martedì 30 settembre 2014

Traiettorie andersoniane




La visione di "The Master" mi ha sempre fatto sentire alla stregua di un reduce. L'idea era quella un po' buffa, un po' assurda, di essere sopravvissuto alle immagini di Anderson, al suo crocevia di forze psichiche e campi fisici, alle sue assuefazioni sincopate e frenetiche, a tutte le atrofizzazioni del desiderio che mi rendevano, sempre e comunque, ubriaco d'amore ormai lontano da Sidney, dalle magnolie o dalle Boogie Nights. "The Master" era soprattutto quell'incredibile storia d'amore dove le braccia generose e fragili di un Padre scaldavano l'algidità furente della massa in scena. I confini geografici erano quelli di una mente troppo affranta e vituperata per ricominciare di nuovo a respirare. Eppure l'opera pullulava di conflitti spaziali, dove deserti di agognata libertà collimavano con geometrie coercitive e spiagge libidinali (dove, ancora, si sognava di non essere più soli).
Compare ora in rete il trailer del nuovo tassello di quel cervello scheggiato, in frantumi, che è il cinema convulso, epilettico e mentale di Paul Thomas Anderson. E, viaggiando tra le incredibili immagini di uno dei maggiori cineasti americani viventi, mi chiedo: chissà che i tic esistenziali, la nevrosi dello sguardo, non possano cedere il passo a una nuova evoluzione, a un'inedita ma coerente traiettoria della forma-pensiero andersoniana.

domenica 28 settembre 2014

Il raggio verde di Éric Rohmer




A ogni nuova visione, a ogni sporadico ritorno, "Il raggio verde" è sempre il film che vedi per la prima volta. Quello che scorre sullo schermo è lo stesso movimento della vita impresso su pellicola. Eppure non c'è traccia di mani, di lavorio, di modifica, di progettazione nel cinema di Rohmer. Quello che rimane è uno sguardo capace dell'impossibile: entrare nel corpo e nella vita delle sue dolci creature, senza mai invaderle, ma con il rispetto commovente di una macchina da presa timida e pudica. Ci sono dei momenti in cui, come per miracolo, compare una leggera oscillazione: questa macchina-sguardo, con estrema delicatezza, si permette un riservato, schivo movimento. Sono attratto allora da quegli istanti, da quei piccoli, esili avvicinamenti, slittamenti dello sguardo che - da soli - hanno il potere straordinario di far vibrare un intero universo. In quegli attimi, leggeri come la brezza che smuove i capelli di Marie Rivière, vorresti fermare il tempo e afferrarlo, come per dire: questo! E' questo il cinema! E' questo lo sguardo in grado di indagare l'uomo e i suoi moti interni: le paure e i tentannamenti, le piccole, inutili esperienze quotidiane, la pioggia e pure il sole.
Tutto nel dolcissimo capolavoro di Rohmer si dà attraverso sfumature di colori e caotici, inquinati piani acustici che diventano poi alternanze di umori.



Rohmer, con la delicatezza propria di un poeta autunnale, racconta l'estate di un'esistenza, sonda la dolce apatia di una solitudine, come se accarezzasse la sua magnifica protagonista. Evita le facili derive di ogni mero psicologismo, lascia agli attori la facoltà di vivere prima ancora di interpretare, di esistere prima ancora di essere. Contro le nature morte di tanto cinema studiato a tavolino, apre la sua opera alla trasparenza di un mondo che rischia di diventare sempre più plumbeo. Marie Rivière è volto affettivo anche quando in campo appare in figura intera: i suoni della vita entrano in scena, tutto è in presa diretta. Ogni elemento - plastico, sonoro, verbale - si confonde nel soave marasma di uno sguardo, di un sorriso, o di una lacrima che riga il volto della sua eroina. Fino al raggio verde che sedusse Victor Hugo: quando il sole sprofonda nel mare è allora che una luce verde s'insinua nel cielo. Fenomeno ottico dai risvolti magici e stregati, dona il potere di leggere meglio se stessi e la persona che ci sta accanto. Solo in quel momento si potrà finalmente ricominciare a vivere... e a sorridere.



venerdì 19 settembre 2014

Si alza il vento, bisogna tentare di vivere




Il sogno mai domato di un volo libero nel cielo,
dell'amore struggente per aerei che sembrano miraggi,
di un orizzonte privo di guerre e nefandezze,
del giorno in cui si dimenticherà il peso stesso della terra,
per poter farsi leggeri come l'aria
evanescenti come i sogni.

"Si alza il vento" dice "Bisogna tentare di vivere".

Quell'incredibile ghost story che è "Belluscone - Una storia siciliana"




Siamo di fronte a uno dei film italiani più importanti dell'ultimo decennio e non poteva essere altrimenti. Opera definitiva di Maresco, sua ideale "scomparsa" dal cinema (e dal mondo), tragicomico crepuscolo di un intero paese. Si ride e si soffre con l'amarezza di chi non può più conoscere una riconciliazione. Tra divetti neomelodici, storia di un paese dal cuore infranto, racconto dell'origine e del crollo di un "salvatore" caduto. Non è (solo) un film su Berlusconi ma il racconto di come, alla fine, siamo stati fagocitati dalle immagini (e di come, quelle stesse immagini, siano arrivate a vomitarci tutti). D'altronde "Belluscone - Una storia siciliana" altro non è che il film di Maresco su Maresco: opera sull'invisibilità, su una progressiva, inconciliabile nausea che porta - necessariamente - a un tramonto artistico, umano, esistenziale. Una cornice neonoir collega i pezzi, resuscita un'operazione fallimentare - un film mai finito - nella consapevolezza che non si possa arrivare mai a un punto. E quando ci si affaccia sul presente, in una devastante soluzione di continuità col passato (si pensi alla sequenza horror di Renzi dalla De Filippi), allora emerge un sentimento di estraneità davvero disarmante. Un sentirsi fuori, senza alcuna possibilità di reintegrazione. Film ultimo dove, tra le ombre deformi dell'Italia, un uomo si mette a nudo con una sincerità davvero disarmante. In definitiva solo una ghost-story si rivela capace di raccontare questo paese.

Red Amnesia




"Red Amnesia" di Wang Xiaoshuai. Parte come un thriller metafisico, una sorta di ghost-movie dove un filo di tensione costante serpeggia inquadratura dopo inquadratura. Si delinea come un ibrido tra "Caché" e "Kairo" per poi (provare) a cambiar pelle in modo incerto, finendo per trasformarsi nella metafora su un Paese che non può dimenticare. Il problema del film di Wang è la programmatica, didascalica restrizione di campo della seconda parte: ciò che era suggerito diviene unica interpretazione possibile. La tensione si smorza, il pretesto ci assale rivelandoci quella che sembra un'opera fin troppo studiata e leziosa per poter davvero sorprendere. Esempio calzante di come una struttura narrativa possa estroflettersi a tal punto da inghiottire il film stesso. La riflessione sulla memoria e sulla colpa viene esplicitata in modo così parossistico da far perdere a "Red Amnesia" tutta la sua forza e ambiguità. Il culmine arriva con un'autentica sequenza-spiegone, in cui i figli della protagonista ci prendono per mano e chiariscono letteralmente il film, restringendo il campo e negandone la stessa portata. Un vero peccato: quando un film è girato così bene che vorresti che fosse qualcosa, quando si rivela proprio il suo opposto.
Menzione speciale per l'ottima attrice protagonista.

Il film che "Good Kill" poteva essere




Rielaborando il cinema di Andrew Niccol: trovate geniali imprigionate in script che non osano, con l'impressione che il regista non creda mai abbastanza nel potere delle sue immagini. Opere tutte "in potenza", metafore dove ogni intuizione viene esplicitata fino al midollo. "Good Kill" ne è l'esempio più calzante: ruota intorno a un tema che non potrebbe essere più attuale, quello dei droni pilotati a distanza dagli americani per combattere il nemico. Parte con una prima parte folgorante, tutta basata sull'idea della distanza, di un "occhio che uccide" e che combatte la guerra direttamente da Las Vegas. Spunti teorici a gogò, parabola narrativa prevedibile ma funzionale che (ben) focalizza l'anestesia del guerriero digitale, di colui che uccide senza mai sporcarsi in prima persona. Alla carne del corpo vengono sostituiti i pixel dell'immagine digitale. Eppure Niccol finisce per svuotare la forza della sua immagine (e della sua idea) per urlare in faccia tutto - ma proprio tutto - al suo spettatore, e finendo per perdersi in un finale di dubbia - e pericolosa - moralità.
Si vede "Good Kill" mentre si immagina il film che avrebbe potuto essere ma che, purtroppo, non è.

giovedì 18 settembre 2014

Come uno sguardo di luce rossa




che il cinema sia uno sguardo di luce mi è sempre parso chiaro, ma "Il conformista" è davvero un film che acceca. La sua luce è quella che vediamo a occhi chiusi, non è mai illuminazione descrittiva del mondo ma bagliore improvviso della coscienza. Il capolavoro di Bertolucci, fotografato da Storaro, è una continua, imperterrita, crudelissima danza di luci e colori: mi fermo sul rosso baluginante del tramonto sul treno, sull'immagine - indimenticabile - di due corpi che si toccano, si sfiorano, come icone sintetiche di un immaginario in dissolvenza. E lì, un pochino, piango.

Shakespeare tra le scimmie
Apes Revolution




"Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie" ovvero il blockbuster più appassionante, adrenalinico e, cosa più unica che rara, intelligente dell'anno.
Al timone di questo sequel Matt Reeves che si dimostra incredibilmente talentuoso nel commistionare tendenze cinematografiche eterogenee, dal catastrofico al postumano, dal dramma famigliare alla tragedia dal retrofondo shakespeariano. Oltre due ore in cui il ritmo si mantiene ben saldo, con un senso di tensione che s'insinua lungo ogni inquadratura: dal primo piano che apre e chiude il film, così umano, troppo umano, a un set-up che ha l'enorme pregio di catapultarci nel mondo delle scimmie: una sorta di nuovo Eden, in cui "scimmia non uccide scimmia", un secondo nuovo mondo non più popolato da indiani. Con un valore metaforico altissimo Reeves centra il punto mostrandoci l'utopia di una nuova civiltà basata sull'amore, sul rispetto e sulla fratellanza. La civiltà aurorale delle scimmie intelligenti si contrappone a quella devastata degli uomini e il contrasto funziona meravigliosamente. Ma quella a cui assistiamo è la parabola discendente della Storia, di tutte le storie, destinata a ripetersi fino alla catastrofe: il peccato che macchia il Paradiso, il sangue come il germe di un'inevitabile caduta, un senso del tragico intrinseco nella struttura stessa della civiltà. Con un fatalismo che manovra tutto il film, intriso di congiure degne dell'Antica Roma, l'aspetto - non nuovo ma interessante - è la propagazione del male e della violenza all'interno di questa civiltà caduta: un esercito improvvisato che porta il male che non vuole ma che è costretto a fare. Come in un perfetto meccanismo a orologeria, con sequenze apocalittiche e un "cattivo" che emerge dal fuoco con la violenza iscritta negli occhi, "Apes Revolution" è un concentrato di archetipi tragici, tutto volto, ancora una volta, a riedificare il Mito e a rilanciare l'avventura. Quando un blockbuster non è solo divertente, ma diviene addirittura memorabile.


Intorno a You, the Living




"Ho sentito di una città sopra le nuvole,
oltre la terra coperta di nebbia.
Una volta ci andrò!

Ho sentito di un paese senza lacrime,
senza dolore né miseria né lotte
dove nessuno soffre più di malattie.
Una volta ci andrò!"

Vedo "You, the Living" e penso che sono le strade del mondo, niente è più assurdo di crederle assurde: rimane spazio per i sogni, come quelli della casa mobile di un viaggio di nozze, di una canzone cantata con l'amore gratuito di chi non ti conosce affatto. Il mondo di Roy Andersson è popolato da miliardi di isole, ogni individuo è un universo e, ancora una volta, il centro del suo cinema è occupato dalla dolente ma buffa impossibilità di un nesso, collegamento, o meglio ancora dialogo: la comunicazione stessa diviene l'artificio più grande. Proprio per questo lo sguardo sugli uomini, esposti in tutta la loro tragicomica fragilità, assume una tenerezza senza limiti.

Storia del pitone e del coniglio
"In the basemant" di Seidl




"Im Keller (In the Basement)" di Ulrich Seidl, ovvero percorrere lo schermo con lo sguardo alla ricerca di un'identità, perdersi tra i dettagli di un arredamento che dice più dei personaggi stessi (l'immagine è una mappa, bisogna cercare ciò che non si vede). Assistere a un grottesco campionario di umanità e pensare alle immagini e a come possano essere manipolate. Chiedersi dove finisca la realtà (quale realtà? perché c'è mai stata vera spontaneità?) e dove incominci la messa in scena. Tremare alla vista di un pitone che sta per divorare un coniglio e osservare i volti muti delle persone, guardarli guardarci, o esser sommersi di parole. Credere a tutto per poi non credere a nulla. Perdersi in fondo.
Non so scrivere bene cosa abbia provato durante la visione dell'ultimo film di Ulrich Seidl, ma le sue immagini rimangono indelebili nella mia testa. So solo che è un film che rimane, eccome se rimane, e cresce dentro come solo i grandi...

La gabbia del corpo:
Il giovane favoloso




E' la voglia di scoprire il mondo con i propri occhi, di sorprendersi per ogni piccola scintilla di luce: il Leopardi di Martone è l'uomo che insegue la vita negata da un corpo che le si oppone. Ma questo corpo non è solo quello dello scrittore di Recanati, ma anche quello istituzionale e ecclesiastico dell'Italia dell'epoca, che riduce Leopardi a freak malinconico e infelice. Il film di Martone si rivela bellissimo: parte come un liberissimo melodramma, prosegue come il controcampo di "Noi credevamo", finisce tra le viscere vulcaniche di un inferno piombato sulla terra. Opera di luci e ombre, giovane e perfino vitale, avanza in un susseguirsi di sequenze che sembrano far esplodere lo schermo. Non vale la pena soffermarsi su qualche leggero calo di ritmo nella parte centrale o su alcuni eccessi di troppo: "Il giovane favoloso" di Martone, opera ambiziosa e attualissima, è soprattutto gran cinema. Elio Germano, mai così bravo, in un'operazione di rara immedesimazione, osserva estasiato le stelle, e noi siamo con lui.

Geografie di cadaveri:
Nobi di Shinya Tsukamoto




"Nobi (Firest on the Plain)" di Shinya Tsukamoto.
Cinema esperienziale fino al midollo, viaggio lisergico in un inferno senza ritorno. Geografie di cadaveri e budella, corpi che annegano nel fango, dissolvenze di sangue e interiora. Il soldato osserva la fine del mondo in uno shockante tour de force di luci abbaglianti e colori che infiammano lo schermo, fino a farlo detonare. Tsukamoto dirige con una potenza incredibile, mentre prosegue, dopo "Kotoko", la sua personale disintegrazione del'immagine digitale, bruciandola nei fuochi ardenti della follia umana. Rigorosamente da vedere su uno schermo gigante per il suo potere di avvolgere e nauseare, tra l'oscurità della notte e le sovraesposizioni accecanti del giorno. Si ha quasi la sensazione che lo schermo emani fetidi odori, mentre con le mani si finisce per poter "toccare" ogni corpo. La visione è ostacolata dalla nebbia, eppure i verdi finiscono per scoppiare. Nell'epoca del 3D e dell'Imax, Shinya Tsukamoto firma un film low budget che è puro incubo sinestetico, dimostrandosi, ancora una volta, un gigante.

World of Glory: capitolo zero di una trilogia sull'essere un essere umano




Continuo a pensare che nei quindici minuti di "World of Glory" sia racchiuso il senso di tutto il secondo cinema di Roy Andersson: summa che disvela il drammatico passaggio del ventesimo secolo tutto, ovvero lo slittamento dal senso di colpa che ha attanagliato intere generazioni all'indifferenza più spaventosa e radicale. A partire da quell'inizio in cui i corpi nudi di uomini, donne e bambini vengono caricati su una camionetta (di cui la sequenza semifinale di "A pigeon sat on a branch reflecting on existence" è il drastico, devastante controcampo), fino al caustico, emblematico finale: una voce - quella della coscienza - martella la testa del protagonista che non riesce a dormire. La moglie, personaggio chiave anderssoniano, gli suggerisce di tornare a letto per poter essere sveglio l'indomani mattina. La trilogia sull'essere un essere umano deve ancora iniziare, ma i prodromi sono già tutti qui.

mercoledì 17 settembre 2014

L'Ufo Pasolini secondo Ferrara




"Pasolini" di Abel Ferrara. Avevo una gran paura eppure il "Pasolini" di Ferrara si è rivelato l'opera intima da vedere, rivedere e vedere ancora, per potersi perdere all'interno delle sue dissolvenze, nel cuore di un Paese (e di un autore) ricostruito come in un puzzle mai così controllato. Ferrara, come i più grandi, sembra amare ancora prima di comprendere, sentire ancora prima di narrare. All'interno di un film-mente costruito come un sogno pieno di echi e rimandi, Ferrara dimostra un rigore di messa in scena davvero stupefacente. Fin dalla straordinaria e pericolosa scelta linguistica, il suo Pasolini pare un ufo, quasi osservatore straniero piombato in Italia. E' un personaggio spesso "in assenza", che rifugge, si sottrae allo sguardo, si nega al campo. Ferrara mette in scena, prima di tutto, un percorso intimo e famigliare, più interessato all'uomo che alla sua storia (penso al pianto delle madre e ai miei occhi lucidi in sala). Del resto tutto il film è lo sguardo del suo autore, il continuo sdoppiarsi di Ferrara e Dafoe, il protrarsi di un occhio che sente l'individuo prima di qualsiasi ricostruzione, fregandosene di ogni becera tendenza in stile biopic. E quel film mai realizzato da Pasolini diviene allora il grande "continua" della sua vita, dove non c'è nulla da fare se non continuare ad aspettare.