mercoledì 31 luglio 2013

L'atleta dei sogni:
Werner Herzog e la sua Fata Morgana




Mi ha sempre colpito moltissimo il racconto di come Werner Herzog fosse riuscito a filmare miraggi in "Fata Morgana". Non più mettere in scena l'invisibile, ma trovarlo, scoprirlo, svelarlo, e poi sentirsi traditi. In Herzog non c'è messa in scena che non sia già vita. Filmare qualcosa che esiste in un altro luogo, chissà a quanti chilometri di distanza, ed impressionarla su pellicola. La trovo una cosa straordinaria.
Sinfonia lisergica e primordiale, culla del mondo e spettro infinito, "Fata Morgana" è un film da completare e in cui perdersi a lungo (a partire dalla straordinaria sequenza iniziale, autentico test per lo spettatore): il paesaggio del deserto africano, così lontano, antico, immobile e piatto, ha il potere di azzerare la visione e farla ripartire da capo (come se non ci fosse stato niente lì in mezzo, come se fosse stato tutto, per l'appunto, una fata morgana). E quindi, assistendo a "La creazione", al "Paradiso" e a "L'Età dell'oro", Lotte Eisner recita versi del testo sacro Popol Vuh e un varano cammina sul braccio di uno scienziato: blocchi di immagini che ipnotizzano, sequenze alla deriva, idee di film mai visti che emergono dal profondo. Sempre oltre la fine, un passo dopo il limite, Herzog è l'atleta dei sogni.

Di seguito estratto da "Incontri alla fine del mondo" di Werner Herzog:
«Un miraggio è il riflesso speculare di un oggetto che esiste davvero e che puoi vedere, anche se non lo puoi realmente toccare. (...) Il migliore esempio che posso fornire è la sequenza del pullman che si sposta all'orizzonte. E' un'immagine strana: il pullman sembra quasi galleggiare sull'acqua er le persone sembrano scivolargli dietro, invece di camminare. Il caldo quel giorno era inimmaginabile. Noi avevamo una sete tremenda e sapevamo che alcuni pullman tenevano scorte di ghiaccio a bordo, così, appena abbiamo fermato la cinepresa, ci siamo precipitati là, ma non abbiamo trovato tracce per terra. Nessun segno di gomme. Non c'era niente in quel momento e non c'era stato niente prima; eppure noi avevamo filmato quelle immagini».

lunedì 29 luglio 2013

Discesa negli inferi per un calvinista
"Hardcore"




Discesa negli inferi per un calvinista.
Jake, industriale bigotto, va alla ricerca della figlia entrata nel mondo del porno. Il secondo film diretto dal tanto grande quanto sottovalutato Paul Schrader (sceneggiatore di "Taxi driver", "Toro scatenato" e "Mosquito coast", ma anche regista, tra gli altri, di "Affliction", "American gigolò" e "Auto.focus") esplora i lati più oscuri dell'animo umano, racconta la perdita dell'innocenza, il marciume che si nasconde dietro a un uomo e a un paese intero. L'America pornografica e sadomasochista è dietro l'angolo tanto da diventare l'altra faccia dell'America perbenista, religiosa e puritana. Del resto Schrader, calvinista in fuga che a diciott'anni scopre il mondo, è sempre stato ossessionato dagli strati più sotterranei ed abissali dell'animo umano. L'Inferno non è nel mondo, non è il mondo, ma si trova sotto la crosta o la superficie, come a dire: l'inferno siamo noi, è la prospettiva dolorosa di dover convivere con noi stessi. La redenzione è a un passo dalla regressione, la violenza scaturisce dalla rabbia, dal silenzio, dalla repressione e da un'educazione che ha dimenticato il resto del mondo.



Il sesso diviene così un'ossessione cieca e compulsiva, non solo nell'ambito pornografico, ma agli occhi stessi di chi lo demonizza. Film conciliante solo in apparenza, mai moralista, mai facile, che racconta il marciume senza eccitazione e senza biasimo. Le colpe dei padri generano incubi claustrofobici da cui sarà per sempre impossibile uscire. Non c'è nessun lieto fine nel film di Schrader, anche se così potrebbe sembrare: non esistono ritorni a casa, il mondo precedente è finito per sempre. Si ha come l'impressione di una solitudine estrema, di un'impossibilità fisiologica di un autentico lieto fine. Basti pensare alla relazione che sembrava quasi paterna con la prostituta che lo aiuta nelle ricerca, quando in realtà lei rappresenta per Jake un mero strumento.
"Torniamo a casa" diceva John Wayne a Natalie Wood, dopo aver affrontato i suoi demoni e le sue ossessioni, nel suo inferno personale. Bigotto e razzista, i suoi abissi erano gli indiani. Negli anni '70 il nuovo abisso è il sesso.
Enorme, è quasi pleonastico sottolinearlo, George C. Scott.


venerdì 26 luglio 2013

Canto elegiaco di un presente che non c'è:
"Prima della rivoluzione"




«Ricordati Fabrizio, non si può mica vivere senza Rossellini»

Ogni giorno di più mi viene da pensare alla carriera di Bernardo Bertolucci: a un percorso che parte dai territori pasoliniani de "La commare Secca" fino ad arrivare a quel dono prezioso, a quella cantina-mondo che è "Io e te".
Ritorno indietro a "Prima della rivoluzione", secondo film della sua carriera che dimostra, una volta di più, tutta la potenza energica, vibrante e dirompente del suo cinema. Un cinema che è sempre stato profondamente giovane e ribelle, un cinema che avrebbe voglia di esplorare il mondo ma racconta universi chiusi e senza via di scampo. Un cinema che ha la capacità di interrogarsi non solo su ciò che c'è stato prima di lui, ma anche su ciò che verrà. Un cinema che lucido dichiara che il presente non esiste più, ma si può vivere solo nei ricordi, lasciando che la realtà faccia poi il suo corso. Un cinema che non è mai timido, ma è ambizioso, vivo e testardo, come l'uomo che lo porta avanti.
"Prima della rivoluzione" è il racconto di un mondo che finisce e di uno nuovo che sta per nascere. In mezzo a tutto questo un flusso ininterrotto di elegie e di ricordi, di corpi e seduzioni, di occasioni e di sconfitte, di parole e nostalgie. Ma l'unica nostalgia che esiste non è quella per il passato ma quella dolorosa per il presente.
Per finire "Prima della rivoluzione" appare ancora oggi, dopo cinquant'anni un film fresco che sembra prodotto nella Francia godardiana/truffautiana, perché ha la stessa voglia di vita (e di cinema) dei film della Nouvelle Vague. E' un (melo)dramma musicale che è il racconto di una crisi, di chi ha amato cinema e letteratura, Rossellini e Hawks, Melville (lo scrittore) e la sua balena bianca. Tutto finisce e si fa canto elegiaco di un presente che non c'è.
Grandiosa colonna sonora.
E amore incondizionato.


mercoledì 17 luglio 2013

Animali. E poi forse uomini.
La promessa dell'assassino



Ripenso alla sequenza del bagno turco de "La promessa dell'assassino". Immagini laceranti che rimangono impresse nella mente, selvagge e primitive, sporcate dal sangue e da un senso di umana, ancestrale bestialità.
Animali prima che uomini?
C'è una fisicità che emerge poderosa e prorompente, un corpo che è istinto prima che ragione, macchiato da sempre da quel peccato originario che ci ha resi, in fin dei conti, uomini. Quella messa in scena da Cronenberg è una violenza primordiale, atavica, Kubrickiana, con tutte le possibilità di eludere perfino il mito del “buon selvaggio” di Rousseau. Un paradigma della violenza.
Che arriva.
E che fa male.

Vorrei scrivere tante altre cose, vorrei parlare dei tatuaggi come indici di identità, come segni o ferite corporee, come cicatrici, tracce che scavano nelle derive patologiche dei loro "portatori"; vorrei parlare della mafia russa trapiantata a Londra, di quel finale pazzesco, di quel senso di impotenza, di fragilità, di umiliazione del bene nei confronti del male. Vorrei anche rivederlo perché film come "La promessa dell'assassino" sono ferite bellissime che non si rimarginano mai.