venerdì 6 ottobre 2017

A Ghost Story




Sentire il cinema e tutto il suo peso, la costruzione dell'immagine, l'insistere artificioso sulla durata senza mai, purtroppo, restituire un autentico senso del tempo. Programmare, stabilire, costruire: non si lavora sul perturbante ma sulla sua imitazione, sul tentativo di mettere in forma l'informe (quando ciò che turba e destabilizza rifugge qualsiasi ipotesi di classificazione). Un film che avrei potuto e voluto amare con tutto me stesso rischia di trasformarsi in un mero esercizio di stile. Peccato.

Okja di Bong Joon-ho




Bong Joon-ho è sempre stato uno dei registi che preferivo di quella cosiddetta new wave coreana che fece tanto parlare di sé diversi anni fa. Recupero finalmente “Okja”, ennesimo film bellissimo oscurato dalla noiosissima polemica Netflix-Cannes. Ed è un peccato perché con questa fiaba nera e ambientalista, dal cuore spudoratamente spielberghiano, Bong si conferma uno dei registi più politici in attività. Come ai tempi di The Host, lo strepitoso regista coreano è ancora in grado di cambiare pelle all’interno dello stesso film, di passare con totale disinvoltura dal film per famiglie all’oscurità di un olocausto animale. E’ vero, tutti i personaggi di contorno sono assai stilizzati (e qual è il problema?), ma la piccola Mija, tenace e testarda, è un personaggio da amare fino alla fine, una giovane eroina come non se ne vedevano da tempo. Sembra Elliott di E.T. con la purezza delle piccole grandi donne del cinema di Miyazaki. In fondo quella di Bong è una storia d'amicizia alla fine dei giorni, dove le uniche luci in un mondo ridotto a capitale sono un maiale gigante e una bambina. Bong, del resto, non risparmia nessuno: animalisti, multinazionali, pedine politiche, giornalisti e così via. Eppure non finisce mai di sperare, come in quel finale di luminosa bellezza. Avercene di film così...

Boy Meets Girl




Già in Boy Meets Girl, Leos Carax inseguiva candore e leggerezza in un mondo troppo pesante. Cercava la purezza cristallina del muto e si ritrovava a fare i conti con un presente che non seguiva più il suo passo. E allora consegnava le chiavi del proprio regno a Denis Lavant, folletto keatoniano immerso in un mare di oscurità. Lo schermo nero, il jump-cut, il mondo ad altezza Godard: il cinema di Carax, allora e per sempre, avrebbe lanciato la sua sfida contro il reale come una coreografia in volo, un musical dell'anima liberato in un infinito revivre.

venerdì 29 settembre 2017

Twin Peaks 3: appunti (2)




In una dissolvenza, dalla luce all'oscurità: dalla più bella delle storie d'amore ai recessi più oscuri della psiche umana. La morte è solo un cambiamento, non la fine: e Twin Peaks 3, ora più che mai, è molto più di un revival, è molto più di un sequel o di un prequel, è una resurrezione. Questa quindicesima parte si conferma come l'ennesimo, clamoroso tassello di un'opera che supera qualsiasi confine. Mancano solo tre ore ma la goduria infinita di abbandonarsi agli angeli e ai demoni lynchiani è qualcosa di indescrivibile. E al di là di qualsiasi narrazione possibile, di qualsiasi cortocircuito tra attori e personaggi, è commovente constatare ancora una volta come Lynch ami profondamente il mondo di Twin Peaks, non lasciando nulla al caso, ma regalando a ogni personaggio una lettera scritta col cuore. Evviva Twin Peaks...e, ovviamente, evviva Big Ed!



Basterebbe la sequenza di Audrey nella 3x16 a fare di Twin Peaks 3 una complessa, stratificatissima riflessione sul passaggio inesorabile del tempo, sul déjà vu, sulla replica, sul revival come tentativo ultimo, disperato, di tornare a vivere sempre la stessa storia: una danza dei sogni che annulla l’età, portando alla ribalta il tempo che resta. Un atto di rivolta intimo, quasi privato, contro tutto ciò che non è, contro tutto ciò che muore. Siamo alla vittoria finale delle immagini latenti, di ciò che l'occhio non vede ma il cuore sente e ricorda, come in un sogno. Lo specchio oscuro sta per essere infranto, rilevandoci quella magnifica ossessione dove ogni volta si ricomincia sempre dall’inizio: “risvegliati” è il mantra di Twin Peaks 3, che significa ricorda, rinasci, ricomincia. E ora, a una settimana dal finale, non rimane che goderci l'epilogo di questa meraviglia.

Per chi volesse leggere i miei due pezzi su Twin Peaks ecco i link:
IL RISVEGLIO DELLA COSCIENZA ADDORMENTATA
CON ORFEO NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

Due o tre cose in difesa di mother!




Si urla nella casa del Diavolo: contro la smania dei film che funzionano, meglio quelli che cadono a testa alta ma credono, fino alla fine, al cinema. Basterebbe vedere come inquadra un corridoio, come riesce a creare atmosfera a partire da una parete, come gestisce e fa deflagrare lo spazio filmico, a rendere allucinanti tutti i fischi e le urla che il film ha subito. E lo dice uno che non ha (quasi) mai amato il cinema di Aronofsky.

The Shape of Water




"The Shape of Water": creature che nascono dal cinema e al cinema ritornano. Il miglior Del Toro è una fiaba straziante e dolcissima, un film che crea un ponte ideale tra gli schermi, un viaggio allucinante tra le immagini e i loro fantasmi. Immagini, del resto, che educano la Storia, immerse in un fascio di luce in grado di riportare in vita i mostri dell'infanzia. E alla fine non può che rimanere una storia d'amore. Bellissimo.

Mektoub, My Love




Asfissiante il film di Kechiche. Che il fuori campo non fosse di casa nel suo cinema l'abbiamo sempre saputo, ma qui manca completamente il senso del tempo che, per esempio, mi attraeva in un film come Adele. "Mektoub, My Love" mi è sembrato il suo film più statico, che vorrebbe essere libero ma finisce ingabbiato negli stessi pedinamenti, negli stessi corpi che indaga spudoratamente per tre, estenuanti ore.

Drift di Helena Wittmann




Altro film bellissimo visto alla SIC 2017 dove, cullati dalla schiuma dell'acqua e dall'azzurro del cielo, intraprendiamo un viaggio che torna alle origini ipnagogiche del cinema. Partire, viaggiare e infine ricominciare: il liquido si solidifica e ritorna alla Terra. Rimane un'ultima finestra sullo schermo di un computer. Si continua a vivere.

Venezia 74




In ordine sparso ecco i film che ho più amato di Venezia74.

First Reformed (Paul Schrader)
Les garçons sauvages (Bertrand Mandico)
The Private Life of a Modern Woman (James Toback)
Drift (Helena Wittmann)
Lean on Pete (Andrew Haigh)
Manhunt (John Woo)
Outrage Coda (Takeshi Kitano)
The Devil and Father Amorth (William Friedkin)
The Shape of Water (Guillermo del Toro)
Brawl in Cell Block 99 (S. Craig Zahler)
Ex Libris (Frederick Wiseman)
Jim & Andy: the Great Beyond (Chris Smith)
Mother! (Darren Aronofsky)
Ammore e malavita (Manetti Bros)
Piazza Vittorio (Abel Ferrara)

Femmina Folle




Nella Hollywood di cartapesta dei tempi che furono, quella dei fondali dipinti e dei sogni infranti, il cinema di John M. Stahl rimane quanto di più fiammeggiante, di più saturo si possa immaginare. Continua a turbarmi oggi come mai Gene Tierney, la donna che amava troppo, la Femmina Folle di "Leave Her to Heaven". Appare come un angelo in cui si insinua, fin dal primo piano iniziale, una carica di orrore senza precedenti. Ancora una volta Riilke, "il bello è solo l'inizio del tremendo". Ogni angelo è diavolo: la sequenza dell'annegamento del ragazzino handicappato rimane ancora oggi qualcosa di raggelante.

A Ciambra di Jonas Carpignano




Finalmente "A Ciambra" di Jonas Carpignano, film prodigioso per come conserva, immagine dopo immagine, frame dopo frame, un senso del cinema, della narrazione, del rispetto e perfino della tenerezza nei confronti personaggi. Abbiamo bisogno oggi più che mai di film come questo, fuori da ogni retorica e ogni buonismo, ma capaci di mostrare un mondo lasciando sempre una traccia, un residuo, un soffio di luce.
Carpignano ci ricorda, in fondo, che il cinema è una questione di sguardo e che lo sguardo altro non è che un affetto.

martedì 25 luglio 2017

Occhi tristi in Toni Erdmann




Gli occhi tristi della protagonista di Vi presento Toni Erdmann: quel momento in cui piange nel locale e si sente più sola che mai. Il piccolo miracolo di Maren Ade è saper allestire una commedia situazionista che solo attraverso la simulazione, la recita bizzarra, la performance sopra le righe, può tornare a intravedere un afflato di umanità. E nell'abbraccio di un istante è già condensato tutto quel tempo perduto che non potrà più tornare.

Kong: Skull Island




La cosa che riesce meglio a "Kong: Skull Island" è quella di non prendersi troppo sul serio. Più insiste sullo spettacolo posticcio di CGI, sui dialoghi troppo americani per essere veri, sulle dimensioni che - mai come in questo caso - contano, più l'operazione si rivela intelligente: come a dire, volevate un b-movie? Eccolo, nudo e crudo, spiattellato proprio come King Kong che si vede fin dall'inizio, senza farsi attendere, ma è già lì in tutta la sua enormità (con buona pace di qualsiasi squalo spielberghiano). E bisogna anche ammettere che immaginare l'isola di Kong come un vero e proprio vaso di Pandora restituisce i suoi frutti: le creature che escono dalle viscere della terra sembrano i dinosauri di Jurassic Park rimodellati in salsa horror, emanazioni davvero primordiali di mostri antichi quanto la terra. Certo, non c'è la storia d'amore più bella del cinema, non c'è un geniaccio come Peter Jackson che usa lo scimmione superstar per ricordare che anche il digitale ha un cuore...ma amen, c'è un blockbuster onestissimo lanciato verso il ludismo esasperato, perfino trash, di un mondo orfano di titani. C'è Samuel L.Jackson che fa Samuel L.Jackson. E, ovviamente, c'è John C. Reilly che, da solo, meriterebbe già l'acquisto del biglietto.

La bella e la bestia di Bill Condon




Io, che ho sempre avuto un debole per la vita degli oggetti inanimati, per la casa degli Usher filmata da Epstein o da Svankmajer, per i Toy Story e per i Poltergeist, non potevo non amare quel momento magnifico de "La bella e la bestia" di Bill Condon. Quando, caduto l'ultimo petalo di rosa, la vita abbandona gli oggetti tanto amati: gli occhi si dissolvono nella materia, lo sguardo svanisce nella superficie delle cose, l'ombra prende il sopravvento sulla luce. La fiamma viva si estingue, la favola arriva al crepuscolo, consapevole che, un istante dopo, il tempo non esisterà più. Poi cessa la parola, termina lo sguardo, sbiadisce il colore. "È la fine?" ci si chiede, avvolti in una tristezza senza fine, pur sapendo che il sole tornerà ancora a brillare. Eppure Lumière, Tockins, Mrs Bric, Chicco e tutti gli altri, aggrappati romanticamente a quell'ultimo afflato di vita, a quel sogno che mette fine a tutti i sogni, muoiono e rinascono come solo gli oggetti sanno fare.

L'altro volto della speranza




Ogni volta che arrivo ai titoli di coda di un film di Kaurismäki mi viene una gran voglia di correre ad abbracciarlo. Non fa eccezione questo suo piccolo grande "L'altro volto della speranza" che è un film leggero come solo una favola finlandese, tenero come l'opera di un vagabondo figlio di Charlot. Ed è commovente, perché nel 2017 fare un film su un rifugiato siriano che attende una nuova vita con questo garbo, con questa dolcezza, con questa fiducia sconfinata nell'umanità è prima di tutto un'esaltante lezione di morale. Il mondo cinematografico dove Kaurismaki ci proietta è quello dove prima si stende un uomo con un pugno e poi lo si assume a lavorare, gli si dà un tetto sotto cui dormire, lo si aiuta in tutti i modi in cui si può aiutare qualcuno: al cinema, almeno al cinema, si può - e si deve - credere ancora.

Tartarughe e principesse




Fluttuando in mare come in cielo, la vita è un miracolo.



Kaspar Hauser: già Cave of Forgotten Dreams




Kaspar Hauser, "idiota" purissimo che precede qualsiasi conoscenza, prigioniero "libero" tra grugniti e fantasmi della mente. Fa pensare all'infanzia dell'umanità, agli uomini primordiali e alle loro primissime grotte: dall'oscurità sapevano trarre la luce, nel silenzio riconoscevano le ombre, nella roccia incidevano già l'immagine del mondo.

Nessuno vuole giocare con me: herzogmania




Mentre vedo "Nessuno vuole giocare con me" ripenso ai cerchi concentrici di tutta la filmografia di Herzog. A questo continuo girare intorno, rielaborare, ritornare: la memoria di Werner Herzog è il suo stesso cinema, che potrà anche espandersi di continente in continente, ma poi ritorna necessariamente al bambino recluso, all'idiota come esploratore folle, alla visione virginale di Kaspar Hauser...al corvo di Walter Steiner.

Fast & Furious 8




In maniera ancora più radicale rispetto agli ultimi, pirotecnici episodi di "M:I", "Fast & Furious" conosce un verosimile tutto suo che può permettersi di sfidare le leggi della fisica, la sospensione dell'incredulità, il comune senso della misura. Sfidare e vincere, per averne sempre di più. "Fast & Furious 8" non fa eccezione: è un fierissimo b-movie che inneggia al potere cinetico delle immagini, al dinamismo smisurato della velocità, al fascino erotico delle automobili, autentiche protesi di un cinema che deve strutturalmente strafare. Ecco allora che, sotto lo sguardo iconico di Kurt Russell, ci si lascia andare a una fisicità debordante, alla libidine viziatissima di un corpo filmico che rilancia continuamente se stesso, in una sfida squisitamente, innegabilmente tamarra. Da Charlize Theron, nemesi glaciale che fredda i suoi antagonisti con lo sguardo, alla pioggia di automobili che cadono da un grattacielo, dalle corse sfrenate sul ghiaccio alle macchine che "prendono vita" gettando nell'anarchia New York. Purissimo piacere della visione: accelerare non basta più, ora bisogna volare (sognando un prossimo impossibile capitolo su Marte).

Woyzeck




"Sento sempre i violini. Sento le voci dal muro. Quella voce mi dice sempre Ammazzala."

Con l'orecchio puntato verso il fondo della terra.
Se l'uomo è un abisso, l'omicidio è il segreto proibito sussurrato dalle foglie e dal vento.

Appunti: Song to Song




Morire e rinascere a ogni stacco di montaggio, tentando in ogni modo, in ogni tempo, di afferrare la vita. Con le mani, con le labbra, con una lacrima o con un sorriso: sempre in movimento senza far nulla, alla ricerca di nuove, furtive estasi sotto il cielo di Austin. Senza legge, senza gravità, levitando di canzone in canzone. Il film di Malick che più somiglia a un sogno, quello che si moltiplica per tornare sempre all'unità, o al gentile miraggio di una storia d'amore. Ancora una volta, prima di ogni discorso, prima di ogni dietrologia, per me quello di Malick continua a essere il cinema più emozionante, più potente, più straziante del mondo...e Song to Song, probabilmente, la rapsodica chiosa di quell'enorme film sulla compassione incominciato con The Tree of Life.

Queen of the desert




Vedo solo ora "Queen of the Desert" di Werner Herzog e scopro, ancora una volta, un film bellissimo. Gertrude Bell è l'ennesima esploratrice, l'ennesima sognatrice del cinema herzoghiano. Supera i confini, contraffà i documenti, niente e nessuno la può fermare: Herzog si mette in un'altra posizione, guarda il cinema classico - quello delle grandi avventure nel deserto - per portarlo a massima saturazione. Dilata i tempi, asciuga l'azione, fa che la narrazione imploda, realizza un film sull'identificazione impossibile tra il corpo attoriale di Nicole Kidman e le dune del deserto: il volto della diva diviene un paesaggio interiore, anche se c'è sempre qualcosa del deserto che sfugge, che manca, qualcosa che è impossibile contenere nel campo visivo. Guarda a Lawrence d'Arabia come si guarderebbe un miraggio, il fantasma di un cinema che scorre altrove, alla stregua di un braccio che, da un altro tempo, tocca le spalle della nuova Gertrude Bell. Infine Herzog trova in lei un ulteriore esempio dei suoi personaggi configurati, strutturati dal limite: una figura finalmente al femminile, caparbia, tenace, umana. E quando svela, senza paura, le sue tinte melò, il film si trasforma in una grande favola nel deserto, nell'ennesima parabola sul potere dei sogni e sulle proprie cadute: il racconto di una regina attratta dal confine che però non riesce mai a ricompattare, pezzo dopo pezzo, il proprio cuore infranto.

Sicilian Ghost Story




Recuperato finalmente "Sicilian Ghost Story" di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza: un racconto sull'omertà sublimato in un universo fantastico e mentale, come se, tra le pieghe del reale, esistesse un mondo ulteriore dove l'amore vince la morte (anche qui: ogni storia d'amore è una storia di fantasmi). Tra orchi, matrigne cattive, gufi e boschi fatati, che bello percepire di nuovo il cinema all'interno di ogni immagine. Perché alla fine le cose che restano sono quelle imperfette, che osano, che non hanno più paura, che sono capaci di aderire a uno sguardo e, nella visione distorta di un grandangolo, farci sentire davvero come fantasmi.

Sognando Frank Capra




Mi mancano gli sguardi che annullano il tempo, mi manca quella scintilla, quel luccichio negli occhi che, da solo, incendia le immagini. Mi manca il candore, l'ingenuità di un volto che sa voler bene. Questa sera mi manca Frank Capra.

Twin Peaks 3: Appunti




La sensazione di trovarsi di fronte a un familiare sconosciuto, in caduta libera verso i recessi più oscuri di Twin Peaks e del cinema tutto di David Lynch. Ho visto finalmente i primi due episodi della nuova stagione: è incredibile come Lynch, ancora una volta, saboti il meccanismo della serialità dall'interno, ci proietti in un mondo di fantasmi, di doppi, di labirinti della mente.
E' Twin Peaks stessa questo labirinto, ora espanso a nuove città, nuovi scenari, nuovi personaggi. Un bosco, una radura, una cittadina che covava in sé il male inespugnabile di un omicidio diverso da tutti gli altri. Ogni sentimento nostalgico ci disloca, ci disorienta, ci proietta verso nuove costruzioni di senso e nuove identità. Questo nuovo Lynch-pensiero assorbe in sé il cinema, la videoarte, la pittura surrealista e la carne baconiana, De Chirico e il cavallo bianco fino a cadute tra le stelle e portali di vetro. Che fosse Eraserhead il primo Twin Peaks? In attesa di vedere i nuovi episodi, l'idea di avere davanti altre 16 ore mai viste di Lynch è il regalo più bello del mondo.



Twin Peaks 3x08. Probabilmente la cosa più incredibile che abbia mai visto in televisione - e non scherzo. Siamo tra le vette espressive e sperimentali di David Lynch, una Genesi che pare una vera e propria teodicea. Se avessi altri due schermi, avrei la tentazione di far scorrere l'episodio insieme a Voyage of Time (o almeno alla Genesi di The Tree of Life) e al corridoio interstellare di 2001. Così, per ritornare alle origini del Mito.

Qualcosa di travolgente




A rivederlo dopo tanti anni, "Qualcosa di travolgente" rimane il vero e proprio Fuori orario di Jonathan Demme. Perché Melanie Griffith, femme fatale da cinema noir, è una creatura carnale ed evanescente, reale eppure già immaginifica, come lo sono almeno la Isabella Rossellini di Velluto Blu, la Gwyneth Paltrow di Two Lovers, la Rosanna Arquette del film di Scorsese. E Jeff Daniels, ennesimo uomo comune del sogno americano, riscopre il richiamo all'avventura, il brivido dell'ignoto che lo configura, finalmente, come Eroe. Bellissimo.

Spider-Man: Homecoming




Dopo tutti i bolsissimi filmetti del Marvel Universe, che bello poter dire che "Spider-Man: Homecoming" è davvero una goduria. Finalmente Peter Parker torna un vero e proprio sfigato proiettato nell'universo del teen-movie americano, con tutte le complicazioni che questo comporta (ha ragione chi parla delle commedie anni '80 di John Hughes). In fondo "Spider-Man: Homecoming" è un romanzo di formazione che può vantare, finalmente, di un villain come si deve (un grandissimo Michael Keaton). Certo, la trilogia di Raimi è lontana anni luce, ma questo mi sembra un bellissimo modo per reinventare il mito.

Always




Ci sono film di cui non sai parlare, perché somigliano così tanto a una sensazione che vuoi tenerli per te, mantenerli nel tempo, proteggerli dalle fiumane di parole che ti circondano. Sono film sfuggenti, fulminei, quasi astratti per come riescono a essere l'incarnazione fragilissima di un sentimento. Penso a "Always", il grande dimenticato della filmografia di Spielberg, che dice tanto, tantissimo sul cuore del suo autore, perché è così ubriaco d'amore da restituire l'idea di un tramonto: un addio, un commiato che è sempre un nuovo inizio, un amore così intenso da essere capace di dare senza ottenere più nulla in cambio...e di lasciare liberi. D'altronde Spielberg regala a Audrey Hepburn la leggerezza immortale degli angeli (come a Truffaut, in Incontri Ravvicinati, donava il sogno messianico di una nuova vita fatta di suoni e di luci mai viste).

The War - Il pianeta delle scimmie




Splendido epilogo della trilogia più avvincente degli ultimi anni, in grado di reinventare le radici di una mitologia, di ripercorrerne gli archetipi fino ad affondare nel cuore di tenebra del cinema americano. Matt Reeves è un regista dal nitore classico per senso del ritmo e trasparenza e, insieme, uno sperimentatore prodigioso proiettato verso il cinema del futuro. Quest'ultimo Pianeta delle scimmie è un film dove il corpo, tramite la motion capture, torna il centro gravitazionale dell'immagine, il suo primo impulso, la sua stessa distruzione. L'ultima frontiera del digitale non può che riscoprire, naturalmente, un nuovo giardino della creazione, un nuovo Eden dove rilanciare l'avventura. Da qui al 1968, alla statua della libertà sepolta dalla sabbia, il passo è breve.

mercoledì 1 febbraio 2017

Voyage(s) of Time - Il mio 2016 cinematografico




Quest’anno non avevo voglia di fare una classifica delle visioni, parlare di belli o brutti, cadere nella prassi dei numeri. Ho deciso di limitarmi a una serie di film – una quarantina circa – che ho particolarmente amato nel corso del 2016, senza preferenze, ma in ordine sparso. Come sempre non mi riferisco solo ai film usciti nelle sale italiane, ma anche a quelli visti in festival (Rotterdam, Venezia, Roma, Trento, Future, Shorts e.c.c.) o recuperati in altri modi. Potrete quindi trovare film di annate precedenti, mentre altri, usciti in sala quest’anno (vedi Il figlio di Saul o Al di là delle montagne) erano già nella lista dell’anno scorso.


Il mio 2016 cinematografico è stato, e non poteva essere altrimenti, anzitutto un viaggio nel tempo, dove si incrociano palingenesi in CGI (Voyage of Time), vulcani come connettori continentali (Into the Inferno) e reti convergenti (Lo & Behold), dissolvenze che rivelano un mondo di fantasmi (The Last of Us), sfide titaniche contro le montagne (Monte) o il primo passo subito dopo l’oblio (Knight of Cups). Ho pensato subito al crocifisso innevato di Tarantino o alle lande bianche e vastissime di Neruda, ai treni del tempo di Almòdovar o ai finali western degli ultimi cowboy americani (Dog Eat Dog di Schrader). Gli occhi brillano di meraviglia (The Assassin), mentre gli uomini comuni si scoprono poeti (Paterson) o eroi (Sully). Alla ricerca di un punto d’unione impossibile tra un film di Lav Diaz, uno di Garrel, uno di Costa e uno di Loznitsa, mi lascio andare al cinema americano più granitico e cinetico, quello di Jason Bourne, di Rogue One, al classicismo muscolare e perfino senile di Creed fino a quello redentivo di Hacksaw Ridge. Rimango, in fondo, un romantico (La mia vita da zucchina). Nel cinema italiano intanto, di fronte alle epifanie di un regista come Marco Bellocchio che continua a girare cose straordinarie, amo in egual modo la spontaneità dei Cormorani, le rovine di Montedoro, le cosmogonie di Spira Mirabilis, la riscoperta del genere perfino di Veloce come il Vento. E poi, tra le stelle, dove ballano i due protagonisti di La La Land, proietto gli alieni di Arrival...e verso le stelle il sabba di quel film fenomenale che è The Witch. L’ultimo pensiero va ai due commoventi vecchietti di My Love, Don’t Cross that River, un film che già dal titolo spezza il cuore. Buon anno a tutti!


Qui i film: https://www.facebook.com/schermo.bianco.7/media_set?set=a.711173392394699.1073741837.100005061334309&type=3

Scorsese - nel silenzio di un riflesso

"E' stato nel silenzio che ho sentito la tua voce"


Così accecante la luce di un riflesso, così inestinguibile la fiamma di un amore che supera il dolore e il martirio per farsi spazio dentro di noi. Così Silence di Scorsese, un cinema tanto grande da spezzare il cuore e lasciare ammutoliti di fronte a tanta bellezza.

Ho sognato un angelo di George Stevens




Il tempo della memoria è il tempo di un disco e poi di un altro e di un altro ancora. Ascoltare significa ritornare, ritornare vuol dire rammemorare, rammemorare infine rivivere, ricominciare da capo, come se la mente di Irene Dunne altro non fosse che un judebox arrugginito che ripete, uno dopo l'altro, i souvenirs di una storia d'amore: dal primo incontro con Cary Grant ai bambini che vissero due (o tre) volte, dallo sguardo che infuocò gli amanti all'amore sconfinato per una docile creatura. E nel ricordo esistono solo Cary Grant e Irenne Dunne: tutto intorno è set, ricostruzione in cartapesta, cinema d'interno. Ma loro, primi piani viventi che emergono da un fondale dipinto, sono più vividi dei fantasmi, più forti dei morti, più innamorati degli altri: sono il centro di un mondo che si perde in dissolvenza. Nulla li potrà fermare - né il dolore, né la perdita, né la tristezza - perché il loro tempo ritornerà sempre in attesa di un lieto fine. Le voci dei due amanti sono eco remote ma vicinissime, spettri gentili di un film annegato in un disco.

Quel tramonto di Gigi




In uno dei tramonti più belli che il cinema ricordi, si consuma l'ultimo addio all'innocenza, il commiato definitivo al tempo dei giochi e dell'infanzia. Dietro allo sfarzo dell'aristocrazia parigina, Gigi è ancora libera di sognare. E noi, da sempre innamorati delle Cenerentole e dei brutti anatroccoli, siamo con lei.

Radiazioni BX distruzione uomo




Dissolversi in un atomo, scivolare via nei vastissimi regni dell'infinitamente piccolo, farsi, tutto a un tratto, coscienza pulsante dell'universo. Tra microcosmo e macrocosmo, tra microbo e galassia, c'è una finestra segreta che conduce direttamente all'estasi. Ed ecco che "Radiazioni BX distruzione uomo" di Jack Arnold da strepitoso b-movie sulle proporzioni alterate si fa testo profetico sulla dissolvenza, sulla traccia, sulla dispersione del sé come coscienza interstellare. O come unico possibile Benjamin Button: l'incubo glorioso di ritornare al ventre materno, dritti fino all'origine del mondo.

Austerlitz




Più ripenso ad Austerlitz più mi convinco che quello di Loznitsa sia il più inquietante film sui fantasmi degli ultimi anni. Mi chiedo, che cos'è un resto se svuotato della propria memoria, che fine fa la Storia una volta che si è fatta immagine? A chi appartiene? C'è sempre uno scarto tra turista e memoria, tra selfie e rovina, fino a una morbosa, glaciale fusione. E le inquadrature fisse di Austerlitz sembrano testimonianze di un un mondo che non ha più ricordi, ma solo immagini.

Split




Uomini neri, come psycho esponenziali, partoriti da infanzie infelici. Alla base di Split, nuovo fenomenale incubo di M. Night Shyamalan, il desiderio irrefrenabile di avere 24 vite, 24 ipotesi di narrazione, 24 possibili reincarnazioni. Come nel caso Billy Milligan, la mente rende possibile alterazioni fisiche e potenziamenti continui. Split è racchiuso nella psiche scissa del suo protagonista, un sottosuolo di stanze narrative, un crocevia di possibilità esistenziali in balìa tra luce e oscurità. Un mondo sotterraneo dove è in corso un'irrefrenabile battaglia tra istinto e ragione, tra paura e desiderio, tra autorità e servilismo che mira esplicitamente a nuove, avanzate configurazioni dell'umano. Scisso, affascinante e fumettistico, come se fosse una personale risposta di Shyamalan alle derive supereroistiche di tanto cinema contemporaneo. Perché in fin dei conti cos'altro è Split se non il disturbante racconto di formazione di un nuovo, controverso supereroe?

Contact




Via crucis ed estasi di una santa, folgorata da una viaggio interstellare che tanto somiglia a una visione divina. Sbeffeggiata dalla gente del suo tempo, priva di qualsiasi prova scientifica, la sua parola chiede a tutti, semplicemente, di essere creduta. Bisogna credere, in fondo, per riuscire a vedere. A rivederlo oggi, Contact, film epocale e profondamente incompreso di Zemeckis, è geniale proprio come meccanismo di specchi e di riflessi: lo spazio è perfino deludente, perché il vero ignoto, il vero sense of wonder, è dentro di noi. E' il sentimento a legittimarci come uomini, la nostra attrazione per l'altro (come in Hereafter di Easwood), vero, ignoto spazio profondo. In fondo, Contact non si stacca mai da terra, il contatto del titolo è l'adesione cieca, appassionata a un sogno più grande, come se si trattasse di un profondissimo sentimento religioso. Tutto il cosmo, le stelle e i pianeti, si accendono e si spengono in un battito di ciglia. E Jodie Foster, come Danzel Washington nel finale di Flight, fa della sua integrità, della sua umanità, l'ultimo e più importante baluardo della morale occidentale. Da vedere, rivedere e amare incondizionatamente.