lunedì 25 febbraio 2013

ORFANI DI REALTA' #13
"Take Shelter"




“Tuttavia, mentre mi impegnavo nei balzi, nelle scalate, e in tutte le difficoltà di un terreno assolutamente irregolare, tutto irto di ostacoli e rotto da piccoli abissi sempre imprevisti, sentivo che stavo sorvegliando in me il punto nero da cui, alla minima sosta, sarebbe rinata la crisi delle convulsioni interne, delle ipotesi e delle reazioni insopportabili. L’assurdo era in agguato”
Paul Valéry, “L’idea fissa”

Apocalypse now. Seduto sulla poltrona di una sala cinematografica, mentre gli occhi osservano le immagini che scorrono dinanzi, spesso mi trovo a vagare con la mente in altri lidi, facendo trionfare, ancora una volta, quell’attenzione distratta che mi porta all’ennesimo detour (amabile cul de sac in cui nuotare lungo itinerari misteriosi, disconoscendo sempre e comunque mete e arrivi). Ripenso a un passaggio de "L'idea fissa" di Paul Valéry, mi colpisce quando scrive che l'uomo sia un essere troppo lento per la velocità incredibile a cui scorrono i suoi pensieri. Non riusciamo a catturarli perché arriviamo sempre troppo in ritardo, viviamo in fuori-tempo esistendo in fuori-gioco. Collegare i pensieri e plasmarli in un discorso, alla ricerca non tanto di una gabbia di senso quanto piuttosto di un’anomalia, di un’incoerenza, di una qualsiasi, piccolissima vacillazione, è questo che provo a fare. Vedo “Take Shelter” e il flusso di immagini mi riporta, uno dopo l’altro, a “Il seme della follia” e a “Il corridoio della paura” perché sono da sempre interessato ai moti irrazionali della mente, alle deflagrazioni di una realtà soggettiva e plasmabile. Non mi interessa tanto l’efficacia di ogni sogno e (pre)visione di Curtis (Michael Shannon, instabile e superlativo) quanto, piuttosto, quella tensione che si insinua spettrale lungo l’intero film, quel sentimento di inquietudine perturbante che si avverte fin dalla prima inquadratura, che si reitera poi più volte nel corso della narrazione. L’essere umano, di spalle, che osserva un cielo funesto, in previsione di una tempesta che forse avverrà. Un po' come quel finale pazzesco del sottovalutato ma interessantissimo film dei Coen, "A Serious man": profezia di una catastrofe e segno dell'inevitabilità nel regno del caos e dell'assurdo.



Il meccanismo narrativo, ineccepibile e perfetto, affonda nel vortice della (pre)visione e della premonizione, nel sentore della fine, del mostruoso e del tragico che stanno per avvenire. Ma in realtà l’apocalisse è adesso: la fine è quella di una mente instabile in piena caduta che si manifesta con l’ansia, la paranoia e l’angoscia diventate così condizioni vitali e quotidiane. Sarebbe assurdo pensare di poter rintracciare l’apocalisse in un oltre definito, in un evento naturale o disastroso, in un uragano o in una tempesta di fulmini, in stormi di uccelli che cadono a terra o in un ammutinamento improvviso della razza umana. Al contrario “Take Shelter” dimostra come la fine sia connaturata all’essere umano e si possa manifestare, con tutta la sua violenza, all’interno dei labirinti più o meno reconditi della psiche. La grande e tragica fine del mondo siamo noi.
Apocalisse vuol dire, ancora una volta, solitudine e follia, ed è rintracciabile in quel preciso, doloroso momento in cui due sguardi collidono senza incrociarsi. E’ capire come sentire e sentore non siano comuni a tutti gli individui: quando la percezione della realtà perde la sua condivisibilità e la visione si fa esclusiva, è proprio allora che il mondo crolla. Basta uno sguardo, quindi, per capire come la fine sia già avvenuta (o meglio ancora: solo uno sguardo potrà salvare o distruggere il mondo). Quando il personaggio straordinario ed angelico della moglie (una meravigliosa, malickiana e sempre eterea Jessica Chanstain) non riesce più a comunicare con il suo amato marito, quando non può credere (e vedere) alle sue premonizioni, allora si crea una frattura invalicabile. La vera catastrofe è il sentore della fine che si insinua in una vita come tante altre sottoforma di follia. Ma cos’è la follia se non un modo diverso di guardare il mondo e la realtà? In questo “Take Shelter” sembra proseguire la riflessione Von Trieriana sull’apocalisse mostrata l’anno scorso in “Melancholia”: solo il folle, il depresso, il malato può sentire la fine che si avvicina. Von Trier rintracciava nella depressione, o meglio ancora, in quello stato di melanconia, una continua, inevitabile fine dell’azione e – dunque – del mondo (in questo, però, più che a Von Trier si potrebbe risalire alla tradizione Russa e ai suoi rapporti con la "malattia", al cinema Tarkovskiano se non addirittura a Dostoevskij e alla sua visione iniziatica della follia). Il problema, casomai, è che se in “Melancholia” il personaggio di Kirsten Dunst pare vivere, convivere e perfino amare la fine più di chiunque atro, in “Take Shelter” Curtis lotta per la sopravvivenza di sé, del suo mondo e, soprattutto, della sua famiglia.



Il film suggerisce – nell’ellissi tra la “riscoperta” della realtà (l’uscita dal rifugio) e il ritorno nell’incubo (la percezione di una nuova, solida catastrofe) che il personaggio di Curtis guarisca grazie alle parole, all’amore incondizionato della moglie, e alla fede in lei e nella sua visione. Ma la catastrofe finale – avvertita con l’orrore dello sguardo – rappresenta anche una situazione di totale, straordinaria rinascita. Mi spiego meglio: prima che cali il buio e arrivino i titoli di coda Curtis e sua moglie si scambiano uno sguardo d’intesa e, per la prima volta, tutti e due (anzi, e tre, considerando la figlia) vedono la stessa catastrofe in arrivo. E’ l’unico momento in cui l’unione famigliare sembra superare qualsiasi differenza di sguardo e di percezione. Certo, il finale è spaventoso ma in qualche modo straordinariamente conciliatorio: si annienta la solitudine dello sguardo, la follia e l’incomprensione, per rientrare in uno stato di condivisione, per poter tornare a vedere insieme agli altri e non più soli. Di fronte a questo l'Apocalisse non fa più paura come prima.
E poi, ovviamente, c’è il rifugio. Potremmo dire che tutto il film è attratto dalla futura, possibile, inappagabile attesa della reclusione. In qualche modo non si aspetta più la fine del mondo, si aspetta il momento in cui poter scendere sotto terra, perché solo lì vi è quiete e protezione. Tutto il film vive di questo spettro dal futuro: esiste una forza che attrae il corpo e la mente sotto la superficie, dove si potrà aspettare con maschera antigas una nuova, improvvisa luce.
"Take Shelter" appare quindi come l'ennesima inquietante radiografia di un Paese che vive sotto l’ombra della paura. Paura verso minacce invisibili ma ipodermiche ed logoranti. Jeff Nichols è un talento nel mascherare, sotto ai meccanismi di genere, una parabola ben più ossessiva e disarmante di quanto potrebbe sembrare a una prima visione. E nello spazio angusto di un rifugio si realizza l’ossessione di sopravvivere a se stessi.
Che poi il mondo finisca o meno ha poca importanza.


domenica 17 febbraio 2013

ORFANI DI REALTA' #12
"Hugo Cabret" e il cinema-locomozione




"L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L'opera d'arte non contiene letteralmente la minima informazione".
(Gilles Deleuze, "Che cos'è l'atto di creazione?")

Già diverso tempo fa mi sono confrontato con l’ultimo lavoro di Martin Scorsese, quel film-saggio-omaggio che riflette sui cambiamenti del mezzo e su quelle chiavi di volta che rendono accessibile il mondo dei sogni. Quello che ne uscì fu quest’articolo: Viaggio alla fine del cinema: da “Hugo Cabret” ai fratelli Lumière
Su "Schermo bianco", però, mi interessa continuare a riflettere, in coerenza con gli “Orfani di realtà” di questo 2012 cinematografico, su un determinato aspetto di “Hugo Cabret” che va oltre l’omaggio, oltre il treno che si scaglia contro gli spettatori e il razzo che si conficca nell’occhio destro della luna. E’ vero, Scorsese omaggia e sorprende, espande e reinventa, usando il cinema per attuare un riscatto impossibile di luce e movimento. Ma se “Hugo Cabret” fosse solo il viaggio di un cinefilo nella storia del cinema, la lezione accademica di un professore come Martin Scorsese, non si troverebbe in questo servizio.
La suggestione che è alla base di questa riflessione è invece tipicamente Wendersiana: la scelta di ambientare la storia in una stazione ferroviaria, ricordando ancora una volta che il cinema sia più che un mezzo di comunicazione un mezzo di locomozione. E’ qui che si apre un varco gigantesco e rizomatico, un corto-circuito secolare destinato agli interrogativi baziniani intorno all'ontologia del cinema. Che cos’è il cinema?, per l’appunto. Non è certamente un caso che la sua nascita e il suo simbolo rimangono il treno, in un contesto in cui il mito positivista del progresso prende il sopravvento, insieme a quello della velocità e del motore.



Nel fuori-campo dell'immagine, oltre agli ammiccamenti francesi, agli inseguimenti in stazione, ai piccoli siparetti secondari che circondano la storia principale, mi è parso di scorgere il cinematografo come uno strumento che ha sempre più problemi a identificarsi come mezzo di comunicazione – e che, forse, per sua stessa identità non si potrebbe mai definire tale. Pensare a un mittente, a un messaggio e a un destinatario vuol dire rinchiudere il cinema in prigioni industriali e/o ideologiche. Da questo punto di vista il cinema non comunica, il cinema trasporta. Lo spettatore non è poi distante dal viaggiatore e chiede alla sala cinematografica quello che desidererebbe in un viaggio: l’ipotesi di una nuova vita, di una nuova personalità tutta da costruire, di nuove storie, conoscenze ed emozioni. Più semplicemente chiede un'autentica, vitale rinascita (degli occhi, dell'anima, del mondo: cinema come palingenesi dello sguardo).
D’altronde i panorami rettangolari che si osservano dal finestrino di un treno non sono poi così dissimili da un cinemascope ridotto. Vedere oltre il finestrino equivale poi a guardare (oltre) lo schermo.
Chiediamo al cinema di spostarci, non di insegnarci, viaggiando nel futuro, nel passato e in infiniti, ucronici presenti. Come una guida nel mondo dei sogni, Martin Scorsese rivendica lo statuto di meraviglia, magia e sorpresa che sono alla base di ogni nuova visione.
Il cinema è quindi, prima di tutto, una macchina che ci permette di percorrere sentieri inaspettati, e non per niente in "Hugo Cabret" assistiamo al doppio speculare del cinematografo: l’automa. Ma quest’automa può funzionare e realizzarsi solamente con l’intervento umano.

(appunti per una riflessione futura: torna alla mente un altro automa che tanto assomiglia a quello di Scorsese, ovvero quello de “La migliore offerta” di Tornatore che, guarda caso, è un film sulla simulazione. Per ora sono due immagini a confronto, lasciamole vivere e scontrarsi un po’ prima di catturarle e scriverci su).


martedì 12 febbraio 2013

ORFANI DI REALTA' #11
"A simple life"



Roger è un produttore cinematografico, vive ancora con la governante della sua famiglia che lo ha accudito fin dai primi anni della sua vita. Quando però le condizioni di salute della donna si aggraveranno i due saranno costretti a separarsi.
Poche parole questa volta perché "A simple life" richiede un'immediata visione più che una radiografia scritta o un qualsiasi tipo di approfondimento, digressione o revisione. Rievocandolo riesco solo a comunicare le calde e avvolgenti sensazioni di una seconda visione appena avvenuta.
La delicatezza estrema, rigorosa ma commovente, straziante ma semplice, del volto, delle parole, del corpo di Deannie Yip. La grazia e la forza di una vita dedicata all’altro, la cura e l'amore per una famiglia e il rapporto materno con il personaggio di Andy Lau. Più che i singoli momenti sono le emozioni a penetrare e a perturbare nel cuore dello spettatore.
Non c’è patetismo né retorica né traccia di ruffianeria in questo bellissimo film di Ann Hui, che si concede come un dono in tutta la sua scevra genuinità, in tutta la sua sincera, sentita compostezza. Un rigore ancora prima che attoriale registico: una macchina discreta, ora timida e riguardosa, ora elegiaca e timorosa, sempre attenta a non essere fuori posto, a rispettare l’intimità e la solitudine, a non muoversi troppo e a svelare (solo) quel che si può. Cinema morale prima di tutto. Un tuffo al cuore come una di quelle straordinarie foto sbiadite nell’album di ricordi della nostra vita. L'amore, l'affezione, la cura vengono liberate da qualsiasi ipotesi concettuale per tornare alla loro autentica semplicità. E' un tipo di cinema che emana delicatezza da ogni inquadratura e riporta in auge la questione morale dello sguardo: ogni raro movimento di macchina ha una sua precisa motivazione etica, come affermava Rossellini. E nella bulimia di immagini e di sguardi irresponsabili ed onnipresenti che contraddistinguono la contemporaneità l'esempio di Ann Hui è una perla preziosa che brilla vitale perché non conforme. Perla che ancora si preoccupa del gesto, dell'affinità, del sentimento e di un'umanità che sembrava ormai sorpassata.

post scriptum: godibilissimi i camei di Tsui Hark e Sammo Hung nella parentesi meta-cinematografica.

giovedì 7 febbraio 2013

ORFANI DI REALTA' #10
"Reality"



“Vivete la vostra vita in tempo reale – vivete e soffrite direttamente sullo schermo”
(Jean Baudrillard, “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?”)

Non capisco molto i termini della discussione creata intorno a “Reality”, sul fatto che si tratti o meno di un film sul Grande Fratello. Dire che l’opera di Garrone non sia un film sul Grande Fratello – inteso come grande occhio che sorveglia le nostre case e le nostre vite registrando le apparenze e appiattendo le identità – è come dire che il mondo non sia un Grande Fratello. Trovo ancora più fuorvianti le critiche di chi ha scritto che si tratti di un film inattuale, che la moda del GF e del reality è ormai sorpassata. Mi pare assolutamente il contrario. “Reality” si presenta, dall’inizio alla fine, ma anche in ogni fuori campo, digressione o frammento acustico, come un film sulla Realityzzazione del mondo, sulla scomparsa di una realtà defraudata a vantaggio di una fitta rete di simulazioni, sull'enorme corto-circuito tra televisione e vita quotidiana che ha investito corpo e mente facendo dell'ansia e della paranoia le condizioni vitali dell’uomo schermo.
Come profetizzato da McLuhan e poi ripreso da Cronenberg, “Videodrome” ed affini, quello che si sta ormai verificando è la crescita di un nuovo organo nel cervello: lo schermo. Lo schermo come unica realtà liquefatta, assimilabile e vivibile; questa neorealtà è gioco e simulazione, esperienza interattiva e videoludica, ma soprattutto test perpetuo: entrata e permanenza in questa mascherata roulette russa impongono determinati codici comportamentali, continue messe alla prova pena squalifiche ed estromissioni. Ecco quindi la vicenda di Luciano, il protagonista di “Reality”, che vive in un’attesa che è già, a tutti gli effetti, show: si sente osservato, inseguito, vigilato, la sua esistenza diviene tele-esistenza in cui dover dimostrare continuamente, tenacemente, la propria forza e il proprio tasso-interesse. E’ evidente che la realtà perda completamente consistenza, che la vita di prima non abbia più alcuna importanza e valore ma che, anzi, si debba cancellarne le tracce: l’azzardata vendita della pescheria è il divorzio simbolico della vita a beneficio della simulazione.


Tutto diviene un enorme teatro di posa in cui allestire il proprio show quotidiano. Viene perfino il dubbio se la realtà di prima, quella apparentemente esente da paranoie e da realityzzazione, sia effettivamente più vera e meno simulata: ambienti fatati, carrozze e cavalli, matrimoni pacchiani, case senza casa, pescherie, piscine, Cinecittà e Napoli, madri, padri e figli, tutto è destinato all’implosione nel gigantesco rebus della simulazione. Nessuno è più al sicuro. Luciano è l’assente ingiustificato tra grilli e robot da cucina, canto del cigno di una cultura, quella italiana, allo sbando tra kitsch e scenari horror.
Jean Baudrillard scriveva nell’illuminante “Delitto perfetto” (quello scacco matto terribile ma geniale in cui la televisione ha ucciso la realtà senza lasciarne tracce): “Ogni esistenza è tele-presente a se stessa. La tv e i media sono usciti da tempo dal loro spazio mediatico per investire la vita ‘reale’ dall’interno, assolutamente come fa il virus aggredendo una cellula sana”.
Cortocircuito negli occhi e nel cervello, vedi e sarai giudicato. Seguiamo (guardiamo, spiamo) i primi piani di Luciano mentre si guarda intorno attento a non sbagliare un colpo. Quello che testimonia “Reality” è anche ciò che raccontano, in modi diversi, film completamente distanti che abbiamo già visto-analizzato precedentemente: ritornano ancora una volta i vari "Cosmopolis" e "Holy Motors", ma si potrebbero trovare qui perfino i nostri "E' stato il figlio" o "Corpo celeste" (come testimonianza di circoli chiusi e paradossali dove perfino la religione è stata invasa dal germe televisivo producendo volgarità imbarazzanti sulla scia di "Mi sintonizzo con Dio" cantata a squarciagola in Chiesa). Il punto è il seguente: il mondo è chiuso, manipolabile, percorribile, decodificabile numericamente e osservabile in tempo reale. Ogni innovazione tecnologica, ogni nuova manifestazione di progresso, ha finito per anestetizzarci permettendo ai virus della contemporaneità di disumanizzarci. L'umanità permessa - perchè maggiormente prevedibile - è solamente quella volgare e televisiva dell'apparenza, tradotta in urla parossistiche e gesti esuberanti. In quest'ossessivo regime di panvisione non c'è più spazio per un'aldilà ma solo per un aldiqua filmabile ventiquattro ore al giorno trecentosessantacinque giorni l'anno.


La grandezza di "Reality" (e di Garrone in generale) è quella d'intuire come la commedia nostrana non possa che tradursi in risata isterica e patologia degenere. Garrone ci trasporta all'interno di centri concentrici partendo da scenari fatati, Viscontiani/Felliniani e finendo a fare (grande) cinema persino tra le file di attesa per i casting a Cinecittà, in una discoteca o in una pescheria. Si conferma così uno degli ultimi, grandi talenti visionari italiani, capace di citare e rinnegare, di avanzare un discorso teorico per poi finire nei terreni ambigui del sogno e dell'invisibilità.
e saper reinventare, nel deserto di una stanza, il cinema. Avviene proprio questo in quel finale terribilmente appagante e tristissimo, dove solo la scena finale, la sola ambientata all’interno del GF (poco importa se si tratti di sogno o realtà) è paradossalmente l’unica autentica, priva di simulazioni e artefatti. Il pescivendolo è un Pinocchio televisivo che non ha aspettato altro che diventare un bambino vero (laddove "vero" ha perso il suo significato originario per diventare sinonimo di "pubblico").
Zoom out finale (il film, specularmente, partiva con uno zoom in). E ora chi sta guardando?

lunedì 4 febbraio 2013

ORFANI DI REALTA' #9
"La guerra è dichiarata"


Io e te. La guerra è dichiarata.
Leggeri continuiamo a sentire il mondo e il suo dolore, e tutta la sofferenza pare diluirsi e divenire aria. Come nell’ultimo delicatissimo Bertolucci, sembra esserci qualcosa intorno a noi, un soffio una luce uno sguardo così evanescente, aereo e sfumato da far perdere peso ai corpi, sconvolgendo qualsiasi equilibrio gravitazionale. Penso a “La guerra è dichiarata” di Valérie Donzelli e torna alla mente quanto si corra in questo film.
Ricordo quando lo vidi qualche mese fa in un piccolo cinema romano. Pomeriggio uggioso ma strano, in qualche modo diverso da tutti gli altri. La sala era vuota, c’era solo un anziano signore a poche file di distanza. Il film iniziò e quella nuca pelata diventava parte integrante dello schermo. Velocemente entrai nel vivo di una narrazione scandita con una velocità mirabolante, perdendomi tra risonanze e ricordi, vedendo Juliette e Romeo conoscersi, ridere, giocare, baciarsi, fare l'amore, avere un bambino, scoprire la sua malattia, sperare e poi, ovviamente, combattere.
Intorno a metà film, forse prima forse dopo, mi resi conto che l’anziano dalla nuca pelata non c’era più, svanito prima che potessi accorgermene. Mi guardai intorno alla ricerca del mio attempato compagno di visione ma non c’era nessuno.
Iniziai a percepire una scomparsa aleatoria, o meglio la minaccia di una scomparsa, per tutto il film. Ipnotizzato mi lasciai cullare senza opporre resistenza a questo passo silenzioso e mai pesante, a questa guerra dichiarata che è un modo d’essere, di vivere e pensare, sempre dimentica del peso del corpo.


Vidi in queste strane, ipnagogiche condizioni, il film della Donzelli e non vorrei mai rivederlo (per paura, forse, di trovare un altro film). Ciò a cui ho assistito commosso è l’enorme, rara capacità di sorridere della vita nel modo più genuino e bello e avvenente che si possa immaginare. Durante i titoli di coda scrissi di getto poche parole su un taccuino, comparse, come per incanto, con una scrittura automatica che mi pareva la sola necessaria. Queste le parole:

divertiamoci
vivendo piangendo scoprendo
il mondo è fatto d’aria
bisogna pur respirare
che bella che triste
è la guerra
della vita


Se dovessi raccontare la piccola favola poetica (o il complesso meccanismo metanarrativo di specchi) che va a comporre “La guerra è dichiarata” sarebbero questi i versi, queste le parole che userei per “dire” il film: rappresentano ciò che è scaturito naturalmente dalla sua visione aleatoria.
Si è parlato molto di rimandi, sempre costanti, a un certo modo di fare cinema tipico della gloriosa nouvelle vague. Questa volta non a torto. La nouvelle vague era il cinema del soffio e della danza, dei ragazzi ribelli e selvaggi che correvano esuberanti, viziosi e amanti della bella vita non conforme, romantici cinefili dove tutto era immagine, persino un sorriso da bloccare e poi riconsegnare al flusso instabile e dirompente del movimento. La vita è subbuglio da riordinare, forse pensavano. Oggi come ieri “La guerra è dichiarata” è poetica del caos ben lontana dal manierismo, dall’ombra e dalla stasi: rappresenta a tutti gli effetti la reinvenzione di un’eredità, quella di un cinema libero a tutti i costi e capace di rischiare, senza paura del ridicolo o della caduta.


Ho come la sensazione che tutto il film, tutta la storia di questi due giovani innamorati alle prese con la malattia del figlio, sia ciò che si vede attraverso la risonanza magnetica che apre la storia. E’ come se l’apparecchio dell’inizio non permettesse di vedere solo l’interno del corpo del bambino ma anche, e soprattutto, il flusso di pensieri, di ricordi, di emozioni del personaggio di Valérie Donzelli. Una sorta di radiografia della mente o, meglio ancora, delle emozioni della protagonista (radiografia che si riflette in un montaggio più emotivo che narrativo, basti guardare la straordinaria, empatica, potentissima sequenza della corsa della Donzelli tra le corsie dell’ospedale).
Cinema come terapia, rielaborazione della vita ed espiazione delle sofferenze. Un gioco di specchi e incastri che svela, come un’intricata struttura di scatole cinesi, l’essenzialità liquida che scorre imperturbabile tra realtà e finzione, tra cinema e vita.
“La guerra è dichiarata” è interessante infatti dal punto di vista di rimandi teorici e comunicanti: Juliette e Romeo sono in realtà la Donzelli stessa (anche regista e sceneggiatrice del film) e Jérémie Elkaïm, compagno dell’attrice. La storia è reale e viene messa in scena traslata nei termini di una narrazione cinematografica. Con una libertà registica dirompente che sorprende per potenza espiatrice, invenzioni visive, colori vivi e inaspettata poetica leggerezza, la Donzelli mette in scena un sincero e toccante inno alla vita. Fare cinema vuol dire guarire così come vivere non significa sopravvivere ma combattere.
Echi da uno spazio Truffautiano. Si finisce sempre su una spiaggia, con i piedini sulla sabbia di un bambino che cammina verso una nuova vita.
E nel buio della sala ti scopri a piangere (e immagini la vittoria suprema dell’immagine in movimento, ovvero quella di farti dissolvere - anima e carne, massa e tempo - al suo interno).

venerdì 1 febbraio 2013

ORFANI DI REALTA' #8
"Io e te"



Dimmi ragazzo solo dove vai,
Perché tanto dolore?
Hai perduto senza dubbio un grande amore
Ma di amori è tutta piena la città

(David Bowie-Mogol, "Ragazzo solo, ragazza sola")

“ Normale vuol dire normale, cioè niente”.

Così risponde allo psicanalista Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori, splendida rivelazione), sguardo serio ed acuto, occhi enormi di chi ha già visto e sofferto il mondo sebbene abbia solo quattordici anni. Sento subito di conoscerlo, di sentirlo e comprenderlo per quel suo modo di guardare clandestino, per i piccoli gesti e i movimenti in nuove, inaspettate direzioni; per come si avvolge lentamente sotto la tenda di casa, filtrando non solo i suoi occhi ma tutto se stesso, isolandosi dalla voce materna; per come spia dalla finestra il giorno e la notte, i condomini e il portiere, la luce e l'oscurità. Ragazzo solo e armadillo in gabbia, attratto da rettili e insetti, rifugge gli amici, il campo scuola e i rapporti con la madre: anima imperfetta che cerca la libertà solo nella reclusione felice, ovvero nella piccola e polverosa cantina del suo palazzo. Immerso in uno spazio angusto tra mobili, scartoffie e divano, avrà modo di sviluppare nuovi occhi consumando libri, fumetti, lattine di Coca-Cola, merendine e scatolette di tonno. Il suo rapporto col mondo diviene una mediazione filtrata da una finestra dalla quale emanano odori, suoni e una tenue ma vivida luce. Storia, quindi, dell'educazione di un nuovo sguardo (quello della crescita, nel caso di Lorenzo, quello della nuova vita, nel caso di Bernardo Bertolucci)
Si ritorna sempre alla soglia del tema principale che mi pare di aver rintracciato in tutto quest'ipertesto chiamato "Orfani di realtà": quella strana, potente forza centripeta che opera come la cornice di un quadro, incanalando i personaggi verso la polvere dell'interno. Ma stavolta non vi è alcuna reclusione forzata, Lorenzo non è costretto in uno spazio asfittico ed opprimente perché in questi pochi metri c’è tutto l’ossigeno che serve (il mondo intero si trova già lì, “aperto” tra quattro mura, nella distanza che intercorre tra un Tex Willer e delle cuffie auricolari): lontani dai regimi claustrofobici respiriamo un vitale, rigenerante soffio di tenera claustrofilia.


Se, progressivamente, in tutti i film che avevo segnalato si potevanno riscontrare una perdita di umanità e un’opacità sempre più diffusa che umiliavano gli occhi e la comunicazione, in “Io e te” siamo lontani dai sapori postmoderni della bulimia e dell’essiccazione: Bertolucci torna a fare cinema come se non ci fossero stati questi ultimi quaranta, cinquant’anni, come se solo ieri François Truffaut avesse girato “I 400 colpi”.
Per una volta che questo dreamer di ultimi tanghi e imperatori abbia filmato rivoluzioni e perversioni, enormi spazi aperti ed epopee novecentesche non ha importanza: qui si ritorna al gusto della piccola narrazione, alla volontà di raccontare una storia semplice ed autentica. Fare un film piccolo, è questo che commuove e sbalordisce: la confezione da opera prima, la freschezza, il vigore, la voglia di raccontare e di misurarsi con la “realtà” (qualunque essa sia, senza moralismi o dietrologie) e soprattutto il suo essere teneramente ma lucidamente imberbe. Trovo tutto questo sorprendente: il modo in cui Bertolucci segue il suo Lorenzo emana la stessa fresca, felice tristezza che abitava quel cinema francese leggero, etereo ed arioso, alimentato dal desiderio di scoprire il mondo con una macchina da presa.
Quando nel finale Lorenzo ci guarda, diventando il contro-campo ideale di Antoine Doinel, pare cristallizzarsi con lui nell'unità fotogrammatica del fermo-immagine (la maturità di Lorenzo si incrocia con quella di Doinel nella stessa sospensione finale, nel medesimo modo di bloccare la storia per renderla immor(t)ale). Il freeze frame diviene regno enigmatico di statici incontri.
Ma qui ancora manca il termine di paragone, l’altra solitudine che entrerà prepotentemente dalla porta della cantina: Olivia (Tea Falco, ennesimo corpo sensuale, provocante ma disfatto che entra, a pieno diritto, nella galleria femminile del cinema di Bertolucci), sorellastra di Lorenzo, intimità dolente e ferita, vittima dell’ennesima crisi di astinenza da eroina. Fa il suo ingresso nel rifugio come una Venera nera che invade la penombra, per poi mostrare tutta la sua esuberante, turbolenta sensualità.
Dopo i primi, ovvi problemi di convivenza, impareranno a conoscersi come rifugiati curiosi alle porte del mondo. Lorenzo guarda, osserva, o meglio spia di nascosto da quella zona d'ombra che gli permette di osservare la realtà con gli occhi di un entomologo: ha bisogno di ingrandire le cose per vederle veramente. Quando la lente d'ingrandimento sarà puntata sul corpo di Olivia, Lorenzo si ritroverà dinanzi a un mistero molto più bello e complesso, a una sensazione mai provata che sembra agitarsi indistinta (e indomata) sotto pelle. Esiste ancora qualcosa che non potrà studiare nè classificare perché umano, troppo umano. Dopo aver cercato l'occhio della distanza, che gli avrebbe permesso di scoprire ed ammirare ciò che trovava dinanzi, si renderà conto che gli occhi non bastano: depositata la lente d'ingrandimento, avvicina il suo letto a quello della sorellastra, la tocca, la accarezza, le sorride: prima ipotesi di riconoscimento per un disperso, ma soprattutto inizio di un scambio, che di questi tempi, si era detto impossibile
Olivia, invece, sembra dissolversi, svanire e confondersi con gli oggetti, con i muri che fotografa. A un certo punto del film dice significativamente "Se io e te non avessimo punti di vista saremmo liberi di osservare la realtà come realmente è, senza farci influenzare": è il punto di vista a renderci tutti diversi. Non si può non pensare subito a Bertolucci che, dopo anni di latitanza dal cinema perché costretto su una sedia a rotella, ritorna a fare un film ma da tutt'altra prospettiva: la cosa affascinante è che non si adatta al pubblico e a gli attori, non "finge" di stare in piedi per osservare i suoi personaggi, ma anzi chede a tutti di adeguarsi al suo nuovo punto di vista (per voi volare solo nel finale). La paralisi, la malattia non diventa un limite ma, semplicemente, un nuovo modo per guardare la realtà.


All'inizio mi ero imposto di scrivere poco su “Io e te”, proprio perché è un film piccolo, semplice e bellissimo, e questo, per una volta, sarebbe dovuto bastare. Ma dopo le prime righe mi sono perso tra ricordi e sensazioni, ho rivisto schegge di film scorrere di nuovo nella mia mente. In poche parole mi sono fatto prendere la mano, malgrado la consapevolezza che la teoria, qualsiasi teoria, non possa carpire la grandezza delle piccole cose e la parola riprodurne la forza. In conclusione è bello vedere che si può ancora cercare (e trovare) il cielo in una cantina (e, "il mondo in una goccia d'acqua" avrebbe detto Tarkovskij). Lascio le ultime righe a quel momento in cui pare concentrarsi/catalizzarsi tutta l'emozione del film: mentre ascoltiamo "Ragazzo solo, ragazza sola" di David Bowie (versione italiana, su testi di Mogol, di "Space Oddity" che sarà inserita nel finale) Olivia stringe tra le sue braccia Lorenzo, cantando le parole della canzone. L'uso che fa Bertolucci di questo brano è semplicemente fenomenale: rivelazione di cuori che non possono essere più scalfiti, di porte aperte e sofferte, di un abbraccio che uccide la solitudine, che raccoglie e guarisce (?) in una stretta tutto il dolore.
Che bellezza, che potenza in questa nuova opera prima.

Ora ragazzo solo dove andrai
La notte e' un grande mare
Se ti serve la mia mano per nuotare
Grazie ma stasera io vorrei morire
Perché sai negli occhi miei
C'è un angelo, un angelo
Che ormai non vola più che ormai non vola più
Che ormai non vola più