domenica 4 ottobre 2009

Baarìa






























Regia: Giuseppe Tornatore
Cast: Francesco Scianna, Margareth Madè, Enrico Lo Verso, Angela Molina, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Leo Gullotta, Valentino Picone, Salvatore Ficarra, Nino Frassica, Aldo Baglio, Raoul Bova, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Monica Bellucci, Michele Placido. Anno di produzione: 2009

In molti ci aspettavamo tanto da questo “ Baaria”: un progetto colossale dalla lavorazione epica, costosissimo, corale, epocale. Una vera e propria rivincita del Cinema Italiano. Cinquant’anni di storia di Bagheria ( Baarìa in siciliano), piccolo paesino della Sicilia, raccontati in 150 minuti; svariati personaggi, scenografie strepitose, Morricone alla colonna sonora: le premesse c’erano tutte, i rimandi a un Amarcord Felliniano o a un “ C’era una volta in America” Leoniano erano ormai scontati. O quantomeno il calore, la poesia e la struggente memoria di un “ Nuovo cinema Paradiso”. Ma ancora di più. Giuseppe Tornatore, uno dei pochi colossi italiani, l’ultimo figlio dei grandi maestri, raccontava quello che, forse, sarebbe stato il suo film più “autobiografico”. Insomma tutti ci aspettavamo il suo capolavoro.
Ma questo grande, vertiginoso tuffo nei ricordi non è un “ C’era una volta in Sicilia”, non è un nuovo “Amarcord”, non è nemmeno un “ Nuovo cinema Paradiso”. E’ un tuffo nel vuoto, lontano anni luce da un capolavoro mancato. Forse era un progetto troppo esagerato che non fa altro che affondare nella sua stessa ambizione. “ Baaria” è un corpo gigantesco a cui manca l’anima. E non c’è niente di più grave per un’epopea. L’assenza completa di cuore. Ne consegue una parabola fredda, asettica e, paradossalmente, data la durata, veloce. Voler raccontare cinquant’anni di Storia, con le ellissi che ne conseguono, era un rischio molto grande. Ne risulta un’esasperata episodicità dalla continuità forzata. Ogni episodio è troppo breve, vertiginoso per far emozionare lo spettatore, per farlo immedesimare, per farlo piangere. Ciò che prende piede è invece un blocco disordinato dove le continue e fastidiose dissolvenze uccidono l’emozione là dove dovrebbe nascere. Il cinema è fatto di pause, di tempi morti, che sono sacri per partorire qualsivoglia emozione. Il cinema è fatto di silenzi. Leone lo sapeva bene. Pensate a “ C’era una volta in America”, l’aulico termine di paragone: là si racconta una vita. Ma il tempo per l’emozione c’è. Il tempo della storia blocca la durata. Sono le scene “inconsistenti” per lo sviluppo della vicenda a regalargli il cuore. E’ la delicatezza e l’innocenza con cui il piccolo Patsy si ritrova a scegliere tra la pastarella con la panna
e la prostituta e poi, adagio, inizia a godersi la pastarella. Il tempo morto è poesia e trascende l’azione. Il tempo morto dà continuità alla storia, gli dà profondità, rende un’opera eterogenea, variabile, viva. Il più grande peccato di “ Baaria” è nella sua stessa struttura, invariata e monocorde. Procede come una linea retta dove a un’azione segue un’altra azione mediante dissolvenza. Ma la continuità dell’ellissi non è data dalla sua linearità logica ma dalla sua costruzione ondeggiante. Un film è un’onda non è una linea. Bisogna alimentare l’azione per poi farla scendere e per poi rialimentarla. Altrimenti ciò che ne deriva è la noia dell’unidirezionalità. E questo vale ancora di più quando si parla di commedia. Tornatore per primo definisce il suo ultimo film come commedia. E lo è, come lo era “ Amarcord” certo, ma c’è una piccola differenza: “ Baaria” è schiavo del tempo, “ Amarcord” lo trascende completamente.
Dispiace, perché le intenzioni erano sicuramente altre. Il film più personale di Tornatore viene macchiato dai peccati della fiction, e uno degli autori più cinematografici del panorama italiano si trasforma in regista televisivo. “ Baaria” è fiction. E’ tutto troppo pulito e scintillante. Cerca di emulare il corpo dei suoi predecessori senza trovarne l’anima che li aveva resi grandi. La Storia fa sempre da sfondo, ma anche le storie lo fanno. Ogni personaggio è sfondo. Perfino il protagonista è sfondo. Ed è ovvio che l’unica “anima” del film che cerca di permeare risulti invasiva, eccessiva: la musica. Morricone è sempre presente, ma la sua è la musica di un film che non c’è, e per questo infastidisce.
Il resto sono volti fugaci che compaiono sullo sfondo ( ma la domanda è: cosa non è sfondo?): da Aldo Baglio a Beppe Fiorello, da Monica Bellucci a Michele Placido, da Luigi Lo Cascio a Vincenzo Salemme e molti, molti altri.
L’emozione non esiste, e le tracce di un erotismo cinefilo svaniscono sul nascere – sempre con la solita dissolvenza – con la Bellucci che pomicia col muratore. Scusatemi se mi soffermo su questo punto. Ogni grande storia ha un suo potenziale erotico. Lo spettacolo di quei bambini “guardoni” è un cliché che non stanca mai, ma anche qui Tornatore non riesce a “catturarli”. Lei è lì, è distante, e loro la guardano. In realtà non ci interessa vedere cosa guardano, ma ci interessa vedere loro, le loro reazioni: ma anche qui l’emozione viene storpiata e la carica erotica che una scena del genere poteva avere immediatamente “censurata”.
Ma non si tratta di censura dell’osceno, si tratta di ben altro, molto più preoccupante e gravoso: la censura dell’emozione.

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