mercoledì 3 novembre 2010

Il poeta dell'ascesi: due parole su Robert Bresson


Di Robert Bresson ammiro coerenza, rigore, ascetismo e semplicità.
Sono convinto che il modo migliore per studiare cinema sia quello di vedere e rivedere i suoi film, analizzandone la composizione, i procedimenti registici e narrativi, le scelte di montaggio – che, spesso, diventano autentiche scelte “morali” – la direzione dei “modelli” – mai attori.
Rifiutando i retaggi della drammaturgia è stato uno dei più radicali e convinti sostenitori del cinema come linguaggio autonomo, come arte dell’indicibile, come messa in relazione di gesti e movimenti, a discapito dell’azione stessa.
E’ il film che dà vita ai personaggi, non sono i personaggi a dare vita al film. Il fantastico nasce dal naturale” rivela in un’intervista realizzata da François Weyergans.
Fu lui a parlare di un ferro da stiro con cui “appiattire” l’immagine. C’è, ed è parte integrante del suo stile, quest’inconsueta esigenza di de-spettacolarizzazione ai fini di arrivare allo scheletro, al cuore stesso dell’immagine. Scavando nelle figure, che siano paesaggi o persone, riesce ad espellere tutto ciò che non è anima: è come se si eliminasse ogni elemento pleonastico al fine di arrivare all’essenza delle cose, ed è l’essenza, non l’ostentazione dell’esistenza, a commuovere e a turbare.
Più la realtà diventa spoglia ed ascetica più Bresson fa del minimalismo e dell’ellissi le sue mani-rasoio. Con coerenza porta avanti la sua idea di cinema in ogni ambito, rifiuta il ruolo dell’attore, il discorso della performance e della recitazione. L’attore diventa “modello”, è un elemento intrinseco del linguaggio cinematografico. Mi affascina moltissimo il discorso radicale di Bresson a riguardo. In un’intervista per i Cahièrs da parte di nientemeno che Jean-Luc Godard, Bresson dice “L’attore non smetterà mai di recitare. Recitare è una proiezione” e, poco dopo, quando Godard controbatte che si può distruggere questo fenomeno, Bresson insiste “L’abitudine è troppo grande. L’attore è attore. Davanti a te hai un attore che opera una proiezione. E’ così che si muove: si proietta all’esterno. Mentre il tuo interprete non-attore deve essere assolutamente chiuso, come il vaso con il tappo. E questo l’attore non lo può fare: se lo fa, allora non è più nulla”
Modelli, dunque, che si muovono nei rapporti spietati di causa-effetto.
Modelli, dunque, che coabitano in quei circoli chiusi dove sono reclusi, mentre il mondo va avanti, nella sua più completa e spietata indifferenza.
Modelli, ancora, che Bresson non disdegna di decapitare. Ama tagliare le sue figure: ora elimina la testa, ora recide solo una parte del corpo. Il resto non ha importanza. Ma che cosa sono queste figure decapitate? Strumenti o persone? Bresson richiedeva ai suoi modelli un lavoro di completa sottrazione, richiedeva la più totale e passiva inespressività. Di nuovo, dal naturale nasce la magia, dall'assenza di sentimento nasce l'emozione. L’inespressività evoca il sentimento.
Il resto a Bresson non interessa.
I modelli sono corpi.
Un pessimismo, il suo, di origini gianseniste, che lascia però sempre spazio a una luce, a una possibilità redentrice e catartica.
In “ Au hasard Balthazar”, infatti, si trova una delle scene più straordinarie del repertorio Bressoniano: l’asino che incontra gli altri animali, ed è qui che emerge un antico sentimento, la compassione, ma nel senso latino del termine: con-patire, soffrire insieme. Gli animali assumono il dolore del mondo.
C’è questa sorta di assorbimento della sofferenza, di cristiana accettazione.
Non a caso, infatti, considero un asino il più umano dei personaggi Bressoniani.
E' un peccato che la sua lezione sia troppo spesso dimenticata.

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