venerdì 26 dicembre 2008

Il petroliere



Regia: Paul Thomas Anderson
Cast: Daniel Day-Lewis, Paul Dano, Kevin O'Connor, Ciarán Hinds, Dillon Freasier, Colleen Foy.
Anno di produzione: 2008

Paul Thomas Anderson, dopo magnolie, superdotati e ubriachi d'amore, filma un'epica e sontuosa epopea che rappresenta la Frontiera dei grandi film Americani: il suo pathos e la sua grandiosità sono effettivamente sinonimi di quel gran cinema Americano che non esiste più, quello degli scenari illimitati del mito western, estraneo alle tendenze contemporanee. Come se ci fosse ancora qualcosa da dimostrare Paul Thomas Anderson si conferma uno dei più grandi talenti visionari di oggigiorno (oltre a essere tecnicamente ineccepibile) e realizza il suo film più compatto e grandioso: la grande avventura alla ricerca del petrolio si trasforma nella storia di un'arrampicata sociale, nel ritratto di un uomo amorale e machiavellico, incarnazione vivente e pulsante del cuore del capitalismo: ennesimo "biggher than life". Ricoperto da una patina buonista ed amichevole per farsi accettare dalla comunità stravolgerà poi la vita di tutti con l'ipocrisia e la spregiudicatezza che gli sono proprie. Anderson realizza una sorta di suo "Quarto potere" descivendoci con estrema minuzia l'ambizione e il successo, per poi proiettarci l'immagine crudele del degrado, della decadenza umana e morale, col conseguente isolamento. Con una fotografia e una ricchezza cromatica e figurativa impressionanti, Anderson arriva a far prima esplodere tutto il suo cinema nelle potenti fuoriuscite di petrolio che divengono sangue e peccato del protagonista e poi a farlo implodere nella sala da bowling finale dove, per l'appunto, si consumerà del sangue. Alla figura crudele del petroliere viene contrapposta quella dell'evangelismo inquietante e debordante di un predicatore eccessivo e plateale, che dall'inizio demonizza il nuovo arrivato identificando nella prospettiva di progresso e beautitudine un'involuzione barbara e mostruosa. Qui si trova il vero fuoco ardente del film, nel contrasto tra queste due figure/simbolo di evangelismo e capitalismo, tra queste due anime della storia americana. Questo scontro non potrà che risolversi in uno spietato duello finale (preannunciato già dai vari incontri tra i personaggi, come nella strepitosa sequenza del battesimo di Daniel Day Lewis che finge di redimersi di fronte al predicatore e alla comunità). L'ultima scena è antologica e brutale, indimenticabile per carica emotiva e potenza espressiva: il demonio capitalista con impeto bestiale lancia palle da bowling contro il predicatore estasiato. E' uno scontro tra corpi ormai storpi e deformati, dove il capitalismo finirà per inghiottire tutto e diventare nuova fede: "Io sono la terza rivelazione" urla Lewis, in un impeto di onnipotenza. Del resto bastava già il primo piano del petroliere mentre osservava estasiato l'esplosione notturna di petrolio per vedere riflesso il volto del male.
Una nota finale, che è un ulteriore elogio ad Anderson: la sua encomiabile capacità di passare da film corali ( di gusto squisitamente Altmaniano) come " Magnolia" o " Boogie Nights" a un film lontanissimo per atmosfere e contenuti. E se pensate che il tassello centrale di una breve carriera così poliedrica è stato quella favolosa commedia surreale che è " Ubriaco d'amore" gli elogi sono ancora più giustificati.

Barry Lyndon




Regia: Stanley Kubrick
Cast: Ryan O'Neal, Marisa Berenson, Marie Kean
Anno di produzione: 1975


In uno dei trattati di estetica e critica letteraria più famoso di tutti i tempi, l’Anonimo coniò il concetto di “Sublime” (“Il sublime”) per indicare non solo qualcosa che è semplicemente bello o meravigliosamente bello, ma qualcosa che sconvolge e sbigottisce per quanto è straordinario e indicibile. Se c’è un film che conserva più di una parvenza di tale concetto questo è sicuramente “Barry Lyndon”, opera così perfetta, superba e imponente da far bruciare gli occhi. Mi piace molto ciò che scrisse allora il New York Post: “Puro cinema” aggiungendo “La sua struggente bellezza vi annienterà”. Narrazione letteraria ma in realtà fatta di...nulla. Perché una storia di ascesa e decadenza è una storia di materia, di successi evanescenti e di brutalità cancellate dal tempo. Tutto finisce, anche il ricordo, per trasformarsi in un oceano di immateralità incorporea. Film nichilista e terribile "Barry Lyndon" (non)parla di nulla: in questa dilatazione estatica e radicale dei tempi c’è tutto l’amore e il fascino del cinema, c'è tutto ciò che ci ha fatto sognare ed ammaliare. Ma soprattutt parla di cinema, non di film: ci ricorda la magia della luce, il miracolo del filmare, parla dei giochi della visione confrontandosi con teorie percettive, cromatismi pittorici e sinfonie di immagini. Ciò che emerge da quest’esperimento colossale è un film sontuoso, una danza di immagini che raccontano un lento declino. Pura opera d'arte in movimento quella dei tableaux vivants più belli che il cinema possa ricordare. Kubrick si ispirò alle tele di pittori classici, girò tutto con luci naturali, ricostruendo perfettamente le atmosfere Settecentesche. Ovviamente essenziale è la colonna sonora: sapientemente si costruisce un abbinamento perfetto tra immagini e musica, e laddove la voce narrante non racconta gli avvenimenti, sembra la musica a raccontare. Come sempre in Kubrick il ruolo della colonna sonora non si limita a essere un semplice accompagnamento musicale, ma diventa racconto stesso. La musica sembra quasi protagonista, visceralmente legata alla freddezza di Barry.