sabato 11 giugno 2011

Celle frigorifere - "The Mission" di Johnnie To




C'è una profonda malinconia nelle sparatorie di "The Mission". Destini segnati, raffiche di piombo inevitabili e fatali, statue che si sparano. Sì, statue. La bellezza del cinema di Johnnie To, si è detto mille volte ma non ci si stanca mai di ripeterlo, risiede tutta nei blocchi di tempo, nell'aria sospesa, nella cristallizzazione dell'azione. E' l'estetica dell'attesa e della glaciazione. Come Kitano. O forse no. Oltre Kitano
. Hardboiled e noir vengono riesplorati dilatando il genere. A Johnnie To non interessa la sparatoria in sé, ma, sovente, gli sguardi, le attese, i silenzi. Le sparatorie vengono come congelate in una cella frigorifera dove si sta consumando un'autentica coreografia della staticità. Posizioni statuarie, sguardi freddi e decisi, pistole che sono già protesi del corpo. E ancora silenzi. Poi, all'improvviso, uno sparo e la frenesia del genere scioglie il ghiaccio. Johnnie To è capace di reiterare questo meccanismo e di cogliere l'umanità, la malinconia, la vita solo all'interno dello sguardo che precede uno sparo. Questo rende grande la sua cella frigorifera chiamata cinema. E "The mission" ne è l'esempio più straziante. Le dinamiche del genere esistono tutte, dall'amicizia tra le guardie del corpo che devono proteggere il boss Lung fino alla donna del capo che spezza gli equilibri. Ma c'è qualcosa di più. Ci sono dei volti che comunicano sensazioni. Sensazioni non viste, cose non dette. C'è un altro film dietro a "The mission" visibile dalla prima visione ma insieme invisibile.
Ancora, c'è qualcosa di più. Universi visivo-sonori esplosi: il film è tutto nei singoli momenti, tra la comunione del cibo, i "morti" che mangiano e i cecchini invisibili. E infine c'è quella sequenza che trascende completamente il film. E' un momento in una sala di attesa in cui le varie guardie del corpo stanno aspettando il boss. A terra c'è una pallina di carta. Uno di loro guarda i suoi compagni poi la tira all'altro col piede. Pochi secondi dopo un altro tiro. E un altro. E un altro ancora. Un minuto per tornare bambini e non farsi vedere dai "grandi".
Non succede nulla. Semplicemente giocano.
Poi torna il boss e ricominciano con le loro vite.
Istanti, esistenze che volano via come proiettili di pistola, imprevedibili, fatali, indifferenti al mondo che le circonda. Quando il cinema d'azione è puro Cinema.





venerdì 3 giugno 2011

La rivoluzione surrealista dell'oggetto: il cinema immaginifico di Jan Svankmajer



« Il mondo si divide in due categorie di diversa ampiezza… quelli che non hanno mai sentito parlare di Jan Švankmajer e quelli che hanno visto i suoi lavori e sanno di essersi trovati faccia a faccia con un genio. »
(Anthony Lane – “The New Yorker”)

La libertà di Delacroix prende vita.
Una bambina mangia un biscotto e si trasforma in una bambola.

Se dovessi pensare a un cinema autentico, a un cinema che rinnova continuamente il suo precetto fondativo, ovvero quello dell'illusione (e la settima arte lo fa da sempre attraverso la sospensione d'incredulità, l'effetto finto movimento, la narrazione, la recitazione, la messa in scena e ogni altro suo aspetto) penserei ai film o ai corti di quel poeta artigiano misconosciuto e mai arrivato in Italia (se si esclude il buon Ghezzi e Youtube) che è Jan Svankmajer.
Artigiano è la parola giusta. L'artigiano lavora con le cose, modella gli oggetti e li manipola. Ha il potere proprio del demiurgo: creazione come trasfigurazione della realtà. E questo anziano regista Ceco, maestro della stop-motion e esponente di spicco della scuola surrealista di Praga, è prima di tutto un trasfiguratore, un adulto bambino: dentro di sé convergono il cinismo e la lucidità degli adulti con la fantasia e l'immaginazione propria dei bambini.
L'artigiano lavora con gli oggetti, scrivevo. Ma l'oggetto/utensile/cosa viene spogliato dal suo esser mezzo e diventa protagonista. Dietro alle sventure di piccoli esseri umani prorompe una forza anarchica, primordiale e dinamica che non può essere più fermata. Eccola questa forza straripare come un fiume in piena, dirompere aggressiva e mangiare tutto. Terremoti di cose. La rivoluzione surrealista dell'oggetto è incominciata. E' stata ferma per troppo tempo.
E' l'altro mondo di Svankmajer, un mondo popolato da oggetti che prendono vita e reinventano le loro funzioni. I maestri del dadaismo riderebbero di gusto agli occhi di questa de-contestualizzazione della cosa: lo strumento prende vita e reinventa il suo scopo. Due mondi in conflitto. Da una parte questi buffi esseri umani, consumatori/mangiatori di mondi. Dall'altra l'energia dirompente degli oggetti.
Immagini.
Tranci di carne che ballano.
Calzini che prendono vita come bruchi.
Figure orride che si mischiano, si amalgamano, si dividono e poi ritornano unità
.
Ma la pace non è cosa di questo mondo. L'uomo esiste per mangiare, per cibarsi, per riprodursi, per sopraffare. I due mondi entrano in contrasto: le cose si ribellano agli esseri umani, fanno sentire la loro voce, si rivoltano spesso in maniera repellente e violenta, altre volte con leggeri movimenti che fanno presagire una ribaltamento di domini e potere.
Ormai da quasi cinquant'anni Svankmajer si muove reinventando i territori del grottesco e del cinema immaginifico. Le sue rocambolesche visioni hanno influenzato alcuni tra i più eccentrici registi degli ultimi decenni (il primo Tim Burton su tutti). Tra gli anni '60 e '90 ha girato decine di cortometraggi usando la tecnica dello stop-motion, intimizzandola e personalizzandola. Uno dopo l'altro ha creato gioielli come "Et cetera", "Historie naturae", "La caduta della casa Usher", "Il pozzo e il pendolo", "L'appartamento", "Possibilità di dialogo", "Oscurità, luce, oscurità" e moltissimi altri. Comprime gli spazi, fa muovere i suoi personaggi in piccoli e claustrofobici luoghi. Il suo cinema è una trappola dove si muovono piccoli topi dal destino segnato.
E' come se Georges Meliès avesse tramandato il suo caleidoscopio di trucchi e fantasmagorie nelle mani esperte di questo genio Ceco.
Un tronco d'albero che prende vita e mangia tutti.
Due uomini a un ristorante che mangiano i loro indumenti.
Orecchie volanti fuori dalla finestra alla ricerca del loro corpo.

Nel suo surrealismo visionario Svankmajer supera i confini della razionalità e gioca con l'assurdo. Gioca sperimentando, non ha paura del brutto e, spesso, l'orrido, il grezzo e l'osceno sono gli autentici protagonisti dei suoi film. Sono loro, reietti relegati nel mondo delle cose, a vivere di forza propria. Autonomamente. E' un grido morale quello di Svankmajer: la rivendicazione dell'oggetto. Nel suo lungometraggio "Sileni Aka Lunacy", un insolito horror che omaggia il marchese De Sade e Edgard Allan Poe, alla vicenda narrata viene alternata una fuga delle carne, non più disposta a essere inscatolata e mangiata. La materia è viva e si sottrae alle logiche commerciali e industriali della società capitalistica. Ma all'anarchismo e alla forza vitale di questi tranci di carne rivoluzionari la risposta data è la repressione e l'inscatolamento. La carne ritorna prodotto commercializzato. A discapito delle apparenze il cinema di Svankmajer è essenzialmente politico, parla di società consumistiche, parla di mercato e consumo: attenti, sembra che dica, attenti alle illusioni, ai desideri, ai sogni, anche loro possono essere orientati, sedati, intorpiditi, violentati e inscatolati. Proprio come dei tranci di carne. Ma questi tranci continuano a respirare anche in scatola.
La sovversione non può essere estirpata.
In "Pic-Nic with Weissman" l'uomo soccombe e la feroce vitalità degli oggetti sembra inneggiare alla VITA. Cinema dell'inconscio e dell'osceno, cinema della vitalità e delle deformità. E il cibo. Il cibo è onnipresente nei lavori di Svankmajer. E' un cibo che mangia ed è mangiato, che divora insaziabile proprio come il tronco di "Otesanek", memorabile lungometraggio sul padre e la madre, sulla follia e l'infanzia. Una coppia che non riesce ad avere figli. Un tronco dalle fattezze vagamente umane. L'amore di una madre che lo allatta. Il tronco/Pinocchio prende vita ma non diventa un bambino vero. Rimane un tronco e ha fame. Il latte non basta più. Così un giorno il gatto di casa scompare. Poi il postino. E poi anche il padre e la madre. "Otesanek" mangia tutto e tutti, risparmia solo una bambina che lo aiuta e lo ama.
L'infanzia, appunto. I bambini credono. A cosa? Non lo so, l'importante è credere. Crede la piccola Alice che segue il bianconiglio in un campo fatto di nulla. C'è un tavolino in mezzo al campo e il bianconiglio entra dentro a un piccolo cassetto. Poi scompare nel Paese delle Meraviglie. Alice lo segue.
Niente è impossibile, tutto è probabile.
La tecnica stop-motion non scompare mai dai suoi lavori ma anzi viene sapientemente unita alla recitazione in carne ed ossa. In un cinema contemporaneo sempre più digitalizzato e virtuale (e anche gli eredi di Svankmajer, quali Burton, si sono ormai adattati alle logiche di mercato) la stop-motion artigianale è uno splendido e coraggioso atto di resistenza. Si difendono le illusioni e la manualità, gli oggetti e le finzioni. A un'immagine sempre più perfetta lui contrappone l'imperfezione, perché solo nelle imperfezioni si riconosce l'autore, e dunque l'uomo. I suoi pupazzi sono ancora in piedi nella fabbrica di illusioni.
Autentici.
"Credo che la gente" dice "abbia perso il rapporto magico con le cose al contrario dei nostri predecessori"
Dettagli come ingrandimenti magici degli oggetti.
Zoom.
Brevi inquadrature.
Universi sonori deformanti.
Mirabili invenzioni e continue sorprese.
Oggetti decostruiti.
Argilla.
E' come tornare nel mondo dell'infanzia e cavare un occhio alla bambola più bella.
Pratiche ancestrali e giochi primordiali, richiami a unità atemporali, mostri che si cibano di mostri per poi rigurgitarli. Paura infantili. Cinema che reitera i suoi meccanismi e i suoi giochi concentrici. Tutto questo e molto altro è Jan Svankmajer.
E infine stanze. Piccole stanze che sembrano tanto uteri materni che ospitano persone e cose, proprio come avviene in "Oscurità, Luce, Oscurità" dove le varie componenti del corpo umano si uniscono e vanno a formare un feto.
Proprio come se le stanze/mondo di Svankmajer fossero uteri materni.

mercoledì 1 giugno 2011

"Perché andiamo a frugare nell'Universo quando non conosciamo niente di noi stessi?"



Rivedendo "Solaris" di Andrej Tarkovskij nella versione originale e non in quella mutilata vergognosamente dall'Italia rimango di nuovo estasiato e inquietato dalla sequenza più frastornante e aliena del film. La galleria - passaggio ideale terra/Solaris o, forse, Solaris/Solaris. Una partenza tra passato e presente, cinema puro scandito da suoni impuri, migliaia di fotogrammi atemporali in quieta fibrillazione. Kelvin è in procinto di partire, qualcuno è già partito prima di lui. E' un viaggio nel passato che ritorna al futuro, è il colore che irrompe e squarcia il bianconero. E' il rosso accecante e disturbante dei fari delle automobili ammucchiate nella loro corsa inevitabile (inutile?) contro il tempo. Quale tempo? Quello interno all'inquadratura, che la fa respirare e vivere di una scansione temporale propria. Tarkovskij riinventa il tempo e plasma lo spazio. Quale spazio? Lo spazio della galleria o lo Spazio dove viene spedito Kelvin? Il magma pensante della solaristica esiste già qui, a pochi decine minuti dall'inizio del film. I mostri del passato - immagini mentali divenute fisiche - trovano la loro partenza ideale in questi (non)luoghi di passaggio. Al viaggio nello Spazio dell'uomo risponde il viaggio nell'uomo. "Perché andiamo a frugare nell'Universo quando non conosciamo niente di noi stessi?"
Magma pensante, cervello oceanico, creazione in Solaris. Il Tempo non ha più importanza. E lo Spazio siamo noi.