martedì 25 marzo 2014

I film che ci vedono:
L'infanzia di Ivan




Un paio di settimane fa vedevo una copia in pellicola de "L'infanzia di Ivan" al palazzo delle esposizioni qui a Roma ed ero colpito ancora una volta dalla purezza del ricordo, da quell'immagine sempre pronta ad aprirsi, ad assorbire in sé gli splendidi e armoniosi detriti di un mondo dimenticato, che la guerra vorrebbe - ma non ha mai potuto - riuscire a fagocitare.
E poi quando son cadute le mele, in un bianco e nero che irradiava lo schermo e già suggeriva un mondo di colori, sono tornato dopo tanto tempo a vivere, a camminare, a correre, a piangere nello schermo, e ogni capacità di analisi, ogni lucidità è stata obnubilata.
I grandi film, del resto, ci fanno dimenticare la sala e il respiro del nostro stesso vicino. Abbattono le distanze, cancellano ogni pensiero del momento, ti prendono, ti scoprono, ti esplorano, negano la possibilità stessa di sentirti soggetto vedente, perché sono loro stessi a guardarti. Mi succede con ogni opera di Tarkovskij ed è uno dei motivi per cui corro ancora al cinema nella speranza che un film mi veda.
Mi basta il sorriso di Ivan o la sua gioia, la sua spensieratezza, mentre corre sul mare insieme a un'altra bambina. Il passato è una chimera gentile che sopravvive all'insidie del tempo e a una guerra che ha corrotto l'infanzia: ma quel passato, sebbene lacerato, sebbene superato, da qualche parte è pur sempre esistito.
E mi pare che il termine speranza indichi proprio questo.


giovedì 20 marzo 2014

MacGuffin e teoria del bluff:
Note su un paio di film di Soderbergh





Prendete l'intuizione hitchcockiana per eccellenza, la falsa pista del MacGuffin ed espandetela per un film intero (verrebbe da dire per tutta una filmografia, ma il discorso è più complesso): ne verrà fuori "Effetti collaterali", teorico e strepitoso bluff di Steven Soderbergh, quel regista che fino all'ultimo ti fa credere di star vedendo proprio quell'immagine lì ma che in realtà sta dicendo tutt'altro. Gesti filmici reiterati, coltelli ritornanti, flashback patinati e anch'essi strutturalmente hitchcockiani: tutto si condensa in una struttura narrativa perfettamente tripartita, dove sembrano esistere tanti film differenti e dove, spesso, non sai assolutamente dove si andrà a finire. L'espressione algida e ambigua di Rooney Mara pare perfettamente iscritta nella geometria circolare di "Effetti collaterali", in una danza di farmaci che è, prima di tutto, parola di patina o immagine di superficie.
Perché, per paradosso, tutto viene ricondotto all'essere umano.




Costruire e decostruire, mentire forse, disinnescare meccanismi che il film stesso innesca, ripiegarsi, avallare, indagare, perdere le tracce perché (a sua volta) indagati: la detection si è annodata, persa in se stessa, all'interno dei suoi stessi rimandi filmici: la sorpresa non è che il tradimento (la totale, radicale disattesa di ogni aspettativa).

Post Scriptum necessario per la teoria del trucco: "The Informant", altro manifesto soderberghiano. Perché l'agente Whitacre - "furbo almeno il doppio di James Bond" - è IL personaggio del suo cinema. Moltiplicatore di menzogna, intesa come impossibilità fisiologica di dire la verità, nasconde dietro alla patina dell'uomo comune un mondo di sotterfugi e simulazioni, fino a perdere il concetto stesso di realtà - vacillato per sempre o, forse, mai esistito.



Il passo falso di Clooney:
Monuments Men





Mi sarebbe piaciuto poter andare controcorrente ma, questa volta, non posso che darvi ragione: "Monuments Men" è il passo falso di George Clooney. E dispiace dirlo perché considero tutte le sue precedenti prove registiche (sì, anche la sottovalutata e raffinatissima commedia sentimental-cinefila "Leatherheads") degli ottimi esempi di cinema neoclassico hollywoodiano, diretti con intelligenza, garbo e amore. Ma qui qualcosa è andato storto ed è prima di tutto un problema di ritmo. E' come se il film non riuscisse mai a trovare il suo equilibrio, alternando toni da commedia a pedanterie retoriche che lo trasformano nell'ennesimo film edificante sullo spirito americano.
Il messaggio reiterato circa l'importanza dell'arte e della sua tutela è ribadito come in un pamphlet schematico e ridondante, dove si erge il mito di un Paese prima ancora del mito dell'Arte. Agli attori si vuol bene, è chiaro, ma l'impressione è che tutti i personaggi siano fuori fuoco e che perfino un'attrice meravigliosa come Cate Blanchett sia assolutamente sprecata in un personaggio mai così decentrato. E quel finale, che (mal)echeggia il soldato Ryan, è una delle cose più patetiche che si siano viste ultimamente su grande schermo. Un peccato perché sulla carta il progetto era assai accattivante. Non rimane che sperare che questo rimanga l'unico passo falso nella carriera di un bravo regista che ci avevi abituati a ben altri film.


Inscenando l'aria:
sul finale di "To The Wonder"




"(...) Agisci, svegliaci e richiamaci, accendi e rapisci, ardi, sii dolce. Amiamo, corriamo".
(Le Confessioni di Sant'Agostino, 8.4.9)

Mi piace pensare al finale di "To the wonder" come all'apice della dimensione estatica del cinema di Terrence Malick. Esistere significa vivere fuori di sé, continuare ad errare fino a fuoriuscire dal proprio corpo. La macchina da presa avanza tra gli alberi alla ricerca di ogni piccolo spiraglio di luce, tutta presa a catturare ogni singolo, eventuale, eccedente movimento della natura. Filmare significa esser catturati dal mondo, farsi sorprendere, cibarsi del sogno onnivoro, famelico, ipercinematografico di poter inscenare perfino il movimento dell'aria. Poi la macchina volteggia intorno al corpo di Marina, innescando con lei l'ennesima relazione d'amore. Distesa sulle spighe d'erba, lo sguardo della donna pare aperto all'altro, come visitato da una presenza sconosciuta, da un ricordo lontano che pensava ormai appassito. E bevendo gocce di rugiada finalmente crede e vede: alla meraviglia. Il suo volto s'illumina, Marina si volta radiosa, Mont Saint-Michel, e il sogno di un sogno che incendia lo sguardo. E inquieto il cinema di Malick - mai stato così ardente, così fragile, così umano - continua ad errare.

Corto-circuito:
Redacted di Brian De Palma





Filmare, editare, rielaborare.
Vedere, rivedere, non aver mai visto.

Redacted di Brian De Palma,
suprema riflessione sull'immagine,
corto-circuito definitivo
nel mondo bulimico dell'informazione,
nella voragine dell'omissione,
nella tempesta di immagini sintetiche,
nel convergere di linguaggi che hanno smesso di comunicare per continuare - solo - a dire.

Che sia vero che sia falso. Che sia vero il falso, non ha più importanza.
Ciò che conta è continuare a circolare.

Qui il cinema è finito (o, se volete, si è drammaticamente espanso e superato).


mercoledì 19 marzo 2014

Go, go, second time virgin

«Non sono triste. Io non piango, non sono triste... io non sono niente».

La terrazza come universo narrativo concluso in se stesso, dove sdraiarsi sotto la pioggia, parlare, ridere grondanti di sangue, schiaffeggiarsi, uccidere, correre e cantare mentre si guarda il resto di un mondo che non ci conosce più.
Il jazz avvolge il giorno e la notte e tra le immagini di un manga scorgiamo una foto di Roman Polanski e Sharon Tate. Alla fine non rimangono che due cadaveri su una strada.
Girato in quattro giorni a bassissimo budget, Go, go, second time virgin di Koji Wakamatsu è il potente racconto di come la rabbia e il dolore siano diventate ormai (siamo nel 1969) le uniche forme di comunicazione.

p.s. Io non lo so, non lo so proprio che cos'è quella sensazione. Ma è magnifica, e fa piangere da morire. E visto che oggi mi son preso una cotta per il blu, allora ripenso alla sequenza bluastra e carnale sulla spiaggia. Il cinema più bello, la terra straniera, l'UFO piombato su pellicola che si è spento troppo presto, quando ancora aveva tanto, troppo da dire. In memoria di Kōji Wakamatsu.

Zero Dark Thirty:
racconto di un'ossessione





Che gran film Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow. Controversa ed ineccepibile parabola sull'ossessione come fame onnivora e unidirezionale, capace di accecare e di inghiottire tutto il resto in un vortice di follia senza fine: straordinario il personaggio di Jessica Chastain (per quanto mi riguarda la migliore giovane attrice Americana in circolazione), furia umana potente e debordante, riflesso ed emblema di un Paese capace di tutto pur di raggiungere il suo fine. Il mondo di "Zero Dark Thirty" è asfissiante ed esclusivo, è quello delle stanze di tortura, degli elicotteri e delle automobili, della sale di riunione e progettazione, degli uffici e dei rifugi insospettati, distanti dal mondo e dagli occhi dei media. La caccia all'uomo si consuma lontana dagli occhi del comune cittadino, completamente (e genialmente) escluso dal film, come una sorta di protagonista assenteista. E quando lo scopo viene raggiunto non esiste nè pentimento nè rielaborazione, ma solo un terribile, avvolgente senso di vuoto. L'ossessione è stata consumata e ora?
Sola, Jessica Chanstain parte senza direzioni ma solo con delle lacrime che scivolano sul suo viso. (Sospesa).

Perdersi è meraviglioso:
appunti su La morte corre sul fiume





Perché La morte corre sul fiume rimane una delle cose più belle che abbia mai visto. Forse è per quell'atmosfera notturna e fatata, per quella storia di buoni e cattivi, di bene e male, di amore e odio, per quel suo modo di procedere fiabesco e incantato. Forse è per Robert Mitchum che che cavalca all'orizzonte cantando "Leaning on the Everlasting Arms", che fa pensare a quell'uomo nero che prima o poi verrà a prenderci. Spettri dal fondo. E quando scorgiamo il cadavere di una donna sprofondata negli abissi, con i suoi lunghi capelli che ondeggiano come alghe, allora hai come la sensazione che in quegli stessi mondi stia nuotando ancora il protagonista de L'atalante. Fa venire i brividi solo a pensarci.
Il cinema è labirinto, perdersi è meraviglioso.




Non è solo una caccia all'uomo:
Essential Killing di Skolimowski




Caccia all'uomo e destino braccato: "Essential Killing" è l'opera che inscena, in maniera clamorosamente scarna e ascetica, l'istinto basico di sopravvivenza; ne deriva una riflessione lucidissima sulla natura animale dell'uomo stesso, salvo poi proporre un momento di sospensione davvero memorabile: la compassione della sordamuta, il calore di una casa e di uno sguardo in grado di superare le barriere di un conflitto. Unico autentico momento di humanitas all'interno di un percorso inevitabilmente regressivo: l'uomo è pulsione prima che ragione, puntino minuscolo in mezzo all'abisso, individuo braccato non tanto dagli altri uomini quanto dall'immensità della natura selvaggia: un mondo infinito tutto da percorrere, dove il tramonto è (pre)visione funesta di una fine sempre in agguato.
In questa corsa sfiancante sulla neve o nel deserto, tra i latrati dei cani e i respiri affannosi di Vincent Gallo, Skolimowski riesce ad asciugare, scarnire e denudare un intero immaginario, perché quello che gli interessa è l'uomo lasciato solo in un mondo dominato dall'ostilità. E così facendo ci regala un'opera profondamente politica - ma ancora di più, profondamente umana - che è davvero difficile dimenticare.