sabato 26 aprile 2014

Icariana




"Cosa aveva potuto vedere e sentire quest'uomo che per la prima volta aveva spiccato il volo?"
(Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo)

Volare prima del tempo con un pallone aerostatico.
Dimenticare il peso della Terra.
Infine cadere.

Alla riva di un fiume un cavallo si rotola a terra.


L'Italia che non c'è più:
Porte aperte di Gianni Amelio




Oggi, probabilmente, fare un film come "Porte aperte" in Italia sarebbe molto difficile, se non impossibile. Per motivi socioculturali certo, per colpa di decenni di annichilimento spettacolar-televisivo, per il fatto stesso che la tentazione della superficie, dell'inchiesta facile e faziosa, del giudizio travestito da umorismo conciliatorio prenderebbe il sopravvento. Si dimentica la fragilità dell'uomo, anche - e soprattutto - dell'individuo di potere, una fragilità che immediatamente diventa forza. Non per niente "Porte aperte", forse uno dei più lucidi e bei film di Gianni Amelio, cita la morte vista in faccia da Dostoevskij, quel plotone di esecuzione, quell'istante sospeso e poi bloccato (e "L'Idiota" ne riporta tutte le fratture). Ma non è solo una questione di fragilità, è un fatto primariamente di sguardo. Lo sguardo di Amelio (di allora) era quello di chi credeva nella tensione morale, nel conflitto e nella passione civile, ma soprattutto in un cinema onesto che negasse completamente qualsiasi tentazione spettacolare: il cinema morale e ascetico di chi amava raccontare le cose in maniera sobria ed essenziale.
E poi c'era Gian Maria Volontè, volto imploso di un'Italia che non c'è più.

Prima del buio
Lo sconosciuto del lago




E' un piccolo miracolo che un film come "Lo sconosciuto del lago" riesca a trovare distribuzione in Italia, grazie alla Teodora Film.

L'opera si inscrive perfettamente all'interno di quella strepitosa riflessione hitchcockiana sulla suspense e sul principio d'identificazione: ciò che interessa a Alain Guiraudie è prima di tutto il punto macchina, l'al di qua da dove parte uno sguardo che coinciderà esattamente con quello del protagonista.
Questo principio, empatico-associativo, ha il suo climax nella scena dell'omicidio in mare: ci ritroviamo in un campo lungo che evidenzia subito l'inevitabile distanza e la totale, colpevole impotenza nei confronti di ciò che si vede. Impotenza del protagonista di fronte a un omicidio, impotenza della macchina da presa, colpevole di non potersi avvicinare, di non poter vedere meglio, impotenza dello spettatore che si ritrova a guardare, coltivando dentro di sè sensazioni ambigue d'orrore e insieme di attrazione.
Principio voyeuristico estremo dove l'atto sessuale ricopre immediatamente la duplice funzione di espiazione e colpevolezza. La pulsione di morte diviene così l'ipotesi di un godimento estremo, di una passione che non può essere repressa o ibernata.

Lentamente le ultime luci del crepuscolo svaniscono e il protagonista rimane una sagoma sottoesposta, risucchiata dall'oscurità. Non resta altro da fare che chiamare, invocare, desiderare il nome di quell'assassino-amante, che gli potrà concedere il suo fatale amore.


Gravity senza gravità




"Gravity" senza gravità: la cosa che più rimane del film di Cuarón è l'effettiva mancanza di un supporto, è l'idea di un cinema che è arrivato finalmente a pensare se stesso senza bisogno di alcun suolo, come a dire che rimane (solo) l'universo. In questa coreografia di corpi che danzano nello spazio, si perdono, si ritrovano, il momento più alto è quel primo piano-sequenza dove si trova già tutto il film. Nel suo coniugare spazio e movimento, nella sua immersione 3D (il migliore, a livello spettacolare, dai tempi di Avatar), si ritorna a un tempo reale, a uno spazio visitabile, percepibile, eppure oscuro. Svanendo nel buio la macchina da presa è libera di fluttuare (per ritrovare poi un altro sguardo, solitario, instabile ma vitale), tornando prima a una posizione fetale, e poi a una nuova, primordiale rinascita. Poco importa il tasso di prevedibilità del film, questo è puro cinema antigravitazionale.

Libere ricognizioni spielberghiane del giorno dopo




(in seguito all'ennesima visione di "Duel", girato da Steven Spielberg appena 24enne, in soli 16 giorni di riprese).

Pensando al cinema di Spielberg come alla storia di un individuo braccato dal mostro (o dal mondo-legge-società-potere-gente o, semplicemente, dall'altro).
Che poi già c'era in quell'autocisterna la bocca famelica del dinosauro o le fauci dello squalo che non potevano fare altro che ingurgitare ed ingurgitarci. Del resto non rimane altro da fare fuggire via, volando in bicicletta ad altezza della luna, lontani dal mondo degli adulti che ha (ancora!) paura degli extraterrestri e che ha dimenticato come si vola. Che poi, infine, già "Duel" era "Prova a prendermi": ma in macchina la preda era terrorizzata perché dietro ad essa tutto poteva essere, ma non c'era possibilità di capire, comprendere, si poteva solo correre ed agire (perché ancora la paura aveva un senso, verrebbe da dire). Molto prima di una caccia al ladro che (in realtà) non avrebbe mai avuto fine. O forse sì. Sospesi in un terminale, a un passo da quel Nuovo Mondo, terra di sogni e di rimpianti, mentre si osservano gli aerei che volano via diretti verso il cielo.

domenica 20 aprile 2014

Spielberg sulla strada: Sugarland Express




Insegne stradali, stazioni di benzina, cortei di macchine della polizia che sembrano quasi scortare dei Bonnie e Clyde ribaltati: nessuna rapina, nessun furto, semplicemente il desiderio di poter ristringere tra le braccia il proprio bambino. Steven Spielberg prosegue il suo viaggio nel road-movie americano dopo "Duel" con quello che fu il suo vero esordio cinematografico: "Sugarland Express" rimane ancora oggi uno splendido film in grado di raccontare la perversione del sogno americano: innocui fuorilegge che diventano star, modelli politici in un mondo (già) transmediale, in un surrogato di realtà che è regno del grottesco e dell'improbabile.
Che la strada sia la metafora di un intero Paese è sempre stato chiaro. Che Steven Spielberg, giovanissimo, avesse già confermato quel senso innato di ritmo e di affabulazione che gli è sempre stato proprio risulta ancora pià evidente. Con un senso del ritmo vertiginoso, condito di gag e situazioni improvvise, canzoni e battibecchi, proseguono le strade di quella New Hollywood selvaggia, tra "Easy Rider" e "Badlands", memorie degli insegnamenti della "Gangster Story" di Penn: con quel tocco di spielberghiana leggerezza, con una Goldie Hawn innocente, giovane e bella, un po' matta e stralunata, e uno straordinario Ben Johnson, capitano umanissimo e contrariato.
Fino ad arrivare a un finale memorabile: unica risposta possibile a "Duel" e perfetta anticipazione di un'intera carriera (l'anno seguente sarebbe arrivato "Lo squalo": il resto è Storia).


Il ritorno di Jia Zhang-Ke:
Il tocco del peccato




Scorrono davanti agli occhi le immagini de "Il tocco del peccato" di Jia Zhang-Ke e un pensiero fisso veicola ogni luce, ogni primo piano, ogni efferatezza: l'idea di un male extra-ordinario che esplode come furia improvvisa e non sente ragione alcuna, perché alimentato dal quotidiano, perché strutturalmente incontinente, perché impossibile da controllare o mediare. I quattro personaggi che formano i rispettivi episodi del film di Jia arrivano a un punto limite, a un momento di massima tensione. Quell'istante è un attimo assoluto, un punto zero o di non ritorno, in cui si infrange il comandamento, in cui si smette di essere uomini (o forse, in cui si è uomini all'ennesima potenza). Furie omicide che hanno abbattuto la legge perché il mondo le ha calpestate, che cercano una catarsi impossibile macchiandosi del sangue altrui. La distruzione come (ultima) via di un violento, traumatico risveglio.
Sorprendente è allora l'anomalia, la diversità, il guizzo inatteso del finale del quarto episodio, formidabile nel suo disattendere le aspettative, nel suo calare il sipario nel momento stesso in cui la protesi - l'arma con cui ognuno dei personaggi uccide - pareva lanciare una nuova strage. E invece in una Cina sotterranea, robotizzata, sempre sul punto di detonare, il massacro più grande è quello nei confronti di se stessi. E se anche gli animali si suicidano, allora il quarto episodio è la chiosa terribile, politica e dolorosa, di un intero Paese.


Incubi virtuali: Project X




"Project X" ovvero cronache di una catastrofe dello sguardo.

Prequel ideale di "Spring Breakers": si trova a un passo dall'abisso koriniano, ma a porte aperte e in caduta libera. Si potrebbe quasi leggere come "ciò che è avvenuto prima", come il momento stesso in cui qualcosa è sfuggito dal controllo ed è cambiato per sempre. Il punto oltre della festa, l'eccesso liberatorio svuotato di senso e di obiettivi, completamente ricondotto al nulla più abissale, al puro, inutile, annientamento. Non ancora un videgioco ma una video-festa come esperienza di incontrovertibile e ludico nichilismo. Prima della marcia funebre e pop koriniana le avvisaglie di un lasciarsi andare, di uno sprofondare abissale della morale, si trovano in questo party epico e allargato a dismisura. Ecco perché "Project X - Una festa che spacca" (e il sottotitolo italiano, per una volta, è geniale nel suo travestimento semantico) mi pare un film profondamente inquieto perché racconta la detonazione di uno sguardo ( "Spring Breakers" mostra invece l'oltre: lo sguardo già detonato, già privo di morale, di futuro, di passato, ma anche di presente: ovvero, in una parola, di tempo). "Project X" si configura allora come punto di non ritorno per un intero genere cinematografico, il teen-movie, che assume la faccia ambigua di un destino, di un annegamento progressivo e inevitabile.
D'altronde l'uso del found footage, traslato da contesti horror/apocalittici, destabilizza la teen-comedy trasformandola in un viaggio eccedente, iperbolico e, per l'appunto, di sola andata. Perfino il finale che in molti hanno letto come dolciastro e conciliatorio, mi pare terribilmente e cinicamente ironico nel suo farsi beffe di un'intera tradizione. E quel "tratto da una storia vera" non fa altro che rendere ancora più interessante quest'operazione lucidissima e disillusa di Nima Nourizadeh.

Ecco dunque le deflagrazioni in atto: incubi virtuali di un American Pie posseduto e fuori controllo.


Vuote superfici: American Hustle




Che "American Hustle" sia l'ennesima parabola sul sogno americano, dalla patina scintillante e seducente, dove costumi, scenografie, colori contribuiscono a rendere accattivante il gioco visivo, è fin troppo evidente. E' come sentire un retrogusto scorsesiano dove però manca completamente il cuore, l'interno del guscio, la sostanza oltre la superficie.

"American Hustle" è un'opera che nel suo essere così nevrotica e sopra le righe si rivela in fin dei conti unidirezionale, piana e monocorde: il suo problema più grande mi pare la gestione del ritmo, il susseguirsi di tempi sbagliati, la sua impossibilità fisiologica di inseguire anche quache tempo morto, di spezzare l'azione, di creare suspense o almeno un orizzonte di aspettative. Si rifugia, invece, in un umorismo facilone che sbarca nei territori di un grottesco fin troppo calcato e studiato a tavolino. Il fatto è che tutto questo poteva durare novanta minuti, ma prosegue invece per più di due ore. Davanti agli spettri di un altro cinema che si vorrebbe rievocare, l'operazione di David O. Russell si rivela sterile e perfino noiosa, troppo lunga, ma soprattutto troppo piena di sé.

Questo, a mio avviso, testimonia come Russell, ancora una volta, sia notevole a colorare la patina delle immagini, ma non riesca a gestirne il flusso, il ritmo, il tempo, condannando lo spettatore a essere testimone passivo di un giochino freddo e iperprogrammato. A questo punto preferivo i tempi di "The Fighter" dove, Russell era meno ambizioso, si trascinava in una storia che più derivativa non si poteva, ma riusciva almeno a fare buon cinema.

p.s. sarebbe ingiusto però non sottolineare almeno un aspetto notevole del suo lavoro: la gestione di una squadra d'attori in ottima forma (Jeremy Renner e Jennifer Lawrence su tutti) dove perfino Bob De Niro si ritaglia un ottimo cameo.



Rivedo le lacrime amare di Petra




rivedo le lacrime amare
e allora penso
che amare è già possedere,
e riconoscersi nell'altro
verso una nuova forma di schiavitù
verso un nuovo rapporto di potere.

Libidine internata in quella casa
abitata da piacere e dolore.
Desideri chiusi in una stanza,
mondi di feticci mai abbandonati
che son punti di vista
che sono occhi puntati
sull'amore di sé,
sull'amore per sé,
fino a che il mondo non crolli
e non si piangano lacrime amare
e, con parole di gentilezza,
si lasci fuggire la sola, unica donna
veramente amata.

(che film crudele e magnifico Le lacrime amare di Petra Von Kant)

venerdì 18 aprile 2014

Sul flusso prorompente dell'azione
Miami Vice di Michael Mann




L'impressione è che Michael Mann con "Miami Vice" si diriga sempre di più verso un'immagine e un montaggio astratti, verso un cinema di sensazioni sempre in bilico tra campo e fuoricampo. Nel punto liminale dove l'adrenalina si fa canto d'amore nei confronti dello scorrere del tempo, di cose e situazioni, Mann sembra interessato al flusso prorompente, incessante dell'azione. Ma è anche capace di infiammarsi in parentesi sentimentali accesissime e completamente fuori controllo, in cui sono le notti, gli sguardi, le luci e i cieli della città, a fare e a dire il film.
Siamo nella direzione in cui la storia non basta, perché il cinema ribolle sotto ogni superficie, brucia la patina dell'immagine, fa detonare il luccichio degli abiti, delle automobili, dei gesti: ecco il motivo per cui "Miami Vice" dovrebbe sempre e comunque essere amato alla follia: perché in un mondo digitale salva il cinema, quello che Mann ha amato e non ha mai dimenticato.



Gli basta uno sguardo per suggerire mondi interiori e dilaniati, per raccontare altre storie oltre alla storia, che qui è puro, geniale pretesto. Ancora una volta si accendono strutture speculari, ritorna il tema del doppio tanto caro al regista di Heat, di Collateral, di Insider.

E', alla fine, un cinema di rime, risonanze, di sogni gentili e impossibili: in fondo Michael Mann rimane l'ultimo dei grandi cineasti romantici di Hollywood.

post scriptum Nel flusso dirompente dell'azione, poco dopo l'inizio di "Miami Vice", Colin Farrell si volta a guardare il cielo: sono soli pochi istanti, ma il film esce da se stesso, suggerisce un mondo che popola il sottosuolo di ogni immagine. In pochi secondi Michael Mann riesce a entrare in mondi segreti inseguiti ma raramente raggiunti da interi film.

Il procuratore di Ridley Scott
In preda agli squilibri




Vedendo "Il procuratore", l'ultima fatica di Ridley Scott, regista tanto affascinante quanto discontinuo, si ha come l'impressione di un evidente squilibrio, di un disinnescamento interno al genere proprio perchè "troppo" di genere, di una difficoltà a seguire piste e canoni già decodificati e continuare a farsi prendere sul serio: è come se "Il procuratore" fosse quell'oggetto filmico ambiguo e straniante che non può fare a meno di cadere nella parodia di se stesso. All'interno di un meccanismo che fa della prevedibilità il suo obbligo narrativo si spalanca davanti agli occhi l'assoluta non credibilità di quanto si vede, non perché gli eventi narrati dal film non abbiano una loro verosimiglianza, ma perché sono così ipernarrati da deformarsi, da pervertirsi fino ad annullarsi.
Insomma, era difficile vedere "Il procuratore" senza ricordarsi di stare vedendo un film; zero sospensione d'incredulità, puro, straniante gioco metacinematografico: dalla recitazione e dai volti glamour degli attori all'aderenza mimetica nei confronti delle figure archetipali di un intero genere: la femme fatale su tutti, così algida così cattiva così finta così Cameron Diaz da essere una macchietta priva di qualsiasi spessore. Viene il sospetto che non si tratti di un'operazione perfettamente consapevole perché Scott mi pare privo dell'ironia necessaria che necessita un film del genere, ma siamo (questo sì) in piena e superata ottica postmoderna, che ricicla e non reinventa, che fonde e insieme confonde. D'altronde l'eccesso di scrittura di Colman McCarthy plasma il film dall'inizio alla fine, rendendolo gioco letterario fine a se stesso, sì virtuoso e vacuo, ma anche efficace e paradossalmente esilarante.



The Girlfriend experience




Io continuo a dirlo: che regista strano, famelico, multiforme, travestito, è Steven Soderbergh. Quando ormai sospetti di aver inquadrato il suo cinema, costruito di false piste, macguffin e retrovie, ti trovi di fronte un film come "The Girlfriend Experience" e sei costretto, ancora una volta, a ritrattare, rivalutare, riformulare la poetica e il mondo di quest'autore.

Perché non appena pensi, dopo la visione di film come "Effetti collaterali", "Magic Mike" o "Contagion", che Soderbergh sia un prodigioso bluffatore, teorico al 100 % di un'immagine ingannevole e di superficie, fredda, cinica se non clinica, allora incontri un film come "The Girlfriend Experience" e tutto questo non regge più (per non parlare del dolcissimo "Behind The Candelabra" che coglie nei trattamenti di chirurgia estetica l'ossessione narcisistica della pelle e riscopre, poi, perfino un'anima).



Dicevamo, "The Girlfriend Experience".
A discapito delle apparenze è un'opera di cuore, pruriginosa e insieme discreta nei confronti della sua splendida Sasha Grey, corpo attoriale perfetto, ferito sotto una maschera che sta ancora vacillando ma è sempre in procinto di cadere. Se è vero che il mondo che la circonda è opaco, squallido e materalista, lei, escort gentile, è una luce poco sospetta, bramosa di libertà e indipendenza, memore di un sentimento inestirpabile; è in grado perfino di riscoprire l'amore come una novella Principessa che vuole liberarsi dalla sue catene (la matrigna!) e ricominciare a vivere. Ci troviamo di fronte a un regista che se non può permettersi di credere a un'umanità spietata, riesce ancora ad aver fiducia nel singolo e nei suoi sentimenti: proprio come all'interno di una fiaba che, privata dell'happy ending, può almeno continuare ad attenderlo (e a sperarlo).

"The Girlfriend Experience" percorre le traiettorie di un cinema che è ormai (con)fuso con la realtà, interessato a fagocitare tutto, perfino i tempi morti, soprattutto i tempi morti. Un cinema che fa del superfluo l'ultimo ricettacolo del sentimento: conversazioni vane che non portano a nulla nel continuo ripiegarsi di un film che, comunque vada, prosegue. Esatto, è proprio questa la sensazione, che un'opera come "The Girlfriend Experience" non conosca arresto, non possa interrompersi, ma semplicemente, inevitabilmente continui (al di là dello spettatore, al di là del regista stesso, al di là del film). Privo di inizi o di finali, supportato solo dal girotondo dei sentimenti di una donna che esiste ed è ancora prima di apparire (quattro anni dopo sarebbe arrivato "Spring Breakers" di Korine dove, dolorosamente, il divario che separava l'essere dall'apparire, sarebbe caduto per sempre: sarebbe arrivato il virtuale).



lunedì 14 aprile 2014

discorrendo (lynchiana)




anticamere narrative che parlano di cinema, che parlano cinema e dove parla il cinema. O forse l'insieme di quelle linee sottili che stabiliscono il divario appena percepibile tra cinema e realtà. Vite che scorrono sul piccolo e sul grande schermo, come varchi d'accesso per infinite possibilità. Con "INLAND EMPIRE", una delle opere fondamentali del nuovo millennio, il cinema è tornato a casa, nel limbo del sogno e dell'irrazionalità, ma soprattutto nel regno della pittura. Una pittura consapevole della propria indifinitezza, incredibilmente capace di riflettere un reale frammentato, insensato, completamente fuori di sesto. Non esistono più letture univoche, i pixel hanno fagocitato l'immagine richiedendo a ogni spettatore di completare il film. Ecco che il cinema si riapre alle possibilità e a tutta una serie di infinite, singole esperienze.

"Un lac" di Philippe Grandrieux
L'occhio di un cavallo, la bocca di un ragazzo




"Un lac" è un film che trema
(e palpita, e sente, e gioca, e perfino teme).

Ogni sentimento, ogni singolo movimento, ogni ipotesi di umanità ritorna a pura, genuina, fragilissima autenticità. Un altro mondo fuori dal mondo per un'opera che si fa (s)oggetto guardante e misterioso, così personale da dichiarare ad ogni istante la sua stessa essenza. E' come un Ufo lontano da tutto e tutti, che racconta i giorni e le notti di una famiglia isolata che cammina lungo boschi innevati. E la macchina da presa di Philippe Grandrieux, frenetica eppure dolcissima, tenera e assieme epilettica, è il personaggio che non può rinunciare al suo movimento convulsivo, terrorizzato com'è da qualsiasi ipotesi di stasi. Uno sguardo interessato alle mani che emergono dall'oscurità, ai piccoli gesti che i nostri occhi atrofizzati avevano smesso di guardare, al fuori fuoco dell'immagine come scavo ipodermico e al terremoto che si fa proprium dello sguardo, sua componente intrinseca e necessaria. Quelle mostrate sono figure accostate all'inseguimento di nuove geometrie, che sono poi le forme del cielo e della terra, della luce e dell'oscurità, fino all'occhio di un cavallo e alla bocca di un ragazzo, protagonisti di uno spazio che sembra aver dimenticato il tempo.

Il gesto filmico di Wes Anderson
"Grand Budapest Hotel"




"Grand Budapest Hotel": al via la nuova giostra di Wes Anderson, ma questa volta, forse molto di più delle altre, si tratta di una giostra in grado di riflettere e ironizzare su se stessa, sulle sue capacità di controllo, sul suo tentativo di costruire un meccanismo perfetto dove niente è fuori posto, dove la frontalità, la simmetria, l'ordine di un libro illustrato o di un cinema che è sempre più animato, sono la cornice (e il contenuto stesso) di un intero mondo.
Mai come in questo film i personaggi erano apparsi così palesemente consapevoli del racconto e della finzione di cui fanno parte. Delle volte, nei dialoghi, emergono anche delle parole sull'affabulazione, sul ritmo interno, sui codici e sul fattore prevedibilità del meccanismo narrativo perfetto. "Grand Budapest Hotel" si trasforma così in un film sull'arte del racconto, su un'immagine che vorrebbe ordinare tutto, prevedere tutto, riordinare ogni tassello narrativo e non farsi mancare nulla. Ma questa, appunto, è solo un'illusione: come a dire, ogni personaggio si concede al gioco, ogni attore recita la sua parte, per giunta divertendosi un mondo. Di qui l'uso di volti noti, di autentiche icone, di caratteristi in grado di non essere i personaggi, ma di essere se stessi "prestati" al cinema di Anderson. Il "gioco", la simulazione, la concessione lo trasformano anche in un film sulla recitazione, sulla sospensione d'incredulità, sull'ironia di chi, in continuazione, riesce a ridere di sé e di ogni stilema narrativo possibile.



Anderson scava nella superficie strutturale del "giallo" per offrire una sua teoria narratologica, un suo gioco di specchi, che si dispiega subito come un inno ai mondi straordinari di un cinema che non esiste più (Lubitsch e ancora Lubitsch per sempre Lubitsch). Per ricreare quel cinema Anderson ha sempre avuto bisogno di confinarlo in geometrie ossessive, di radicalizzarlo all'interno di un meccanismo di controllo perduto, consapevole della propria perdita, cosciente sconfitto - ma non disilluso - dell'oggi: il mondo extraordinario dell'illusione e del controllo si trasforma in un'illusione di controllo. Perché più che un film raccontato al passato "Grand Budapest Hotel" sembra superare il tempo, in un meccanismo di scatole cinesi che trasforma l'Hotel nel centro geografico del cinema tutto dell'autore.
E mentre si succedono una serie di irresistibili figurine cambiano i formati, cambiano i colori, e il cinema andersoniano rivela la sua matrice essenzialmente nostalgica. La ruota e la giostra sono i codici che utilizza per tracciare il suo pensiero, le manifestazioni di un gesto filmico che ha bisogno della reiterazione per resuscitare i morti: basta pensare ai movimenti di macchina, che disegnano sempre le stesse figure, che tracciano sempre le stesse traiettorie.
E lo sguardo in macchina di Saoirse Ronan è un momento brevissimo, una chimera fuggevole in grado di soppiantare qualsiasi ordine e di ritornare all'occhio e alla visione, in una parola all'affezione.