano).

Epilogo

Simulazione come indice sommario degli “Orfani di realtà”. Non-luoghi che avanzano ipertrofici, mondi che si rinchiudono e recludono: internamento del mondo. Abbiamo visto tutto questo nei 15 pezzi che compongono i nostri "Orfani di realtà". Torno spesso a “Carnage” di qualche anno fa perché duetta bene con “Io e te” o “Killer Joe”. Ciò che mi interessa è quella forza invisibile che, in modo più o meno evidente, obbliga i personaggi a non uscire più dalle proprie gabbie. Sembra proprio di tornare a cinquant’anni fa, chiudendo idealmente un cerchio tra i più interessanti della storia del cinema: che l’angelo sterminatore sia il collante di questi mondi, come forza invisibile e irrazionale che nega la volontà degli uomini, recludendoli nelle gabbie da loro stessi create.
In Bunuel c’è già tutto questo.
La barriera è invisibile e non ha assolutamente senso. L’unico modo per superarla è continuare a recitare: attraverso l’analogia – e non la ragione – tutto potrà tornare in (dis)ordine. Nel frattempo lo spettacolo deve continuare. A noi la simulazione.



lunedì 4 marzo 2013

ORFANI DI REALTA' #14
"Prometheus"




La domanda di base di tutto questo servizio, “Orfani di realtà”, rimane una: chi guarda chi o cosa? Sembra tornare a disvelarsi in vortici concentrici il mito del guardare altrove scoprendo nell’altro se stessi. L’atto di guardarci non è poi così diverso da quello descritto nel capolavoro di Brackhage: ci si guarda dentro attraverso una radiografia (“La guerra è dichiarata”), un’autopsia (“Cera una volta in Anatolia”) o una sfida al corpo (“Hunger”). Ma possiamo rifletterci anche nel caos del mondo esterno, ritrovarci visti e perseguitati come in un panopticon (“Reality”), ricercare lo sguardo dei coccodrilli albini di una centrale nucleare (“Cave of forgotten dreams”) o di una famiglia di scimmie (“Holy Motors”) per poi riconoscerci come uomini. Potremmo andare avanti così per una vita: possiamo assistere alle crisi, alle convulsioni e alle insurrezioni del mondo oltre il finestrino dall’interno di un cyberspazio non poi così protetto (“Cosmopolis”).
Questo sguardo è declinato in maniera diversa in “Prometheus”, blockbuster solo in apparenza, che si serve di tutti i codici del cinema americano più basso (dialoghi, battute approssimative e diversi personaggi che sembrano più tipi che persone reali) per portare avanti una riflessione teorica tutt’altro che banale.
Partiamo dall’immaginario resuscitato di “Prometheus”, film sottovaluto e boicottato dai più, che rappresenta il ritorno di Ridley Scott alle atmosfere che lo avevano reso celebre, dopo anni di appannaggio e di scelte piuttosto opinabili. Per chi scrive non si tratta assolutamente di un film perfetto, ma è bene specificare che “Prometheus” e i suoi motivi di interesse non si trovano nei personaggi nè dei dialoghi, né nelle ingenuità (più o meno volute) di sceneggiatura. Un film come questo dev’essere difeso prima di tutto per la capacità di Gigerizzare la visione. Ogni cosa, dalle sedie ai tavoli a qualsiasi elemento decorativo, fa parte di un percorso teorico, di un inabissamento nei meandri oscuri della tecnologia. Ma oltre il livello visivo c’è un discorso non banale sul sogno come regno (im)possibile di salvezza. Nel collasso di un mondo dove ogni certezza è crollata l’umanità preferisce addormentarsi, sperando di poter trovare nel sonno (oltre il sonno) la ragione di ogni sofferenza, l’alfa e l’omega della vita. Ma si tratta di un sonno indotto dove ogni funzione cerebrale/decisionale è trasferita all’interno di un androide chiamato David (Michael Fassbender, ineccepibile come sempre).



La splendida, prima parte del film (indubbiamente la migliore) racconta l’umanizzazione della macchina: l’emulazione della voce e dei comportamenti umani, l’apprendimento della storia e della società grazie ai film del Novecento, l’attività ludico/sportiva all’interno dei corridoi asettici dell’astronave (e andare in bici e giocare a palla e così via). E infine David spia i sogni degli addormentati su uno schermo (nel futuro, lente d’ingrandimento sul presente, tutto è schermo). E quando i dormienti si risveglieranno alla ricerca di quelle risposte tanto anelate dalla storia dell’umanità avverrà la tragedia: ancora una volta il sonno della ragione genererà mostri.
…ed eccoli abbagliati e pregni di speranza e di attesa precipitare in un mondo oscuro, ospitare nuove forme di vita all’interno del proprio grembo: niente più esiste di per sè, la carne è vittima di una costante, inevitabile mutazione. Ora e per sempre mutanti in eterna trasformazione. Espellere i mostri sottocutanei, come se si trattasse di veri e propri demoni, ormai è vano: la scena del cesareo, in tutta la sua inquietante, Alienante perdita, è ancora una volta un inane tentativo di essere, di bloccare il flusso vitale, continuo della vita in subbuglio.
Alien” fu uno shock. “Prometheus” non poteva shockare, non poteva reiterare lo spavento e il senso raccapricciante di un corpo che ne ospita un altro. Poteva fare una sola cosa: oggettivare e dunque teorizzare quello shock, e dunque, deludere necessariamente (e genialmente) le aspettative.
Ormai, in un mondo dove l’azione è morta, siamo nel secolo della teoria.