lunedì 12 ottobre 2009

Retrospettiva: Andrej Tarkovskij



" E’ perfettamente chiaro che lo scopo di ogni arte, se essa non è destinata al “consumo” come una merce è destinata alla vendita, è quello di spiegare a se stessi e a chi ci sta intorno perché vive l’uomo, qual è il significato della sua esistenza, di spiegare agli uomini quale è la ragione della loro apparizione in questo pianeta. O, se non di spiegarlo, di porre loro questo problema…Ha un senso affermare che l’indubbia funzione dell’arte consiste nell’idea della conoscenza, dove la percezione si esprime nella forma dello svolgimento, della catarsi. Dal momento stesso in cui Eva mangiò il pomo dell’albero della conoscenza, l’umanità fu condannata a una ricerca senza fine della verità…Adamo ed Eva si accorsero che erano nudi e ne provarono vergogna. Ne provarono vergogna perché compresero e cominciarono il proprio cammino nella gioia di conoscersi l’un l’altro. Fu l’inizio di ciò che non ha fine. Si può comprendere il dramma dell’anima appena uscita da uno stato di beata ignoranza e gettata negli spazi terrestri, ostili e incomprensibili (…) " Andrej Tarkovskij

Solo recentemente mi sono accostato all’arte di Andrej Tarkovskij, probabilmente uno dei più grandi cineasti che la settima arte abbia mai annoverato e, altrettanto, uno dei più “dimenticati”. Mi ci sono avvicinato in modo particolare considerando che il mio primo “incontro” con questo grande poeta è avvenuto con l’ostico “ Sacrificio” ( “ Offret” in originale), il suo film-testamento. Nonostante mi sia formato cinematograficamente con maestri quali Bergman e Dreyer – ai quali “ Sacrificio” si accosta quantomeno per atmosfere – l’impatto che questo cineasta russo ha avuto su di me è stato fortissimo. Morandini scrive che “ Sacrificio” è uno dei rari casi di film-preghiera: la sensazione è stata proprio quella di una preghiera tradotta in immagini di inestimabile poesia. Una preghiera colma di umanità, di verità, di sofferenza e, soprattutto, di speranza. Una preghiera immersa in quella nostalghia tipica del cinema Tarkovskiano (e del sentire Russo o meglio, ortodosso), che oltrepassa ogni parete, ogni corpo, per arrivare dritta al cuore della gente come una dolce malattia. Il suo cinema d'acqua, d'aria, di terra e di fuoco, si muove intorno a un’umanità sull’orlo della catastrofe. Un’umanità debole, ma dove la debolezza è l’unica vera forza. Personaggi che sembrano usciti da un romanzo di Dostoevskij (autore del resto molto caro a Tarkovskij), fragili e instabili come foglie al vento. Il controcampo è il materialismo di chi non crede più in nulla. “Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi, non importa se poi non le costruiremo!” urla il grande Erland Josephson a piazza del Campidoglio, a Roma, nel pre-finale di “ Nostalghia” e dice anche quella che potrebbe essere una delle chiavi di lettura della poetica di Tarkovskij “Le cose grandi finiscono, sono quelle piccole che durano. La società deve tornare unita, e non così frammentata! Basterebbe osservare la natura per capire che la vita è semplice, che bisogna tornare al punto di prima, in quel punto, dove voi avete imboccato la strada sbagliata. Bisogna tornare alle basi principali della vita senza sporcare l’acqua!"
Sono parole che risuonano in tutta la sua breve filmografia – purtroppo Tarkovskij muore a Parigi nel 1986, lasciandoci solo sette straordinari lungometraggi -. Il suo è un cinema visivo, capace di regalare autentiche emozioni estetiche - ma non solo. Nei suoi film la natura, l’acqua, la terra, l’aria e il fuoco sono elementi preponderanti, nella loro semplicità, nella loro verità, scevra da fuorvianti simbolismi. Anzi potremmo dire che l'acqua è il leit-motiv di tutta la sua filmografia, e non a caso. E' l'acqua che scorre veloce e imperterrita, è l’acqua che cade dai tetti delle case, è l’acqua che riecheggia nell’aria, è l’acqua del tempo e del movimento. E’ l’acqua della vita. Sbaglia chi lo accusa di simbolismo pretestuoso, il suo cinema gira intorno a immagini autentiche, immagini che "scolpiscono il tempo", come direbbe lui. D’altronde Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi poeti della storia del cinema, come ogni poeta può essere compreso o allontanato, come avvenne in quella Russia Sovietica che lo accusò di formalismo, che criticò impetuosamente “Lo specchio” e “Stalker”, quella Russia che Tarkovskij abbandonò cercando una libertà espressiva a lui più congeniale, pellegrinando, girando in Italia “Nostalghia” e poi trasferendosi in terre Bergmaniane per girare il già citato “ Sacrificio”. Tarkovskij non tornò mai più a casa. Ma il richiamo della Terra è uno dei temi cardine della sua poetica, quella nostalghia tanto sentita, prima accennata. "Come può" si chiedeva Andrej "un uomo normale vivere completamente staccato dalle proprie radici? Dal punto di vista russo, nostalghia è una malattia, una malattia mortale…"
Il cinema di Tarkovskij è indubbiamente un cinema difficile, un cinema di melma e di crisi, spesso ostico, se vogliamo catartico, è la nemesi per antonomasia del cinema commerciale. E come ogni opera d’arte autentica non può essere apprezzata da tutti.
Ho ripercorso a ritroso tutta la sua filmografia, ho preso appunti, mi sono meravigliato, mi sono commosso, anche quando lui dirigeva con quel lucido distacco che era il suo modus operandi, così come la sua firma era il piano sequenza. Un elogio dell’immagine che non si traduce in mero formalismo: stile e contenuto coincidono, si amalgamano, e ciò che ne viene fuori è una poetica autoriale che si notava fin dai tempi del suo esordio cinematografico, quell’ “Infanzia di Ivan” che gli valse il leone d’oro al festival di Venezia e che vide tra i suoi sostenitori nientemeno che Sartre. Già i temi a lui cari iniziavano ad emergere, e la storia di un’infanzia rubata dalla guerra non può che commuovere ancora oggi, e sorprendere nei suoi risvolti onirici. Ne riparleremo.
Lontano dalle ottiche del cinema commerciale travalica letteralmente i generi, le etichette di ogni tipo, supera, stupisce. I suoi “ Solaris” e “ Stalker” oltrepassano il cinema di fantascienza trasformandosi in riflessioni filosofiche e antropologiche sull’uomo, sulla sua natura, sulla sua evoluzione – o involuzione, se volete. Non dà risposte, domanda. La sua filmografia è di una coerenza interna straordinaria: le sue immagini non sono mai univoche, unidirezionali, ma si aprono a mille lettura, nell'ambiguità propria dei veri capolavori.
Alla miopia del materialismo contrappone l’innocenza dell’infanzia, che ha ancora il potere di credere, come ci mostra nello straordinario finale di “ Stalker”. Uno scienziato, uno scrittore e un uomo di fede, sospesi in una zona dove il tempo e lo spazio non hanno più importanza, un limbo in attesa di risposte, una stanza dei desideri, ma ormai l’uomo non sa più come entrarci. E’ un confine da varcare quello, una porta da superare, un necessario e doloroso salto di “fede”. Ecco, il cinema di Tarkovskij è prima di tutto cinema di sospensione, un mondo filmico popolato di attese e domande, dove l’angoscia è allusione e metafora del mondo vero. E così anche nel medievale “ Andrej Rublev”, capolavoro denso di spiritualità e poesia, solenne, spettacolare e perfino erotico, elogio all’immortalità dell’arte. Il ragazzo protagonista dell’ultimo episodio in realtà non conosce i segreti della fusione eppure le campane, alla fine, suonano.
Non posso non sottolineare anche l’uso del colore. C’è una partitura cromatica ben precisa in tutti i suoi film, dove il colore è funzionale a ciò che si sta raccontando. Si vira verso il seppia, poi si ritorna al bianco e nero: una sorpresa continua per gli occhi, che amplifica le sensazioni e appaga gli occhi. “ Solaris” ne è uno degli esempi più lampanti. Ma anche “ Lo specchio”, con lo splendido bianco e nero della sequenza dei capelli, con il rosso del fuoco, con le gocce d’acqua che echeggiano amplificate e un'autentica atmosfera onirica.
Cosa ci rimane della produzione – esigua, per giunta – di Tarkovskij? Tanto, tantissimo. Sensazioni, trepide emozioni, il fuoco del sacrificio, le case allagate, quelle in fiamme, i richiami della Terra, le speranze e le grida, il vento e la nebbia.
E un fulmineo Inno alla gioia.
Questo voleva essere solo un accenno all’arte di Andrej Tarkovskij e una presentazione della retrospettiva che verrà svolta in sua memoria su questo blog.
Seguiranno recensioni e approfondimenti sui vari film.

Tributo ad Andrej Tarkovskij ( Zanraje, 1932 – Parigi, 1986)


domenica 4 ottobre 2009

Baarìa






























Regia: Giuseppe Tornatore
Cast: Francesco Scianna, Margareth Madè, Enrico Lo Verso, Angela Molina, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Leo Gullotta, Valentino Picone, Salvatore Ficarra, Nino Frassica, Aldo Baglio, Raoul Bova, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Monica Bellucci, Michele Placido. Anno di produzione: 2009

In molti ci aspettavamo tanto da questo “ Baaria”: un progetto colossale dalla lavorazione epica, costosissimo, corale, epocale. Una vera e propria rivincita del Cinema Italiano. Cinquant’anni di storia di Bagheria ( Baarìa in siciliano), piccolo paesino della Sicilia, raccontati in 150 minuti; svariati personaggi, scenografie strepitose, Morricone alla colonna sonora: le premesse c’erano tutte, i rimandi a un Amarcord Felliniano o a un “ C’era una volta in America” Leoniano erano ormai scontati. O quantomeno il calore, la poesia e la struggente memoria di un “ Nuovo cinema Paradiso”. Ma ancora di più. Giuseppe Tornatore, uno dei pochi colossi italiani, l’ultimo figlio dei grandi maestri, raccontava quello che, forse, sarebbe stato il suo film più “autobiografico”. Insomma tutti ci aspettavamo il suo capolavoro.
Ma questo grande, vertiginoso tuffo nei ricordi non è un “ C’era una volta in Sicilia”, non è un nuovo “Amarcord”, non è nemmeno un “ Nuovo cinema Paradiso”. E’ un tuffo nel vuoto, lontano anni luce da un capolavoro mancato. Forse era un progetto troppo esagerato che non fa altro che affondare nella sua stessa ambizione. “ Baaria” è un corpo gigantesco a cui manca l’anima. E non c’è niente di più grave per un’epopea. L’assenza completa di cuore. Ne consegue una parabola fredda, asettica e, paradossalmente, data la durata, veloce. Voler raccontare cinquant’anni di Storia, con le ellissi che ne conseguono, era un rischio molto grande. Ne risulta un’esasperata episodicità dalla continuità forzata. Ogni episodio è troppo breve, vertiginoso per far emozionare lo spettatore, per farlo immedesimare, per farlo piangere. Ciò che prende piede è invece un blocco disordinato dove le continue e fastidiose dissolvenze uccidono l’emozione là dove dovrebbe nascere. Il cinema è fatto di pause, di tempi morti, che sono sacri per partorire qualsivoglia emozione. Il cinema è fatto di silenzi. Leone lo sapeva bene. Pensate a “ C’era una volta in America”, l’aulico termine di paragone: là si racconta una vita. Ma il tempo per l’emozione c’è. Il tempo della storia blocca la durata. Sono le scene “inconsistenti” per lo sviluppo della vicenda a regalargli il cuore. E’ la delicatezza e l’innocenza con cui il piccolo Patsy si ritrova a scegliere tra la pastarella con la panna
e la prostituta e poi, adagio, inizia a godersi la pastarella. Il tempo morto è poesia e trascende l’azione. Il tempo morto dà continuità alla storia, gli dà profondità, rende un’opera eterogenea, variabile, viva. Il più grande peccato di “ Baaria” è nella sua stessa struttura, invariata e monocorde. Procede come una linea retta dove a un’azione segue un’altra azione mediante dissolvenza. Ma la continuità dell’ellissi non è data dalla sua linearità logica ma dalla sua costruzione ondeggiante. Un film è un’onda non è una linea. Bisogna alimentare l’azione per poi farla scendere e per poi rialimentarla. Altrimenti ciò che ne deriva è la noia dell’unidirezionalità. E questo vale ancora di più quando si parla di commedia. Tornatore per primo definisce il suo ultimo film come commedia. E lo è, come lo era “ Amarcord” certo, ma c’è una piccola differenza: “ Baaria” è schiavo del tempo, “ Amarcord” lo trascende completamente.
Dispiace, perché le intenzioni erano sicuramente altre. Il film più personale di Tornatore viene macchiato dai peccati della fiction, e uno degli autori più cinematografici del panorama italiano si trasforma in regista televisivo. “ Baaria” è fiction. E’ tutto troppo pulito e scintillante. Cerca di emulare il corpo dei suoi predecessori senza trovarne l’anima che li aveva resi grandi. La Storia fa sempre da sfondo, ma anche le storie lo fanno. Ogni personaggio è sfondo. Perfino il protagonista è sfondo. Ed è ovvio che l’unica “anima” del film che cerca di permeare risulti invasiva, eccessiva: la musica. Morricone è sempre presente, ma la sua è la musica di un film che non c’è, e per questo infastidisce.
Il resto sono volti fugaci che compaiono sullo sfondo ( ma la domanda è: cosa non è sfondo?): da Aldo Baglio a Beppe Fiorello, da Monica Bellucci a Michele Placido, da Luigi Lo Cascio a Vincenzo Salemme e molti, molti altri.
L’emozione non esiste, e le tracce di un erotismo cinefilo svaniscono sul nascere – sempre con la solita dissolvenza – con la Bellucci che pomicia col muratore. Scusatemi se mi soffermo su questo punto. Ogni grande storia ha un suo potenziale erotico. Lo spettacolo di quei bambini “guardoni” è un cliché che non stanca mai, ma anche qui Tornatore non riesce a “catturarli”. Lei è lì, è distante, e loro la guardano. In realtà non ci interessa vedere cosa guardano, ma ci interessa vedere loro, le loro reazioni: ma anche qui l’emozione viene storpiata e la carica erotica che una scena del genere poteva avere immediatamente “censurata”.
Ma non si tratta di censura dell’osceno, si tratta di ben altro, molto più preoccupante e gravoso: la censura dell’emozione.