giovedì 30 ottobre 2014

Errando sulle rovine tra Rossellini e Malick




Esalazioni di un mondo sopravvissuto alla catastrofe: "Viaggio in Italia" è sempre stato per me l'ultimo film, l'opera posteriore a tutte le altre, quella capace di camminare tra le rovine di un paese che si trova oltre la fine della Storia (la seconda guerra mondiale come guerra ultima, definitiva, inevitabile punto di non ritorno dell'umano). I personaggi erranti di Rossellini sono, non a caso, un Lui e una Lei, esili esistenze che vagano in terra straniera: nella speranza che il sentimento possa germogliare dall'aridità, che il fiore possa crescere di nuovo tra le rovine della Terra (e della morale). Con un salto avanti gigantesco, tanto audace quanto stimolante, i protagonisti di "To The Wonder" sono dei novelli Lui e Lei, non-esistenze in cui rispecchiarci, ipotesi di umanità che errano tra i resti dell'uomo. In ciò che viene dopo il cinema, non c'è più posto per psico-sociologie, rimangono gesti e movimenti, mappature di luoghi che possono sussistere anche (e perfino) senza gli uomini. La meraviglia è allora quel sentimento struggente e inquieto che ci dà movimento, ci mette in moto verso qualcosa di tragico eppur sublime, proprio perché irraggiungibile. Questi spettri erranti sembrano morti che camminano ben consci dell'impossibilità di un ritorno, di una rinascita, di un nuovo, auratico albero della vita. L'unico dono che esiste è allora un abban-dono (penso e ripenso che ogni uomo è la fragile testimonianza della sua sconfitta: ricordiamoci che "Viaggio in Italia" inizia con la domanda "Dove siamo?" a cui segue "Non te lo so dire") Sarebbe bello vederli insieme questi due film, farli lavorare l'uno nell'altro, indagarne i frutti, svelarne le tensioni e, forse, riscoprirne l'insospettabile compattezza.

mercoledì 29 ottobre 2014

I pericoli delle funzioni narrative
Class Enemy di Rok Bicek




Cinema didattico come si faceva una volta che, nonostante il difficile tema trattato, riesce a mantenersi in equilibrio per tutta la durata, senza mai scivolare nella retorica o nella melassa dei buoni sentimenti. Con una messa in scena algida e completamente al servizio della narrazione, l'opera prima di Rok Bicek sa essere asciutta e rigorosa almeno dal punto di vista registico. Dove cade è in un certo schematismo di fondo che delinea un po' tutti i personaggi: figure che sono troppo spesso trattate come funzioni narrative tagliate con l'accetta. Basti pensare alla sequenza dei genitori - troppo stereotipata per esser credibile - o alla costruzione del protagonista stesso del film. Il professor Zupan, come gli altri personaggi, è già un programma, privo delle sfaccetature e delle complessità che un'opera morale come questa dovrebbe possedere. Di conseguenza "Class Enemy" è un film solo in parte riuscito, e lascia l'amaro in bocca perché - tra una sequenza e l'altra - pare di poter scorgere il film che avrebbe potuto essere e che, purtroppo, non è.

Restauri del cuore
Operazione paura di Mario Bava




E' stata, senza dubbio, una delle esperienza più memorabili del festival del cinema di Roma 2014: mi sembrava di tornare bambino alla corte di terribili spettri e antiche maledizioni. Conserverò sempre l'esperienza memorabile di vedere "Operazione paura" di Mario Bava restaurato su grande schermo. Dalle grida iniziali che ci gettano già nel torpore di un incubo, al tetro, distorto finale che più che a un happy end assomiglia all'impossibilità fisiologica di un vero risveglio; dagli zoom strepitosi che sembrano proiettili sparati dallo sguardo, alla macchina-altalena che ci avvicina e poi ci allontana, senza mai permetterci di avanzare realmente. E come dimenticare poi quella palla, iconica e leggendaria per qualsiasi amante del cinema horror, che rimbalza sulle scale lanciando lo spettatore all'interno di una vera e propria vertigine senza fine? Gloria a Mario Bava, gloria a questa rassegna sul gotico italiano e - a questo punto - gloria a Joe Dante, "maestro di cerimonia" e perfetto introduttore del mondo da cui è nato il suo cinema.

La morte spiegata ai bambini
Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet




Con mia grande sorpresa - poiché non apprezzo affatto il cinema confezionatissimo dell'autore di Amélie - l'ultimo film di Jeunet l'ho trovato un piccolo gioiello. Probabilmente il regista ha trovato il suo terreno più congeniale nel road-movie avventuroso per bambini, nel viaggio iniziatico che mette fine all'infanzia. Il suo film è curioso nel raccontare a un pubblico giovanissimo temi arditi come la morte o come, in maniera ancora più esemplare, l'esibizione mediatica di una singola esistenza. E' un film che scorre delicatamente, tra scenari meravigliosi e splendide sequenze che avrei voluto vedere da bambino: nel suo viaggio negli USA ha perfino il coraggio di deridere esplicitamente l'immagine degli americani, spettri luccicanti e velenosi che avanzano nel regno dell'apparenza. Scritto assai bene, senza lungaggini o invasioni musicali, il film di Jeunet mette in scena perfino una sequenza "oscena" agli occhi di un bambino, ma che, grazie alla sua stessa struttura narrativa,viene metabolizzata in modo esemplare. Poi, certo, il suo rimane un cinema sempre uguale a se stesso, così tanto innamorato della bella immagine da rischiare sempre di depotenziarsi. Eppure..

Lulu di Luis Ortega




Opera che gira a vuoto per tutti i suoi ottantaquattro minuti di durata, e - badate - questo non è da leggere assolutamente come un problema. Nel suo non avere direzioni, nel suo "perdersi" insieme ai due protagonisti, "Lulu" è un oggetto filmico affascinante e seducente. Peccato solo che il gioco funzioni per la prima parte del film, finendo per diventare stucchevole man mano che avanza. Alcune sequenze mi facevano ripensare a "Les amants du Pont neuf" del mio amato Carax,per un certo modo di muoversi e di agire nello spazio, per una certa furia distruttrice propria della coppia di protagonisti. Ma qui quello che manca è la vitalità dirompente e devastante del vagabondaggio, la forza, l'irruenza, ma soprattutto la vita. Alcune sequenze sembrano troppo costruite per crederci realmente, e alla fine si finisce a osservare un film sbiadito che, paradossalmente, caccia all'infuori di sé la realtà stessa dei suoi personaggi. All'ennesimo balletto della protagonista capiamo direttamente che c'è una troupe che la sta filmando, e questo, in un film del genere, non va affatto bene. Un peccato, anche perché l'aspetto più interessante di Lulu è proprio come Ortega filma la città e i non-luoghi metropolitani: un regno di solitudine e spaesamento infinito, che può essere ricomposto e riformulato solo da chi ha sempre vissuto ai margini della società.

domenica 26 ottobre 2014

Last Summer mi ha fatto piangere




Nel caos onnivoro e chiassoso che ci avvolge, nella masnada di immagini che sommerge ogni spettatore contemporaneo, la visione di "Last Summer" si rivela un potente collirio, una gentile e benefica medicina che ci avvolge in un cinema che pare "straniero", come se fosse un Ufo piombato in Italia.
Il film di Seràgnoli, giovane esordiente italiano, è un'opera che respira gran cinema inquadratura dopo inquadratura. L'aspetto più sorprendente è la sua stessa idea di tempo cinematografico: ogni immagine ha una sua durata interna, una sua geografia che pare costruire la mappa emotiva dei protagonisti. La musica non invade mai l'immagine, tranne quando viene necessariamente evocata (come nel finale): un'idea di cinema purissimo, ascetico, minimale, che rispetta il suono e l'attore, che s'innamora di un gesto, di un movimento, e riporta ogni elemento allo sguardo e alla luce. Con un rigore quasi sconosciuto, la storia si riduce a un rapporto negato, a un incontro madre-figlio dopo tanti anni di distanza. Tutto il film di Seràgnoli racconta l'avvicinamento progressivo di due corpi, illuminando ogni sottigliezza, ogni piccolo gesto, ogni singolo particolare come se si trattasse di un climax improvviso. Tutto è in primo piano, nella dimensione stessa in cui non avviene nulla d'importante, nulla di davvero narrativo: per questo ci si ritrova a navigare solitari in un mare di sospensione. Ma il nostro sguardo, solo, difettoso e sconosciuto, cerca di fissare un punto fermo, quel controluce che ci illumina e ci fa innamorare (il controluce segreto che nasconde perfino il volto più austero).



Penso e ripenso alla sequenza più bella del film, quella dolcissima in cui madre e figlio si riconciliano durante l'ultima notte: una luce che ricordo caldissima, quasi infuocata (non importa se poi non lo era davvero), primissimi piani che bucano lo schermo, rivelando l'oceano di tenerezza sconfinata che è nascosto dietro ogni viso. In quella sequenza straordinaria Seràgnoli scopre quel volto negato che non fu mai conforme alla faccia, mentre sonda la verità di un sentimento naufragato.
Negli slittamenti emotivi, nelle mani che si sfiorano, nel sorriso di un bambino, negli occhi di una madre: "Last Summer" è "solo" questo, ma in questo "solo" c'è più cinema, più amore, più passione che in tre quarti nella produzione cinematografica nostrana.
Inoltre l'ambiente in cui è ambientata tutta la vicenda completa perfettamente il senso del film: una barca in mezzo al mare che conchiude e insieme svela tutte le potenzialità di un affetto. Gli occhi lanciano lo sguardo verso l'orizzonte, l'espressione si tinge di malinconia, i limiti di una relazione superano i recinti di una struttura navale.

post scriptum necessario e al di fuori di ogni presunta, stupidissima oggettività: "Last Summer" mi ha fatto piangere. Di conseguenza nessuna ricognizione critica, nessuna parola, sarà mai sufficiente a "dire" ciò che provo. Non posso fare altro che consigliarlo, visto che il film avrà anche una distribuzione in sala.

Mai lo stesso film
A Girl Walks Home Alone at Night




Rimango sempre più convinto dell'esperienza irriducibile della visione, della magnifica evidenza che nessuno veda mai lo stesso film, che non esistano due visioni uguali, nemmeno se a farle è la stessa persona. L'unica vera critica cinematografica possibile è quella che ammette che un film è ciò che scava nel pensiero, un lavorio continuo ed esperienziale che prosegue anche dopo i titoli di coda. Le sue immagini si sovrappongono alle nostre, a quelle del nostro passato e del nostro presente, ci muovono e, nel migliore dei casi, arrivano addirittura a scoprirci. Non che il film visto ieri sera abbia fatto questo, ma quantomeno ha smosso le acque, ha rischiato, ha rifiutato qualsiasi facile catalogazione, è riuscito a risultare sgradevole e, un momento dopo, seducente.
Pensavo a queste cose durante la visione di "A Girl Walks Home Alone at Night" perché mi rendevo conto dei movimenti inquieti che mi agivano, dell'impossibilità di una sintesi, di un'opinione finale su questo film. Che è un horror ma è anche un western, che è un pulp ma è anche una storia d'amore con tanto di vampira. All'inizio ero come infastidito da quell'ennesimo bianco e nero stilizzato che fluiva davanti ai miei occhi, poi il film ha preso un'altra direzione, ha cambiato pelle, si è avventurato in territori imprevisti. Ed è tornato ad affascinarmi, per poi bloccarsi, e poi tornare di nuovo a turbarmi.
Due corpi, una stanza, un contatto fisico, poco altro. E subito mi rendo conto che un film che non riesce a mettermi d'accordo è, necessariamente, un film interessante: non importa se poi sia riuscito o non riuscito. All'infuori delle categorie di gusto, Ana Lily Amirpour propone un oggetto filmico mutante e imprevedibile, che ha il grande pregio di assorbire, unire, violentare codici narratologici lontani. E questo, mi pare, non è poco...

Sull'immagine che vince la giustizia
Gone Girl di David Fincher




In un festival del cinema di Roma che prosegue in modo piuttosto mediocre, dove ciò che eccelle è la miracolosa furia di un grande regista (Miike con "As The Gods Will") e la struttura minimale e dolcissima di una nuova scoperta (Seràgnoli con "Last Summer), mi imbatto improvvisamente e inaspettatamente in quello che, per una volta, senza troppi preamboli o discorsi, è un autentico capolavoro. Non ho mai straveduto per David Fincher, con la felicissima eccezione di due film adorati e importantissimi quali "Seven" e "Zodiac". Ma "Gone Girl" è qualcosa di davvero incredibile. Formulando un postulato, si potrebbe dire che "Gone Girl" sta agli anni '10 come "Seven" agli anni '90 e "Zodiac" agli anni zero.

"Gone Girl" è un thriller. E già questo è un dato di fatto, non un'etichetta appiccicata a posteriori, ma un thriller autentico a livello strutturale. Opera dalla scrittura eccelsa, lavora su una pista narrativa che, nei suoi innumerevoli snodi, viene continuamente ribaltata: ogni coup de théâtre viene portato fino al suo parossismo, il verosimile vince continuamente il reale, in un duello dove la posta in gioco sono le leggi stesse del racconto cinematografico. Siamo in un Alfred Hitchcock esponenziale che è, soprattutto, riflessione narratologica squarciata nello stesso atto di farsi e disfarsi del film. Ma, per una volta, la struttura non cristallizza l'opera, non la blocca in un prodotto di puro ingegno, ma, con il veicolo mediatico (vero protagonista), la trasforma nell'incubo deforme della famelica, onnivora società delle immagini. La favola posticcia generata dal regno dell'apparire duplica il film in una serie di doppi che si incrociano, si scontrano, e poi, improvvisamente rinascono. Dalla protagonista, se stessa ma anche, e soprattutto, suo alter-ego letterario, a ogni gesto, atto o movimento, che sdoppia mediaticamente il soggetto. I protagonisti del film sono scissi, frazionati, spaccati, lontani da una qualsiasi unità identitaria.



Fincher getta i suoi mostri in un abisso teorico popolato di spettri narrativi, false piste e retaggi di un altro cinema (di un altro mondo). Lavora sul punto di vista ribaltandolo in continuazione, slittando dai dettami della sorpresa a quelli, hitchockiani, della suspance. Si ha quasi l'assurda impressione che altri film s'insinuino lungo le retrovie della narrazione, per deragliarla dall'interno, mentre il ritmo procede incalzante come mai, svelando tutta la sua folgorante imprevedibilità. Tra sequenze da manuale e momenti bellissimi, incrostati entro la patina dell'inquadratura, avanzano uomini deificati a star. Del resto aver usato un attore celebre per la sua inespressività, come Ben Afflek, si rivela una mossa geniale.

Ma, cosa più importante di tutte, Fincher firma il suo apologo sull'immagine che vince la giustizia. E in questo è davvero un film importantissimo.

Já Visto Jamais Visto di Tonacci
Quando le immagini fanno l'amore




Le immagini di una vita esplodono sullo schermo, come forze eterogenee che si sovrappongono, si sfiorano e finiscono per fare l'amore. I cinquanta minuti del film di Andrea Tonacci su Andrea Tonacci sono quelli più elevati, incredibili e cinematografici visti non solo al festival di Roma ma in tutto questo 2014 di visioni (almeno insieme ai venti minuti scarsi che compongono lo straordinario "O Velho do Restelo" di De Oliveira visto a Venezia). Se è vero che il cinema è flusso organizzato di pensieri proiettati su grande schermo, l'opera di Tonacci è l'intagliatura progressiva, asistematica di un magma d'immagini mentali e ribollenti. Il montaggio si rivela scrittura di un'emozione, dove Tonacci orchestra le inquadrature mai viste di un'intera vita. Ciò che gli interessa è tutto ciò che è liminale, o, ancora meglio, il fuoricampo del pensiero, l'immagine scartata e mancante. A rendere monumentale il suo film è una sorta di costruzione asimmetrica di un archivio ideale, con cui poter ricostruire il mondo - o l'altro mondo, quello non assimilabile all'interno di qualsivoglia cornice. Alla ricerca del tempo perduto, dell'immagine lontana e negata, perfino del video delle vacanze, per poter edificare la danza dimenticata della luce (o, se volete, quell'enorme edificio della memoria di cui scriveva Proust). Un fluido passaggio di frammenti che agiscono come per effetto di una memoria involontaria. Sono le immagini le uniche in grado di costruire una cinestoria parallela: dei pesci si sovrappongono agli alberi e al cielo, mentre noi, occhi spaesati alla ricerca di un cuore, percorriamo lo schermo come fosse una distesa infinita. Le sovrimpressioni e le dissolvenze svelano il segreto inconfessabile di un'immagine-matrioska. Sbirciare all'interno della matrioska e perdervisi, questa è la sensazione che restituisce "Já Visto Jamais Visto".

Quando il cinema ti respinge:
Lucifer




Formato Tondoscope che suggerisce immediatamente l'idea di un grande occhio che tutto osserva. L'operazione di Gust Van den Berghe è pretenziosa fino al midollo, condotta con la presunzione di chi vuole controllare e gestire lo sguardo dello spettatore, negandogli qualsiasi possibilità di fuga. Tutto è orchestrato fino al midollo e l'impressione di un'immagine completamente chiusa in se stessa, respingente, mi insegue dall'inizio alla fine del film. Temi giganteschi urlano con voce altisonante, sfoderando un misticismo di fondo che svela subito tutta la sua inconsistenza e futilità. Un cinema che non sprigiona alcun senso di sacro, ma solo la costruzione esasperata di un effetto: lo stesso formato che rende il film oggetto d'interesse si rivela in realtà una copertura furbissima per nascondere una notevole carenza d'immaginario, come se "Lucifer" in fondo non avesse nulla da dire. Anche dal punto di vista registico solo alcune inquadrature appaiono pensate per questo formato circolare, mentre altre sembrano addirittura posticce. Si può anche rimanere suggestionati, ma è il senso d'insieme che viene a mancare. Ed è proprio questo "Lucifer", osannato da molti al festival di Roma, a rivelarsi una delle delusioni più cocenti e irritanti dell'anno.

Disegnatori di luce
The Salt of the Earth




Il miglior modo per iniziare un film su un fotografo è ritornare al senso della fotografia, alla sua radice etimologica. Così parte il film di Wim Wenders: il fotografo è colui che disegna con la luce, e Sebastiao Salgado è sempre stato un disegnatore del mondo: l'immagine che esce fuori di quest'uomo è prima di tutto quella di un avventuriero, di un esploratore della natura e dell'animo umano. Sembra quasi il personaggio di un film di Werner Herzog. Wenders, diversissimo dal suo connazionale, realizza un'opera in cui a parlare è il lavoro stesso di Salgado. Una carrellata di fotografie e una voice over che pare restituire all'immagine fissa tutta l'idea di plasticità e movimento propria del cinema. A volte interviene Wenders stesso: il suo filmare qui è il tentativo di dialogare, fissare lo sguardo, incrociare gli occhi stessi di Salgado. Tutto il film è l'ipotesi di un confronto, la condivisione di una luce, l'habitat di uno stesso spazio ideale.Che due opere, quella di un regista e quella di un fotografo, possano fondersi in un unicum, dipanandosi nella fluidità del dolore, nella sconfitta di un'umanità troppo crudele per essere al mondo, ma anche nello sguardo rivolto verso una possibile, luminosa rinascita.

Movimenti della Storia
Angels of Revolution




"Angels of Revolution" di Aleksej Fedorcenko. Opera che finisce per vanificare qualsiasi tentativo di scrittura o di critica, facendoci sentire davvero inadeguati. Esperienza di pura visione, dove la sfera morale entra all'interno di quella estetica dalla porta principale. Film che ammutolisce, perché così stratificato e complesso, da richiedere immediatamente una seconda visione. Con un talento visionario in grado di orchestrare quella che è, a tutti gli effetti, la storia di un'invasione, Fedorcenko mostra una civiltà che può sopravvivere solo grazie alla forza, e non, come si vorrebbe, grazie alla bellezza. Altrimenti, come accade nel film, è destinata a soccombere. La neve viene macchiata dal sangue e il movimento della Storia si rivela brutalmente quello della violenza (l'arte retrocede davanti alla furia degli uomini). Alla base di una nuova realtà c'è sempre una civiltà che s'impone su un'altra, cancellandone le tradizioni e assorbendola nella sua idea di Stato.
Il cinema qui è strumento d'invasione emanato come proiezione celeste: nuova, imperante arma di una civiltà che non crede negli spettri degli dei ma solo in quelli degli uomini.
L'atto delle visione ribolle in ogni inquadratura, portandoci lontano, frenandosi solo in un finale che rischia la didascalia esplicita dell'evidenza (come mi sarebbe piaciuto se Fedorcenko avesse chiuso il film tagliando la sequenza finale). Ma è cosa assai opinabile e non poi così importante, perché quello di Fedorcenko appare subito per ciò che è: forse non tanto il film abissale che avrei desiderato ma, di certo, un gran film.

Os Maias - (Alguns) episòdios da vida romantica




Inizia nel bianco e nero di fotografie, oggetti e vestiti che raccontano un'intera esistenza, prosegue con una velocità di racconto folgorante, per poi prendere colore e portarci nel cuore del film. Cinema lontanissimo e seducente, che apre il suo sfondo a fondali dipinti. Pare quasi di trovarsi all'interno di un mondo bidimensionale, di un enorme teatro gestito da un magico alchimista del racconto, da un regista stregone che può distorcere le inquadrature come fossimo nel peggior incubo faustiano-sokuroviano. Per tutta la sua durata il film è dominato da una pulsione di morte, attratto dall'oscurità che, da sola, può mettere fine al tempo della narrazione. La morte è infatti annunciata da un lampo di luce, segno premonitore che cristallizza tutta l'azione nell'attimo - bellissimo e irripetibile - in cui la vita si stacca dal corpo di chi la possiede.
Il film di Botelho è il miracoloso apologo di un cinema che resiste a ogni velocità percettiva, a favore di un ritmo concentrico, abissale e distruttivo, che finisce per disintegrarsi all'interno dell'inquadratura stessa. Ogni immagine è la sua medesima dissoluzione, quale carica elettrica dolorosamente cosciente di doversi spegnere. Così i personaggi, i loro affetti, le loro disavventure, le loro affezioni: tutto affonda nel baratro inarrestabile che li conduce verso il gorgo del nulla. Tutto continua, nella maledizione di un tempo crudele che ha rinunciato da sempre a fermarsi.
Mentre si osserva il film, con gli occhi incollati allo schermo, si ha quasi l'impressione di "vedere" uno di quei grandi romanzi ottocenteschi bagnati di luce e movimento. Come se fossimo in un film di De Oliveira, con lo stesso rigore formale e la stessa idea di un cinema rigorosissimo: quasi nessun movimento di macchina, ma inquadrature fisse, piani a due, qualche campo e controcampo. In questa semplicità, propria solo dei più grandi, Botelho ritrova tutto il segreto del cinema più elevato. Banale dire che è uno dei film-oltre di un festival mediocre, necessario dire che si tratta di una delle visioni più abissali di questo 2014.

Nightcrawler




Esordio che rivela il talento registico di Dan Gilroy, nome su cui puntare per il futuro del cinema americano. Il film ha un primo tempo davvero folgorante: quando la teoria è al servizio della narrazione, in un'opera sulla cattura famelica di immagini rubate, che supera qualsiasi idea di morale e affonda nella follia della civiltà delle immagini. L'aspetto più interessante è proprio come il protagonista, filmando omicidi brutali o incidenti devastanti, incominci da solo a prendere coscienza del mezzo. Da voyeur amatoriale apprende poco a poco l'arte della regia, arrivando a modificare la scena del crimine per poter comporre meglio la sua inquadratura. Ciò che fa è infatti orchestrare la situazione, narrativizzarla, prevedendo già un'idea di montaggio.
In un'epoca post-mcluhaniana, Nightcrawler porta a parossismo quella formula necessaria e basilare che identifica il medium con il messaggio: evidente protesi del protagonista, la telecamera ritorna occhio che comunica e uccide (l'altra faccia dell'informazione è quella nera dell'omicidio). Peccato solo che il secondo tempo di Nightcrawler prenda un'altra direzione, più interessata ai prevedibili sviluppi di un giallo già visto per quanto morboso possa risultare. Mi sarebbe piaciuto invece se Gilroy avesse indagato con maggior acutezza la pulsione scopica che ci attanaglia, piuttosto che attaccarsi a esigenze di pura sceneggiatura. Seppur il film non gli sfugga mai di mano e assorba lo spettatore in una tensione che si mantiene intatta per tutta la durata, Gilroy non ha il coraggio di osare: non fa quel passo in avanti che avrebbe permesso al film di brillare. Ma Nightcrawler rimane, comunque sia, un oggetto filmico intelligente e conturbante, grazie anche alla performance di un Jake Gyllenhaal mai così invasato e inquietante.

giovedì 9 ottobre 2014

No - I giorni dell'arcobaleno




Ho amato subito "No - I giorni dell'arcobaleno" per il suo stile secco, essenziale, scevro di qualsiasi retorica nel suo mischiare, confondere finzione e immagini di repertorio: non c'è alcun distacco fra ciò che ha girato Larrain e i filmati nel 1988, perché in fin dei conti questo è un film sulla persuasione delle immagini, sul potere mediatico della televisione, il medium "freddo" più vicino alla gente, sulle suo possibilità non solo di raccontare la Storia ma di stravolgerla, riscriverla completamente. Tra reportage, interviste, spot televisivi, canzoni e materiale d'archivio ci si ritrova in un cortocircuito temporale, in una rivoluzione mediatica dove Pinochet è combattuto con le immagini stesse. L'esito del passato si presentifica immediatamente. "No" si presenta come un lucidissimo film-saggio sulla comunicazione e la pubblicità dove le immagini finali, che tanto sembrano cantare la vittoria della democrazia, rivelano in realtà un nuovo inquietante mondo che si stava insinuando, quello di un consumismo tirannico destinato ad avanzare e a cancellare qualsiasi lotta e ideale.

Cielo nuvoloso in apertura
Elephant




Cielo nuvoloso in apertura. Poi si torna alla terra, vittime di una quotidianità che non lascia scampo. Gus Van Sant pedina i suoi protagonisti, studenti liceali della Columbine School e siamo già all'interno dei tunnel del "Paranoid Park": nella desolazione di un respiro, di un vuoto che opprime e toglie ossigeno, alla ricerca di una nuova estasi fuori-controllo. "Elephant" vale più di qualsiasi trattato di sociologia, di qualsiasi documentarietto di Michael Moore, perchè ha il coraggio di mostrare che la vera tragedia della contemporaneità è che non ci sono più grandi cause o fantasmi dal passato da rintracciare, ma solamente la pura, vacua, terribile banalità.

Tale of tales




Vorrei che queste immagini durassero per sempre evocando grazie e misteri di un poeta e la sua infanzia che procedendo si ripete in eterno.

Lirica del tempo e della memoria, e della Russia, così bella, così lontana, così perduta. Lo zoom è lo sparo che richiama al fronte, e nel tango gli uomini spariscono e lasciano sole le proprie mogli. Libere associazioni del ricordo, il lupo dagli occhi grandi vede un neonato succhiare il latte dal seno materno mentre un minotauro gioca a saltare la corda con una bambina.

Tra realismo e magia nasce il capolavoro assoluto dell'animazione di ogni tempo.

La notte di Collateral
la notte di Michael Mann




«Hey Max, un uomo sale sulla metropolitana qui a Los Angelese e muore… pensi che se ne accorgerà qualcuno?»

La notte di Michael Mann, quella della solitudine e dell'efficienza: regni di cemento, automobili che sfrecciano in un mondo che si è fatto troppo veloce. Eccola ancora Los Angeles, musa digitale e iperrealista che tra proiettili in discoteca e inseguimenti in metropolitana, canta malinconica le sue strade senza uscita, facendo specchiare il criminale grigio e l'uomo comune. E quando ci si ferma un attimo, feriti e annichiliti, ci si perde (riconoscendosi) nello sguardo di un lupo.

Su quella didascalia che blocca il tempo




Tutto finisce, anche il ricordo, per trasformarsi in un oceano di immateralità incorporea. Ogni romanzo storico è fantascienza, ogni racconto è ricostruzione e reinvenzione, ogni film è macchia di luce in movimento. Allora sarà traumatica quella didascalia finale di "Barry Lyndon", film che blocca il tempo, e che, improvvisamente, viene riportato alla sua totale, inevitabile finitudine. «Fu durante il regno di Giorgio III che questi personaggi vissero e disputarono; belli o brutti, ricchi o poveri, buoni o cattivi, ora sono tutti uguali». Perdendosi, con lo spettro della fine, in una pittura che si è già fatta scultura (del tempo e della memoria).

Troppo per essere vero: Lucy




Già mi era stato (s)consigliato da diversi amici su facebook e altrove, dove riecheggiavano curiose e importanti attribuzioni come "Il 2001 dei film di merda".
Inoltre mi ero promesso che non avrei avuto più nulla a che fare con Luc Besson.
Ebbene, vi confesso che non ho resistito: complice una passione masochista e un gusto per l'orrido, ho deciso di recarmi in sala a vedere "Lucy".
Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, ho raggiunto l'entusiasmo e l'incoscienza di un bimbo che ha a che fare con quella cosa brutta ma brutta brutta che ti fa ridere in modo increscioso. "Lucy" impone una nuova categoria, un oltre che sfonda a mani basse qualsiasi concezione di "brutto", "mal girato", "pasticcio", "improbabile", "inguardabile" e così via. Da una parte, diceva qualcuno, ci sono i grandi capolavori della storia del cinema, dall'altra ci sono quelle cose talmente oltre, talmente "Che?" "Cosa?" "Ma dai!", "Dove sono le tette?" da essere altrettanto indimenticabili. Perché Scarlett Johansson che brinda su un aereo "Alla Sapienza!" con un calice di champagne è una sequenza più (s)cult di Ethan Hawke che si fa un selfie in "Cymbeline" (e che tutto questo avvenga nello stesso anno dimostra come fosse il 2014 e non il 2012 l'anno più funesto e apocalittico).



Tra immagini velocizzate e ralenti improvvisi, Luc Besson ruba le scimmie di 2001 e i dinosauri di The Tree of Life, mentre Scarlett Johansson bacia gratuitamente un poliziotto "per non dimenticare". Dalle origini della vita ai pellerossa, Luc Besson, tutto preso dalla sua "grande" opera di fantascienza "filosofica", dal suo "action-movie intelligente" da tramandare ai posteri (Buon Dio, no!) è attento come mai che non sfugga nulla - ma proprio nulla - al suo spettatore. Qualsiasi cosa niente panico, c'è Morgan Freeman!
Lui, (ex) deus ex machina divenuto luminare della scienza (basti pensare all'ultimo mediocre "Transcendence" che presenta diverse analogie con "Lucy"). Lui, che un tempo era Dio o Presidente degli Stati Uniti d'America, ma che oggi è una sorta di emanazione positivista - e buona - della nostra scienza divulgativa. Lui, che pare uscito da una puntata del Morgan Freeman Science Show, e che, con voce rassicurante e occhio vivace, ci spiega tutto. E se non si capisse qualcosa? Se le parole chiare e limpide di Freeman si rivelassero invece un po' troppo caustiche? Luc Besson dice "non disperate" e ci regala immagini naturalistiche che entrano in scena appena pronunciate. Ogni animale, ogni catastrofe, ogni nuova vita è lì pronta per illustrare pedissequamente quel che è stato detto.
Grazie a Luc Besson ho visto due rane che si riproducono, grazie a Luc Besson ho rimpianto perfino Matrix, grazie a Luc Besson ho capito che uno più uno non fa due, grazie a Luc Besson ho compreso finalmente che il monolito di "2001" altri non era che Scarlett Johansson, seduta su una sedia, mentre toccava il dito di una scimmia: il miracolo del "Giudizio Universale"! E infine grazie a Luc Besson ho finalmente compreso che la regia è un optional, che le sequenze d'azione sono un'accumularsi di immagini senza soluzione di continuità, che il tempo lo puoi gestire un po' come ti pare, e che il cervello umano, arrivato a sfruttare il 100 % delle sue possibilità, trasforma il corpo nel liquido nero che genera Venom. Dopo "Lucy" non si torna indietro.

Post scriptum: come qualcuno ha osservato l'unica metamorfosi interessante del film è al di fuori del film stesso. Il destino di Scarlett Johansson in "Lucy" è la sua stessa invisibilità, la sua circolazione extracorporea: finisce "Lucy" inizia (un bel po' meglio) "Her", e in mezzo c'è forse il corpo-ricettacolo di "Under The Skin".

martedì 7 ottobre 2014

Intorno al finale di Bullet Ballet




Nel silenzio assordante che fa eco alla catastrofe,
orfani senza casa
superstiti senza meta
sembra quasi che si corrano incontro,
quando, in realtà, si allontanano sempre di più.
Ma forse, ricominciano a vivere.

Uno dei finali (e una delle corse) più belli del cinema di Tsukamoto.

Black Blood




Nostalgia struggente per meraviglie invisibili e oggetti filmici inclassificabili. Penso a "Black Blood" di Zhang Miaoyan, visto una volta in un festival di cinema asiatico al Macro di Testaccio qui a Roma, e poi perso per sempre. Film dissolto nella mia mente, di cui ho cercato disperatamente supporti fisici o digitali senza alcun esito. Le cose belle, le cose più belle forse, sono quelle che vedi una volta e mai più: ti rimangono le immagini, confuse, lontane, ma fortissime. Eppure con "Black Blood" è successo qualcosa di diverso, perché mi sembra di averlo visto ieri. E, paradossalmente, più passa il tempo meglio lo ricordo.
Cosa mi rimane di quell'Ufo che era Black Blood? Lande desolate, spazi enormi di un deserto che pare estendersi all'infinito. Qui, ormai, si vende letteralmente il sangue per mantenere la propria famiglia: il capitalismo si è impossessato completamente del corpo, luogo di nuova, vergine economia. L'obiettivo è quello di metter su un'autentica impresa del sangue. E mentre le azioni si ripetono in una spirale apparentemente senza fine, ti viene in mente una versione cinese di Béla Tarr che sogna un finale alla Herzog.E all'ombra di un'apocalisse che si avvicina, si continua ad bere enormi quantità d'acqua per aumentare la fluidità del sangue-capitale.

Il fantasma dell'opera




Fragili spettri della notte
prestati alle lusinghe dell'amore.
Spiriti romantici e inquieti
abitanti dell'oscurità.
Musicisti malinconici e deformi
si destano all'Opéra.
Il tempo non può scalfirli,
può solo riportarli in vita.

Vittime ignare di una maledizione eterna
che recita sempre gli stessi versi:
innamorarsi di una giovane, candida cantante,
croce e delizia della loro esistenza.

«Era la prima volta, capisci, che baciavo una donna...sì, viva, l'ho baciata viva ed era bella come una morta!»

Nosferatu
Inno alla luce capovolta




Inno immortale alla luce capovolta, sinfonia romantica dell'amore e dell'orrore, della vita e della morte, del sonno e della veglia: Nosferatu il vampiro diviene il lato oscuro dell'eroe protagonista configurando tutta la pellicola come una riflessione sul tema del doppio, all'ombra di una psicosi inevitabilmente scissa. Ritorna sempre come incubo perturbante (anche a quasi cent'anni di distanza!) l'idea di una natura malefica ed oscura, di una geometria sconosciuta e superiore di cui non ci è dato conoscere i segreti né l'essenza. Capolavoro metatisico per eccellenza, dove un senso d'ignoto si fa strada nella nebbia, fino a lasciarci completamente esterrefatti davanti alla grande magia - al grande orrore suona ancora meglo - del cinema. Film "non morto" per eccellenza, vive ancora in quell'etereo limbo di nebbia che è poi la grotta magica.

sabato 4 ottobre 2014

Ogni eccesso è vuoto
ogni chiasso è silenzio:
L'Imperatrice Caterina




Come un diamante eccessivo e barocco, come un castello opulento e maestoso, come una donna sensuale e provocante che s'inebria di scabroso erotismo, così mi pare ogni singola inquadratura de "L'imperatrice Caterina" di Josef Von Sternberg. L'opera cinematografica che, più di tutte, è stata condannata dalla sua stessa audacia, dalla sua medesima, innegabile magniloquenza. La perfezione sfavillante del set, dei costumi, delle scenografie umbratili che fanno coda all'espressionismo, i movimenti di macchina, tutto si unisce in quella danza caotica e infernale, in quella giostra eccessiva e notturna, in quella festa sensualissima che è "L'imperatrice Caterina".
La seduzione visiva delle immagini diventa per Sternberg quasi un'ossessione, una follia ulteriore, una potenza distruttrice in grado di colpire persone, oggetti e pareti, finendo per ferire e umiliare personaggi e pubblico. Può un'immagine eccitare e liberare dal sonno lo spettatore, respingendo qualsiasi ipotesi catartica, a favore di un cinema che agisca sul nostro organismo? Che lo risvegli?
Sprofondando in uno straordinario kitsch ante-litteram, ci si chiede: non è d'altronde il kitsch l'incubo del bello e del suntuoso, la sua deformazione parossistica, la sua magnetica (e caduca) perversione? "L'imperatrice Caterina" è un film condannato all'oblio, lontano anni luce dall'essere catalogato in qualsiasi accademica, didascalica storia del cinema. Ma ne è cosciente fin dal primo momento, perché tutto in questo film grida a squarciagola che non vuole diventare un classico. E' troppo scorretto, vivo e sporco, per essere imbalsamato.
Il masochismo sternberghiano dei triangoli a tre e dei "diavoli probabilmente" si proietta qui sulla Storia. Ma quale Storia? Una Storia che diviene la sua stessa consapevole messa in scena: l'ombra deforme e seducente del cinema si proietta sul corso delle cose, in una lotta colorata di oro. La Storia deforme di Sternberg si apre agli squarci visionari di una festa presieduta da Dioniso in persona.



Ogni primo piano della divina Marlene corrisponde a una geografia interiore, a uno scavo nel profondo che attrae sfuggendo: lei è la diva della distanza assoluta, l'idolo da amare senza mai poter possedere, quasi un totem in carne e ossa che si lancia in movimenti di iconica bellezza. Ed è lei, con i suoi occhi, la sua bocca, la sua espressione algida e cristallizzata, a incantarci come fossimo burattini alla corte del mondo, gettandoci in trances lunghe un film. Sternberg, Pigmalione per eccellenza della storia del cinema, modellava, disegnava, odiava, e pur sempre amava, una donna che gli sarebbe sfuggita per sempre.
Se la condanna del desiderio è la solitudine, mi pare che "L'imperatrice Caterina", spogliato di ogni abito lussureggiante, di ogni sfavillio della forma, di ogni gonfia scenografia, sia inaspettatamente una delle opere sternberghiane che più ci mette a contatto con la solitudine. Ogni eccesso è vuoto, ogni chiasso è silenzio. Le maschere, d'altronde, conservano sempre il potere ammaliante degli occhi, che non possono negare o nascondere. E quegli occhi sono la verità della scena, l'unico elemente saldo, umanissimo (e dunque crudelissimo) de "L'imperatrice Caterina".
La grandezza di Von Sternberg è tutta lì: nell'infischiarsene di qualsiasi verosimiglianza storica, nel ricostruire gli elementi e nel trasfigurare ogni potenziale realtà nel magma cinematografico che tutto plasma e tutto reinventa.

post scriptum: guardatelo bene, avvicinatevi, sembra proprio che questo bianco e nero nasconda, in sé, il più colorato di tutti i film!