martedì 29 luglio 2014

Sul perché amare incondizionatamente A.I.




Quando il cinema ritorna atto d'amore puro, che commuove e inebria, capace di citare, mescolare le carte, omaggiare senza mai lasciar da parte la propria identità. In questa meraviglia lisergica intrisa di humanitas, che cita Kubrick e Collodi mentre porta lo spettatore in un Paese dei balocchi di rara inquietudine, il cinema di Spielberg dichiara - ancora una volta - la sua identità: quella di chi ha sempre continuato, nonostante tutto, a credere nell'uomo e nelle sue potenzialità, fino al sogno di un ultimo giorno impossibile, quello in cui si diventa finalmente bambini veri. Ingiustamente boicottato da chi continua a scambiare il sentimento con il sentimentalismo, A.I. rimane per il sottoscritto una delle vette visionarie di Steven Spielberg.

Revisioni: "Prendi i soldi e scappa"




Ho rivisto dopo anni "Prendi i soldi e scappa" l'esordio di Woody Allen che risale ormai a ben quarantacinque anni fa. E' inutile dirlo ma, ancora una volta, mi sono divertito moltissimo. Situazioni narrative, movenze dei personaggi, singole gag che rimandano in continuazione all'universo del cinema muto (come del resto avverrà anche ne "Il dormiglione"), con una padronanza del mezzo, un'idea di ritmo e di costruzione interna alla scena davvero esemplari. L'aspetto sorprendente rimane quella libertà e quell'audacia sfrontatissime, quel gusto tutto cinefilo che si diverte a giocare e a osare con il linguaggio cinematografico. E' interessante perché quest'esordio funge da prova generale per il futuro cinema del regista, dove gli elementi dialogici - fondamentali nell'opera di Allen - incominciano a coordinarsi con le immagini, a prendere vita causando un impatto esilarante. L'assurdo è sempre dietro l'angolo mentre il film si apre a derive romantiche che hanno il sapore di lucidissima parodia. Alcune singole sequenze, poi, sono di una dolcezza immacolata che appare oggi perduta. Era forse un altro Woody, più giovane, più fiducioso, più spensierato, quello che credeva (ancora) nella follia delle relazioni umane e dell'amore (poi sarebbero arrivati gli esaurimenti, l'ipocondria, lo stress quotidiano e tutti i tragicomici tumori della nostra società, fino, ovviamente, all'ultima Jasmine).


Operazione-nostalgia:
"Jersey Boys" di Clint Eastwood




Il cinema di Clint Eastwood a mio avviso non è mai stato nostalgico. Durante la visione di "Jersey Boys" qualcosa però si è spezzato, già a partire dal suo look visivo: è come se, più di qualsiasi altra volta, il film fosse chiuso in se stesso, con gli occhi rivolti solo al passato. Non più un film che ci guarda ma un'opera patinata, infiocchettata dalla prima all'ultima inquadratura. Non voglio dire che non ci siano sequenze memorabili (basta solo pensare alla splendida e coreografica sequenza dei titoli di coda), ma tutto scorre come se fossero una serie di figurine d'altri tempi, a partire dai personaggi e da ogni svolta narrativa. Ne deriva un'operazione affascinante ma anche dolorosamente sterile. Certo ci si può lasciare andare all'incanto, oppure si rimane freddi e distanti, anche a causa di una ventina minuti di troppo e di un ritmo mai ben calibrato. L'impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di edulcorato e insieme di finito, di completo, senza occhi per l'esterno, rende il film un oggetto da osservare senza mai una vera e propria partecipazione. E' forse, duole dirlo, il film più senile di Eastwood.


Cinema chiuso:
"The congress" di Ari Folman




Reduce, con un po' di ritardo, dalla visione di "The Congress" di Ari Folman.
Si parte da un primo piano della algida e meravigliosa Robin Wright e sembra all'inizio di assistere a un film lontano, che mi faceva pensare a un'immagine vitrea se non addirittura congelata, ibernata in chissà quale zona dell'iperspazio cinematografico, forse quella di un A.I. contaminato da virus cronenberghiani. Eppure, già da pochi secondi dall'inizio del film, che vorrebbe essere opera sulla fine del corpo - come sua estrema, spettacolare mercificazione - e sul tramonto del cinema, s'inizia ad avere l'impressione di assistere a uno sguardo assertivo, che procede enunciando ogni sua deriva, estroflettendo didascalicamente qualsivoglia riflessione e finendo per banalizzarla.
Il pensiero sul virtuale, il passaggio al mondo animato tanto caro a Folman, si trasforma in una sua radicale standardizzazione: è un'opera certo affascinante ma estremamente coercitiva, che immagina solo aut aut, bianchi e neri privi di sfumature. Ciò di cui non tiene conto Folman non è solo la problematicità dei simulacri, ma l'enorme complessità di ogni singolo individuo, ridotto qui a ombra irrigidita, ad avatar narrativo e piatto.
Il mondo animato - l'affascinante oltre del film - è contrapposto a quello delle persone in carne e ossa, il virtuale al reale, ma viene da chiedersi: che senso ha parlare nel 2014 ancora con un linguaggio binario e schematico che tende a separare gli estremi, quando tutto, proprio tutto, mira alla convergenza? Non è "The Congress", pur con la sua potenza (derivativa) d'immaginario, un film sterile e paradossalmente vecchio e stantio? Folman costruisce immagini sulle tracce di un intero immaginario, da Magritte a Kubrick, da Ernst a Roger Rabbit, ma è incapace di trovare una via di fuga, di approfondire un suo personale discorso sull'immateriale senza cadere, inevitabilmente, nella sua stessa superficie.
Vorrebbe essere profondo ma è solo generico, immerge l'azione in dialoghi - minestroni pseudofilosofici - sulla vita, sulla morte, sulla libertà, che risultano posticci e fuori fuoco. Vorrebbe infine meravigliare ma porta tutto a saturazione, perfino ogni meccanismo citazionistico. E alla fine si ritorna sempre a "Blade Runner". Cinema di potenzialità non sfruttate, tanto ambizioso quanto altisonante, e non bastano le strepitose interpretazioni di Robin Writght e Harvey Keitel a salvarlo.


così immagino il cinema di Tsai Ming-liang




Non si può che rimanere in silenzio, con la voce spezzata e gli occhi consumati per il loro disperato, vitale tentativo di inseguire un indizio, anche solo un piccolo movimento, un supporto, una scintilla, perfino nell’immobilità – soprattutto nell’immobilità. Così vedo e immagino il cinema di Tsai Ming-liang.

"Canzoni dal secondo piano"
Roy Andersson sulle tracce di Kafka





A inaugurare gli anni zero, come una sorta di manifesto apocalittico dove la tragedia del mondo non può che trasfiguarsi in immaginario liquido e grottesco, c'è "Canzoni dal secondo piano".
In un'equazione perfetta si potrebbe dire che Roy Andersson sta al cinema come Kafka alla letteratura: non è lecito parlare di senso o di non-senso, ma forse solo, per un divertito gioco di parole, di dissenso. Andersson non ci sta: frammenta un immaginario che è sempre più convertito al pensiero unico e alla convergenza, spezza il film in una serie di situazioni che non finiscono, ma si accendono e si spengono sullo schermo, come ipotesi di vita senza vita, di tempo senza tempo, perché l'aporia è conditio invalicabile della contemporaneità.
Personaggi che si sfiorano ma non sanno (non possono) comunicare, perché ormai parole, gesti o sguardi non riescono più a varcare il campo, sono impossibilitati a qualsiasi ipotesi di sintesi o unità. Campi lunghi, piani fissi che negano un pur minimo movimento di macchina, che chiedono allo sguardo di perdersi dei meandri di un'immagine che non finisce, ma continua sempre, oltre i limiti dello sguardo. Negato il campo e il controcampo, negata l'empatia e il sentimento, quella che rimane è la buffa giostra del mondo, la danza di burattini che hanno perso il loro teatro, e perfino i fili, mentre parlano di Gesù che fu crocifisso perché era bello e gentile ma non era figlio di Dio.
Dalla Storia alla Religione fino alla chiacchiera vana di chi non è più capace di ascoltare. Nessuno scambio di sguardi, ma una solitudine lancinante che fa ridere e che fa male: non c'è nulla di più divertente della nostra sofferenza. Non più il tragico ma una sua imitazione perversa che porta, inevitabilmente, al riso.
E' il paradosso a configurarsi come l'unico termine tecnico del mondo.Dire assurdo significa dire quotidiano, e allora assisteremo a un traffico esasperante che blocca un'intera città (anche se nessuno sa da cosa sia causato), a case che si muovono, a padri che bruciano i propri negozi, a figli caduti nell'afasia perché scriver poesie li ha fatti impazzire. Le possibilità di dialogo (per citare un altro maestro dell'incomunicabilità) sono divenute impossibilità di dialogo, precipizi dell'uomo e del mondo: ecco come la paura ha ceduto il passo alla tristezza (si pensi ai morti viventi).