martedì 30 giugno 2015

Due o tre impressioni su Tokyo Tribe




Mi duole ammetterlo, anche perché vado matto per il cinema di Sion Sono, ma "Tokyo Tribe", tour de force hip hop di botte, spari e sfide corpo a corpo, mi ha alquanto deluso. Il divertimento si è trasformato in noia dopo pochi minuti. Sion Sono sa cosa significa gestire lo spazio, sa cosa vuol dire lavorare sul rapporto erotico tra i corpi, sa architettare collisioni fisiche che sembrano mosse segrete di danze tribali...sa cosa significa creare un Giappone futuribile, tamarro e guerriero, ma tutto questo non basta. Qui perde di vista completamente il ritmo, il cinema, il tempo...le sue immagini saturissime diventano opache, chiuse in se stesse, godibili sì ma troppo incastrate in un divertissement eccessivamente autoreferenziale, in un giochino troppo preso da sé per poter davvero brillare. Ne risulta la sua opera più monocorde, completamente priva di tutte quelle aperture che mi hanno fatto sempre amare il suo cinema. Tokyo Tribe guarda solo se stesso e il rischio-bulimia è sempre dietro l'angolo. Peccato. Attendo fiduciosissimo i suoi prossimi cinque, sei, cento film.

Steven Spielberg è l'infanzia del (mio) cinema




Ieri sera ho rivisto, dopo tanti anni, Indiana Jones e il tempio maledetto e mi è sembrato un po' come tornare bambino. Questa è la grande avventura che piace a me, quella iconica, ricca di humour, quella che ti teneva incollato allo schermo, quella fatta di magia, mistero e ingenuità, quella che, all'improvviso, era capace di concedersi a insospettati picchi d'horror d'antan (come tutte le sequenze dei riti magici e sanguigni dei temibili Thugs che tanto mi facevano paura da bimbo). Continuo a ripeterlo: Steven Spielberg (almeno un certo Spielberg) è l'infanzia del cinema, almeno del mio cinema. E' una questione di cuore. E' un po' come il bisogno fisiologico di tornare sempre a casa. L'amore parte da qui (e da Zemeckis, Dante, Landis e tutti gli altri, solo poi, in un secondo momento, arriva il resto).

mercoledì 17 giugno 2015

Mountains May Depart di Jia Zhang-ke




sempre più interessata al fluire del tempo, dei volti e delle cose, Mountains May Depart è un'opera liquida che (con)fonde materiali di repertorio e immagini di finzione, fino ad arrivare al cortocircuito che porta il cinema di Jia Zhang-ke a farsi sempre più astratto, sempre più magmatico...l'impressione di trovarsi di fronte a un'enorme capsula per il futuro mi ha tormentato durante tutta la visione. Film da custodire, amare, rivedere per ricordare chi ma, soprattutto, cosa siamo diventati. Infine la Cina, definitivamente globalizzata, proiettata in un futuro plumbeo e tecnocratico dove l'oblio governa i rapporti umani: oblio nazionale, oblio di appartenenza, oblio di un nome che non si ricorda più...solo una canzone conserva il potere rammemorante della mente. Tutto il film racconta allora un percorso di reminescenza individuale (e nazionale), un'erranza infinita che è anche - e soprattutto - una grande storia d'amore. La ricerca della propria identità, ovvero la ricerca della propria vita precedente. Di un'altra Cina, di un altro mondo...

lunedì 15 giugno 2015

Saul Fia di László Nemes




Non potrei immaginare un'opera più liminale di Saul Fia, perché l'esordio di László Nemes è un incubo ai limiti dello sguardo, un tour de force infernale che lavora sempre intorno ai confini dell'immagine, al rapporto tra campo e fuoricampo, al cortocircuito stesso della morale. La camera, incollata alla schiena del protagonista, non lo lascia nemmeno per un secondo, concentrando difatti il fuoco quasi unicamente sulla sua figura. Il teleobiettivo aderisce a un punto di vista selezionato, pulsante e forsennato, deformando - amplificando - tutto ciò che lo circonda. Gli orrori del campo di concentramento sono in gran parte fuori fuoco, ma è proprio questa loro zona di confine a renderli autenticamente protagonisti. Nemes, lavorando di sottrazione visiva, amplifica inevitabilmente l'effetto del fuoricampo, facendone un polo attrattivo, una calamita impossibile da evitare, una traccia visivo-sonora potenziata proprio perché decentrata.
Ecco dunque che un film sull'olocausto si trasforma in un'indagine circa la visione, l'orientamento scopico, il fuoco percettivo e la ricerca disperata di un punto di fuga (o di una stasi).
Nemes lavora continuamente su uno scarto, quello tra visibile e non-visibile: ne deriva un cinema puramente esperienziale, iperpercettivo, che si dispiega in una sorta di crudelissima fenomenologia dell'oscenità. Nel fare questo sceglie il punto di vista di un uomo in bilico tra follia e anaffettività, che vive nella claustrofobia, dilaniato dalla costante mancanza d'ossigeno e dall'inevitabile azzeramento di qualsiasi memoria (la sequenza con la donna che lo chiama per nome è uno dei momenti più strazianti del film). Sarà proprio lui il soggetto di un percorso espiativo assolutamente anomalo, egoistico, perfino insensato: riuscire a seppellire un figlio morto (che non è necessariamente "il figlio" come tutto nel film sta ad indicare). Un'impresa folle che si traduce nel più estremo, ingiustificabile atto d'umanità. Salvare un morto prima ancora di salvare un vivo. E' proprio all'interno di questo meccanismo che il film alimenta la sua potenza, iscrivendosi in piani-sequenza asfittici dove ciò che manca è sempre il cielo. E poi, negli abissi della morale, la macchina a mano si fa sempre più concitata, l'immagine sembra esplodere fino a fermarsi - finalmente - in un finale "impossibile", dove la macchina lascia finalmente andare il suo nuovo bambino, senza seguirlo. Quel bambino che - guarda caso - sembra proprio "resuscitato" dall'abisso.

lunedì 1 giugno 2015

Louisiana di Minervini




che film bellissimo è Louisiana di Minervini. In alcuni momenti quasi pittorico, incredibile per come cerca di oltrepassare sempre i confini stessi del cinema. Abolendo qualsiasi differenza tra documentario e film di finzione, seguendo unicamente corpi vibranti di vita ed emozioni, Minervini pedina l'uomo, cerca i segreti di un volto che non vuole mai abbandonare, mette in luce le contraddizioni insite in ogni other side. E' un film di specchi, volti nascosti, ribaltamenti progressivi in bilico tra messa in scena e spontaneità dell'atto.
Il ritratto intimo di Mark è contrassegnato da un'inspiegabile, commovente tenerezza, in lui si aprono già le voragini di tutta la comunità white trash. Comunità che Minervini indaga con un'onestà e una sensibilità sconfinate, lontano dal giudizio facile, ma anche dal ritratto antropologico di chi vorrebbe spiegare ma non può, non riesce a farlo. Rimangono gli uomini, le comunità, i singoli gesti. Non ci sono cause né effetti, ma pure, fragilissime esistenze che semplicemente continuano a vivere. Come le milizie armate che si aggirano per la foresta, mentre sparano alla maschera di Obama: è il lato oscuro dell'America, un cuore selvaggio da cui, spontaneamente, liberamente, rinasce la poesia di uno sguardo mai calato dall'alto, ma sempre immanente, sempre tra le cose, sempre tra gli uomini. E, inaspettatamente, Minervini scopre una bellezza mai diretta, ma sempre emanata da un controluce lontano, sempre pronto a irradiare lo schermo.