mercoledì 3 novembre 2010

L'Argent: alla ricerca della sintesi assoluta.


E’ sempre difficile parlare di film-testamento quando si tratta di Autori come Bresson. Ma “ L’Argent” sta a Bresson come “ Sacrificio” sta a Tarkovskij: in entrambi il percorso intrapreso arriva a un suo naturale epilogo, con una coerenza straordinaria. Le zone d’ombra presenti nei loro film precedenti si dilatano qui in vortici concentrici e mortuari. Entrambi si incupiscono, precipitando in proiezioni sempre più lugubri e in un pessimismo disarmante. Ma – ed è importante sottolinearlo – in entrambi c’è spazio per una speranza. O, meglio, in Tarkovskij per un bagliore, in Bresson per una piccola, tenue luce.
Ma questa luce è alla fine di un percorso che, se in Tarkovskij attraversa i meandri della follia e dell’irrazionalità per arrivare – o, meglio, per tornare – all’infanzia, in Bresson attraversa il germe del denaro, in uno spietato rapporto di causa-effetto che causerà un terribile massacro, per arrivare al pentimento di Yvon nel suo atto di costituirsi alla polizia.
“ L’argent” è una struttura a orologeria destinata ad esplodere: è un marchingegno crudele, dove regnano predeterminazione e fatalità. Un piccolo gesto innesta una reazione a catena: al centro delle banconote false che passano di mano in mano. Ed è qui che Bresson fa le meraviglie: il suo potere di sintesi arriva all’apice, lo stile scarno e asciutto prosciuga qualsivoglia resa spettacolare.
E’ una lezione di regia la sequenza del massacro con la sua straordinaria capacità logico-allusiva – riscontrabile in un montaggio puramente di sottrazione e ellissi: tutto avviene a pochi minuti dalla fine, in un silenzio tipicamente Bressoniano, interrotto dai passi di Yvon e dai mugugni del cane. E’ sorprendente l’uso del fuori-campo per i vari omicidi: Bresson rifiuta di riprendere l’immagine dell’omicidio, debellandone la sua componente plastica/spettacolare ma evocandone il suo puro scheletrico non-sense. Ed è a dir poco sorprendente come Bresson riveli i cadaveri: attraverso il cane, di nuovo un animale! Ed è un animale confuso che gira da una parte all’altra delle casa, metafora dello spettatore/uomo impotente di fronte al male e all’assurdo del mondo. Abbaia, mugugna, piange, annusa i cadaveri, gira freneticamente davanti alla glaciale indifferenza di Yvon. E’ curioso che sia il cane a rivelare gli altri cadaveri, ed è ancora più curioso che Bresson sia quasi più interessato al comportamento sbigottito e stralunato dell’animale piuttosto che a quello freddo e spietato di Yvon. E’ sempre il cane a portarci dalla donna che aveva aiutato Yvon, a fermarsi alla soglia della porta e a fissare l’inevitabile. Una battuta secca: “Dove sono i soldi?” sul mezzobusto della donna. Il particolare delle mani che si alzano, impugnando l’ascia. Si ritorna al cane che continua a mugugnare e abbaiare, bloccato come una statua di marmo impaurita. Passaggio repentino al particolare, l’ascia è rialzata contro la vittima. Stacco/cut. Il colpo fa cadere la lampadina accesa sul comodino mentre delle gocce di sangue schizzano sul muro. La luce si spegne a terra, in fuoricampo. E qui, magia delle magie, l’ellissi arriva a un grado di sottrazione e sintesi sbalorditive: rumore dell’acqua, l'ascia viene gettata nel fiume. Il massacro è stato compiuto e il carnefice si è appena liberato dell’arma/peso: ecco il grado zero di Bresson.
Un tale potere di sintesi, una tale padronanza del mezzo, non può che confermare il fatto che quello di Bresson fosse puro cinematografo – e non cinema. Egli soleva differenziare i due termini; il cinema, secondo lui, erano le sale cinematografiche, il teatro fotografato. Il cinematografo, invece, era tutta un’altra storia: faceva appello al linguaggio del film, era l’arte cinematografica vera e propria.
“ Penso che il cinematografo non sia ancora nato” diceva nell’intervista di Weyergans. Forse si sbagliava. Basti vedere “ Au Hasard Balthazar”, “ Mouchette”, “ Un condannato a morte è fuggito”, “ Pickpocket”, “ Diario di un curato di campagna” per rendersi conto che il cinematografo, invece, era nato.
E questo film-testamento ne è la prova inconfutabile.

Il poeta dell'ascesi: due parole su Robert Bresson


Di Robert Bresson ammiro coerenza, rigore, ascetismo e semplicità.
Sono convinto che il modo migliore per studiare cinema sia quello di vedere e rivedere i suoi film, analizzandone la composizione, i procedimenti registici e narrativi, le scelte di montaggio – che, spesso, diventano autentiche scelte “morali” – la direzione dei “modelli” – mai attori.
Rifiutando i retaggi della drammaturgia è stato uno dei più radicali e convinti sostenitori del cinema come linguaggio autonomo, come arte dell’indicibile, come messa in relazione di gesti e movimenti, a discapito dell’azione stessa.
E’ il film che dà vita ai personaggi, non sono i personaggi a dare vita al film. Il fantastico nasce dal naturale” rivela in un’intervista realizzata da François Weyergans.
Fu lui a parlare di un ferro da stiro con cui “appiattire” l’immagine. C’è, ed è parte integrante del suo stile, quest’inconsueta esigenza di de-spettacolarizzazione ai fini di arrivare allo scheletro, al cuore stesso dell’immagine. Scavando nelle figure, che siano paesaggi o persone, riesce ad espellere tutto ciò che non è anima: è come se si eliminasse ogni elemento pleonastico al fine di arrivare all’essenza delle cose, ed è l’essenza, non l’ostentazione dell’esistenza, a commuovere e a turbare.
Più la realtà diventa spoglia ed ascetica più Bresson fa del minimalismo e dell’ellissi le sue mani-rasoio. Con coerenza porta avanti la sua idea di cinema in ogni ambito, rifiuta il ruolo dell’attore, il discorso della performance e della recitazione. L’attore diventa “modello”, è un elemento intrinseco del linguaggio cinematografico. Mi affascina moltissimo il discorso radicale di Bresson a riguardo. In un’intervista per i Cahièrs da parte di nientemeno che Jean-Luc Godard, Bresson dice “L’attore non smetterà mai di recitare. Recitare è una proiezione” e, poco dopo, quando Godard controbatte che si può distruggere questo fenomeno, Bresson insiste “L’abitudine è troppo grande. L’attore è attore. Davanti a te hai un attore che opera una proiezione. E’ così che si muove: si proietta all’esterno. Mentre il tuo interprete non-attore deve essere assolutamente chiuso, come il vaso con il tappo. E questo l’attore non lo può fare: se lo fa, allora non è più nulla”
Modelli, dunque, che si muovono nei rapporti spietati di causa-effetto.
Modelli, dunque, che coabitano in quei circoli chiusi dove sono reclusi, mentre il mondo va avanti, nella sua più completa e spietata indifferenza.
Modelli, ancora, che Bresson non disdegna di decapitare. Ama tagliare le sue figure: ora elimina la testa, ora recide solo una parte del corpo. Il resto non ha importanza. Ma che cosa sono queste figure decapitate? Strumenti o persone? Bresson richiedeva ai suoi modelli un lavoro di completa sottrazione, richiedeva la più totale e passiva inespressività. Di nuovo, dal naturale nasce la magia, dall'assenza di sentimento nasce l'emozione. L’inespressività evoca il sentimento.
Il resto a Bresson non interessa.
I modelli sono corpi.
Un pessimismo, il suo, di origini gianseniste, che lascia però sempre spazio a una luce, a una possibilità redentrice e catartica.
In “ Au hasard Balthazar”, infatti, si trova una delle scene più straordinarie del repertorio Bressoniano: l’asino che incontra gli altri animali, ed è qui che emerge un antico sentimento, la compassione, ma nel senso latino del termine: con-patire, soffrire insieme. Gli animali assumono il dolore del mondo.
C’è questa sorta di assorbimento della sofferenza, di cristiana accettazione.
Non a caso, infatti, considero un asino il più umano dei personaggi Bressoniani.
E' un peccato che la sua lezione sia troppo spesso dimenticata.

Alice in wonderland


Ma è la vera Alice?
Questa è indubbiamente la domanda basilare del film e da qui può prendere le mosse questa recensione. La ragazza diciannovenne che arriva nel paese delle meraviglie non è Alice.
Anche se il film racconta – mediante evitabili e didascalici flashback – proprio il contrario: la ragazza è la vera Alice, è solo cresciuta e ha ormai dimenticato la sua prima visita nel Paese delle meraviglie. Un espediente alla “ Hook” vent’anni dopo.
Ma io continuo a ripetere che questa non è Alice.
Così come questo non è il Paese delle meraviglie.
Così come questo non è il bianconiglio.
Così come questo, soprattutto, non è Tim Burton.
Chiariamoci, sono un amante del suo cinema immaginifico, ho sempre trovato eccezionale e unico il suo modo di costruire mondi straordinari, di avere quel tocco, quella autorialità – perché Tim Burton è uno dei pochi veri Autori contemporanei – che gli permette di costruire un’atmosfera perfettamente riconoscibile a ogni sua nuova opera. Figlio di una certa letteratura gotica, a metà strada tra Edgard Allan Poe e la sofisticata ironia della Famiglia Addams, tra le invenzioni artigianali di Georges Meliès e i chiaroscuri dell’espressionismo Tedesco – in tutto il suo cinema fino ad oggi ha mantenuto una coerenza stilistica/narrativa ineccepibile, tanto che si riusciva a rintracciare nell’indimenticabile cortometraggio in stop-motion “ Vincent” il compendio di una filmografia, di un’arte e di uno stile. Con una coerenza unica aveva portato avanti il suo mondo popolato da freaks, da creature con le forbici al posto delle mani, da registi appassionati ma assolutamente privi di talento, da spiritelli porcelli e barbieri tagliagole. Dunque si è sempre mosso all’interno di una sua personale Gotham City, e, per di più – ed è la cosa più difficile – è riuscito a creare un tipo di ironia dark, di cattivo gusto, che gli ha permesso di sviluppare una poetica straordinaria, ora struggente, ora eccentrica, ora ribelle, ora demenziale, con un fascino particolare per l’outsider e per l’inconsueto.
E’ questo che più apprezzo in un’artista: la coerenza nella sua poetica. Per carità, ho visto anche film di Tim Burton particolarmente sottotono: su tutti penso a “ Il pianeta delle scimmie”, tributo/remeake dell’indimenticabile classico di fantascienza con Charlton Heston protagonista, il punto più basso della filmografia di Burton fino ad “ Alice”. Tuttavia è consentito a un autore sbagliare dei film, purché esso sia coerente al suo mondo poetico, pur con qualche variazione sul tema.
Il peccato non è sbagliare un film, il peccato è sovvertire il proprio mondo. Quella diventa incoerenza.
Sono rimasto infastidito da “ Alice in wonderland” non tanto perché sia un film mal riuscito, ma sovente perché non è un film di Tim Burton.
Non si sente nemmeno l’ombra di Tim Burton.
Probabilmente – non lo nego – se una persona che non conoscesse Burton e vedesse “ Alice in wonderland” potrebbe rimanerne divertito, ma se lo conosciamo, e lo apprezziamo, è impossibile non rimanerne terribilmente delusi, specie per il fatto che non riusciamo a riconoscerlo: da un punto di vista narrativo, registico, ma anche fotografico.
“ Alice in wonderland” dunque non è un film di Tim Burton, ma di chi è allora? E’ un film coloratissimo targato Disney, e lo si nota a caratteri cubitali. Lo si nota nell’ironia spicciola e infantile, nella caratterizzazione dei personaggi che ricadono facilmente nella settorialità del primo cinema Disney, lo si nota nell’happy end e nella diabetica morale finale, e lo si nota perfino nella vacua personalità del personaggio di Alice. Burton ci aveva abituato a ben altro, ma anche la Alice di Carroll non era questa Alice. Badate bene: continuo a sostenere che spesso non c’è niente di più dannoso per la critica cinematografica che paragonare un film al romanzo da cui è tratto. Si tratta indubbiamente di due linguaggi completamente diversi, che è impossibile giustapporre a un livello narrativo: che senso avrebbe farlo dal momento che le immagini prendono il posto della parola? Per quanto mi riguarda un film non deve essere un tentato doppione del libro, dev’essere una reinterpretazione del libro, anzi, ancora di più: il romanzo – inteso unicamente nei suoi elementi narrativi – deve fungere da punto di partenza, un punto di partenza da cui è doveroso prendere le distanze. Ma c’è una cosa che non deve sopperire nella reinterpretazione – che non è trasposizione – di un libro al cinema: l’atmosfera. Non si dovrebbe ricercare nel film l’identica successione di eventi del libro, bensì l’autenticità del suo mondo. Dunque se reputo sterile e inutile aprire una discussione sulla fedeltà del film di Burton nei confronti dell’opera di Carroll, trovo utile confrontarli e giustapporli a livello di atmosfera. Trovo che l’atmosfera di un film debba essere una preoccupazione basilare di ogni buon regista che si confronta con un romanzo. Costruire dal romanzo il film – che è un’opera altra.
“Alice nel paese delle meraviglie” è celebre per incanto e magia, per stravaganza e follia. “ Alice in wonderland” di Tim Burton è un film che pecca di magia, e non c’è niente di più grave per una favola. E’ un film freddo, canonico, rettilineo e logico più che folle, onirico e meraviglioso. Perfino Johnny Deep, attore feticcio di Burton, non riesce a far uscire niente dal Cappellaio magico. Non basta un po’ di trucco, una demenzialità fuori luogo e di bassa lega e una ridicola danza per fare un personaggio. Non basta, soprattutto, il fatto – più di routine ormai che artistico – che Johnny Deep ci sia laddove c’è Tim Burton. Il suo Cappellaio magico è solo l’ombra lontana della carrellata dei grandi freaks che Deep ha interpretato per Burton. Ma è un’ombra troppo lontana per essere presa, e Deep, eterno Peter Pan, entra nell’ennesimo mondo per cercarla.
Anche Elena Boham Carter, l’aspetto migliore del film, rischia però di andarsi a incanalare in un “tipo”, senza riuscire più a evaderne. Sono loro due, i due attori di Tim Burton, i due interpreti dei suoi mondi, a farci intravedere l’ombra di una poetica in "Alice". Ma quell'ombra è presto un accenno che viene subito occultato, raffreddato dalle battaglie, dai mostri, che ricordano più un filmetto fantasy alla Narnia che “ Alice nel paese delle meraviglie”. Il tutto, ovviamente, è aggravato dal massiccio e evidente uso di computer graphica, che sembra fare passi indietro sconvolgenti, ritornando alla qualità di un videogioco, e svelando tutte le sue finzioni.
E il 3D. Come tutti sanno “ Alice in wonderland” non è stato girato in tridimensionale ma in 2D e poi, in fase di post-produzione, è stato convertito in 3D. Ora, non voglio apparire come un denigratore del 3D in tutto e per tutto, ma se viene utilizzato deve avere una giustificazione narrativa, non può essere completamente gratuito, altrimenti viene il sospetto che si tratti solo di una trovata meramente commerciale. Ma anche da un punto di vista tecnico è un 3D oggettivamente posticcio e mal riuscito. Non parlatemi di un incremento della profondità di campo, ciò che ho visto io invece era più piatto di un qualsiasi film bidimensionale.
Ed è un vero peccato.