lunedì 15 dicembre 2014

Mommy di Xavier Dolan




Autodidatta fieramente lontano dalla figura del cinefilo snob che si potrebbe immaginare, Xavier Dolan continua il suo percorso registico con "Mommy".
Quello che si vede sullo schermo è un caleidoscopio di immagini internate, soffocate all'interno del formato quadrato 1:1, che fa sentire tutto il peso di ogni gesto filmico.
Asfissiante nel suo deambulare ossessivo tra interni ed esterni, "Mommy" è cinema di pura, fragilissima potenza, in grado di raccontare un doppio morboso: una relazione madre-figlio che segue sempre la stessa dinamica, orfana di qualsiasi idea di vero riscatto, completamente incapace di guardare oltre da sé e rendersi conto che, al di fuori, c'è il mondo intero. Si aggiunge anche una terza, affascinante figura, che chiude ermeticamente un triangolo che sfugge all'esterno. Come un'isola (in)felice, immortalata da uno scatto che vorrebbe, ma non può, fermare il tempo.
"Mommy" dà l'impressione che il resto della gente, la realtà stessa, sia un fuoricampo forzato, incapace di entrare all'interno dell'immagine monadica, ristrettissima del trio. Questo mi pare uno dei punti di maggior interesse del film: la vita pullulante di emozioni, desideri, rabbia e ardori, dev'essere continuamente salvaguardata e difesa dal mondo circostante. E' come se Dolan volesse mettere in salvo il cinema e le sue ossessioni, con il bisogno assoluto di controllare pochi personaggi, di amarli perfino nei loro momenti più bassi: sfoca le immagini, circumnaviga il set, poi si ferma immortalando un gesto, una lacrima o un sorriso, e di nuovo comincia a muoversi.



La sua è la furia impazzita che appartiene a chi crea e distrugge immaginari con un solo colpo d'occhio. Ma è una furia gentile e umanissima, in grado di accarezzare i suoi personaggi nelle loro debolezze, idiosincrasie, in tutte le crisi reiterate - sempre uguali, sempre eccedenti, sempre sopra le righe - che li fanno cadere (per poi rialzarsi). In definitiva, "Mommy" è la più aperta delle opere chiuse: vuol bene al suo spettatore, lo fa sentire "uno di loro" (e mai il giudice di una serie di freaks). Dolan trascina gli occhi del pubblico direttamente nel cuore della scena, moltiplica i climax con un tale ardore da svuotarli: con far forsennato, irresponsabile e vitalissimo, porta avanti un film di puro, folgorante vitalismo, seppur racconti una relazione cieca e beffarda, che se infischia di tutto il resto.
Una volta compresso lo schermo fino alla claustrofobia, lo allarga improvvisamente urlando tutta la sua incosciente, agognatissima libertà. Lo spettatore torna a respirare, mentre davanti ai suoi occhi si alternano le immagini di un futuro ipotetico, una sorta di what if impossibile sommerso nella patina edificante dei sogni (un film nel film di chi mira l'impossibile).
Nel suo commistionare musichette pop, operazioni revival, drammi da camera e perfino un po' di (in)sana fantascienza emotiva, "Mommy" è un film che vibra, che pulsa, che ferisce e che diverte, perché è così selvaggiamente sfrenato da sedurre e inebriare come pochi. Forse è perfino un po' arrogante, ma con la voce salda di chi col cinema vorrebbe far esplodere i palazzi (per ricostruirli poi, per amor di gioventù, per sbornia di vita).

Allenismi (Magic in the Moonlight)




Era stato il bellissimo "Blue Jasmine" a farmi riappacificare con il cinema di Woody Allen, che, a parte qualche rara eccezione ("Sogni e delitti"), non riusciva più a conquistarmi fin dai tempi di "Harry a pezzi".
La sensazione che avevo vedendo "Magic in the Moonlight" era quella rassicurante di un rientro nella pura, consueta quotidianità (o meglio annualità) tardoalleniana. Scrivo rassicurante perché mi pare che, sempre di più, il cinismo, l'irriverenza e la potenza stessa del cinema di Woody Allen finiscano ormai per museificarsi, cristallizzandosi nelle figurine statiche di un cinema sempre uguale a se stesso, troppo sciapo e vetusto per poter battere ancora qualche colpo. Il conflitto tra ragione e irrazionalità (ancora!) tra illuminismo e occulto, è riproposto con la stanchezza programmatica di chi arriva sempre alle stesse conclusioni, di chi non si smuove di un millimetro dalle proprie convenzioni (e dalla propria maniera). E' un cinema rassicurante perché privo di sorprese, talmente prevedibile da essere perfino addomesticabile. Anche gli attori, allenizzati fino al midollo, perdono la loro credibilità: il buon Colin Firth è un burattino nelle mani del suo autore che utilizza tutto il repertorio possibile di faccette da commedia, Emma Stone sembra continuamente spaesata e fuori posto. Allen strappa qualche solito sorriso, per consumarsi poi in quel "basta che funzioni" che sembra la morale di gran parte del suo cinema degli ultimi quindici anni. Che la vita non abbia senso, ma non sia del tutto priva di magia, è il modesto traguardo di chi ha già chiuso nel cassetto tutto il vero dolore, i risentimenti e le acerbità della straordinaria Jasmine, ultima grande figura del cinema alleniano.



(il fatto stesso che vedendo un film di Woody Allen mi ritrovi a dire "sì, però che bella la fotografia" non mi pare affatto un buon segno).

Prime impressioni di postvisione:
Jauja di Lisandro Alonso




In attesa di poterlo rivedere e di scriverne qualcosa, mi perdo nelle dissolvenze spazio-temporali che abitano le immagini di Jauja. Per tutta la notte ho riassorbito e trasfigurato lo straordinario film di Alonso e forte era l'impressione che ogni frame (ogni quadro, dovrei dire) si alterava, cresceva all'interno del mio sonno, minuto dopo minuto. Quasi come se fossi capitato in un zona di stalkeriana memoria o dalle parti terminali di Solaris. L'oggetto filmico di Alonso ci guarda mentre erra lungo paesaggi desertici. E noi, che dell'erranza abbiamo fatto un piano della mente, ricambiamo lo sguardo - o almeno tentiamo.

giovedì 4 dicembre 2014

Non piangere, canta!
Deflagrazioni lynchiane e cuori selvaggi


(io ogni tanto devo necessariamente tornare a cuore selvaggio, non perché sia il mio lynch preferito, ma perché è quello che più di tutti potrei rivedere all'infinito)



Cantare "Love me Tender" a Lula sul cofano di una macchina, dopo aver incontrato la fata buona, come nella più romantica delle storie d'amore. E con la giacca di pelle di serpente, che simboleggia la sua individualità e la sua fede nella libertà personale, Sailor è puro, invincibile, ROCK.

(Cuore Selvaggio è il film che non ti stanchi mai di vedere, perché ci sono streghe e fate, il ghigno di Willem Dafoe e le sigarette fumate dalla Rossellini, perché Laura Dern urla "Sailor" a squarciagola, perché Harry Dean Stanton abbiaia davanti alla televisione, perché il cugino Dell si infila gli scarafaggi nell'ano e quella strega di Marietta si ricopre la faccia di rossetto. E poi Nick Cage... Nick Cage che ammazza di botte quel tizio in un incipit di rara, esilarante, estatica violenza, ma poi balla, invoca Elvis, beve e scopa. Ancora, ROCK!)

"Questo mondo ha un cuore selvaggio e del tutto incomprensibile": deflagrazione pura, specchio deforme del Mago di Oz, l'immagine non è mai ciò che sembra, perché sfugge a se stessa, si dissolve tra una sigaretta e l'altra, mentre una casa brucia e le strade si rivelano (già) perdute. Solo allora Bobby Peru potrà dire "non piangere, canta!", anche se poi la sua testa salterà in aria.



p.s. mi commuove sempre immaginare Bertolucci in estasi davanti alle immagini di Lynch, che si batte per fargli avere la sua indiscutibile palma d'oro.

Bellas Mariposas di Salvatore Mereu




Rinascite sarde.
Sguardi che s'incrociano, senza poi grandi speranze o ambizioni, perché è finito il tempo in cui si poteva essere bambini. Questo è il cinema italiano che amo, quello che va difeso e stimato perché fatto per strada, consapevole della sua urgenza e della sua necessità, cosciente che il cinema sia prima di tutto una questione di linguaggio (cosa che tanti prodottini italiani dimenticano, non capendo che la loro difficoltà maggiore non sia tanto nei contenuti quanto nella gestione della forma). Siamo in territori scevri da qualsiasi tipo di moralismo, furbizia o ipocrisia: Mereu racconta il mondo (la provincia di Cagliari) ad altezza occhi di Cate, ragazzina di undici anni, autentico sguardo-affezione del film (ha ragione chi lo definisce un film in soggettiva). Film che poi è un fiume di parole inutili che sgorgano in piena pubertà. Opera autentica, spontanea, immediata, dove non succede nulla che non sia semplicemente vivere. Vale la pena raccontare tutto, come in una fiera del nulla tra spiagge, palazzoni e streghe.
Un momento, che scorre via veloce ma scalda come pochi. Un istante appena sul letto, dove incrociare gli sguardi, ridere, baciarsi sulle labbra, labbra che sembrano farfalle, belle farfalle...

Be Kind Rewind
Dove vincono i sogni

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda» da "L'uomo che uccise Liberty Valance" di John Ford.



Che poi il West fosse il cinema mi è sempre parso chiaro.
Si sono scritte migliaia di pagine sulla fabbrica delle illusioni, sulla sospensione d'incredulità, sul potere dell'immaginario: sul cinema e sulla sua grande illusione. Ma soprattutto sono stati girati tanti film sulla meraviglia del sogno, sulla settima arte stessa che svela meccanismi e magie. Ma io vorrei soffermarmi su quel piccolo atto d'amore, irriverente e scanzonato, che è "Be Kind Rewind" di Michel Gondry. Perché è la storia di chi cerca di proteggere il cinema (e l'immaginario) da chiunque se lo voglia portare via, di chi caparbio, impettito e testardo resisteva alla videocassetta perché non era una questione di qualità ma di memoria analogica.
Lo spunto del film - tutto teorico - rimane geniale: quando le videocassette di una storica videoteca si smagnetizzano non rimarrà altro da fare che rigirare i classici della storia del cinema. Non c'è uno stralcio di ruffianeria in tutto questo, ma l'atto d'amore di chi ha sempre sognato un cinema tutto per sè, da vedere e condividere, da dirigere e recitare. Nella fede che al cinema - solo al cinema, almeno al cinema - alla fine vincano i sogni, mentre la realtà può anche aspettare fuori dalla sala.

Il cielo sinistro di "A serious man"




E poi, guardando quel cielo sinistro, presagio di una catastrofe ancora più grande, "A Serious man" si configura come c crudele "commedia" della vita, parabola terribile a cui è destinata ogni esistenza: l'ebreo onesto prosegue il suo cammino insidioso, affrontando sciagure e malintesi, vivendo nel silenzio di Dio, in una realtà inevitabilmente deformata e grottesca. Il protagonista, ennesimo "idiota" perbene, uomo serio e probo, viene travolto dal ciclone. Nessuna ragione, il non-sense rimane l'unica religione del mondo: cinema cinico, beffardo e terribilmente ironico, i Coen non lasciano scampo filmando un altro dei loro incredibili manifesti e lasciando allo splendido prologo la chiave di lettura dell'intero film.

Quinto potere: la "cosa" di Lumet




Network ovvero come la televisione divenne il quinto potere: una sorta di "cosa", come la creatura carpenteriana, viva, mutante, pullulante di energie, capace di succhiare il nostro sangue alla stregua di un vampiro (è nato un nuovo organo nel cervello, si sarebbe affermato poi in "Videodrome": lo schermo!). Questa "cosa" vive ogni giorno, insieme a noi, davanti a noi, dentro di noi, mentre elegge nuovi guru e profeti, nuove strade e possibilità catodiche. Sembrava fantascienza d'annata, invece Sidney Lumet firma con "Network - Quinto potere" un film straordinariamente in anticipo sui tempi, su come la televisione sia stata in grado di annientare tutto ciò che veniva prima (il famoso baudrillardiano "delitto perfetto" nei confronti della realtà), modificando per sempre la nostra percezione delle cose.

Il mondo è finito
Onora il padre e la madre




Il mondo è finito, anche se nessuno se n'è accorto.
Ciò che è venuto a mancare è l'ossigeno stesso, al suo posto è rimasto un insopportabile fetore. Gli ambienti si sono compressi a dismisura, l'umanità si è trovata internata in luoghi freddi, squallidi e asettici, cellule prive di qualsiasi personalità. La morale è solo l'eco lontana di chi non ha più un passato da ricordare: ogni sorriso, ogni gentilezza, ogni possibilità di luce si rivela ormai una chimera impossibile da raggiungere. Anche i colori hanno ceduto il passo al grigiume plumbeo che permea ogni cosa: nessuna trasparenza, nessuna onestà, ogni elemento scivola verso il suo retrofondo rozzo e vischioso. E la famiglia, nucleo portante della stabilità umana, nido caldo in cui potersi rifugiare, è divenuta il centro disfunzionale dell'umanità. Ciò che emana quest'unione è l'insopportabile tanfo di una pestilenza senza fine (portata sulle spalle del corpo untuoso e mai così viscido del gigantesco Philip Seymour Hoffman).
Questa famiglia stracciata, umiliata ed offesa, non può che disgregarsi al suo interno, pezzo dopo pezzo, ferita dopo ferita. Ogni segreto viene a galla, così come il circolo infinito di odi, bisogni e rancori che si susseguono senza tregua.



Stanze sudice, geografie putrefatte, teatri di posa di immondizie affettive, legami inverecondi e poi la scopata iniziale di chi, per un attimo, ricorda di essere ancora un uomo. Trovo "Onora e il padre e la madre" lo straordinario apologo che ruota, per tutta la sua durata, intorno al concetto stesso di osceno, radendo al suolo i tabù del borghesissimo buongusto. Ciò che ci restituisce è uno spiacevolissimo, residuale pus che diviene traccia dei legami affettivi di una volta.
Il testamento di Lumet è la crudele chiosa di una carriera che non era mai stata così feroce, così disillusa e, sopratutto, dolorosa. E' d'altronde il racconto di un virus che porta/ha portato/sta portando il mondo alla deriva, fino all'inaccettabile eccesso di rubare al proprio padre e uccidere il proprio figlio.
I comandamenti si sono invertiti, i rapporti umani hanno raggiunto l'acme della perversione morale riscoprendo la loro radice malata e omicida. Sidney Lumet firma un'opera asciutissima, che fa della sua sobrietà lo strumento ideale per tramortire gli occhi di guarda. E poi si spegne.

mercoledì 3 dicembre 2014

I miei vicini Yamada di Isao Takahata




Come in un manga in movimento, stilizzato ed essenziale fino al midollo, "I miei vicini Yamada" fa della bidimensionalità il suo cuore pulsante, mentre utilizza acquarelli per colorare ogni emozione. Il maestro Isao Takahata risponde alle esigenze di realizzare un'opera semplice, ascetica, in grado di illuminare (e, soprattutto, di bucare) la vita quotidiana con un piccolo gesto, qualcosa di buffo o superfluo, forse una speranza o un sogno o un pensiero del momento. Racconti episodici restituiscono un ritratto dell'eccentrica famiglia Yamada, senza preoccuparsi di una narrazione che investa l'intero film, di una consequenzialità tra un momento e l'altro: solo siparietti, piccole situazioni che iniziano e finiscono, ma che, nel loro accumularsi, restituiscono l'inevitabile succedersi di giorni, stagioni e fasi della vita famigliare.
"I miei vicini Yamada" mi pare costruito come un perfetto meccanismo di haiku eterogenei che si sfiorano e s'incontrano per scandire il (non) tempo del racconto. Le dolci parole dei poeti Bashō e Buson riportano il tutto a una dimensione più antica, quasi nel rimpianto di un Giappone che non c'è più o di un'altra vita: in questo rimpianto, sotterraneo, nascosto ma viscerale, si trova il senso dell'intero film.



Ogni momento della preziosa opera di Takahata, riesce a commistionare candore e malizia, passando, senza soluzione di continuità, dalla gentilezza al risentimento, dai sogni proibiti all'adolescenza, dalle prime cotte di gioventù all'inesorabile avanzare dell'età.
Sotto la superficie edificante di una famiglia che, compatta, può superare le insidie del mondo, si nasconde un film ben più amaro e desolante: emerge un senso di frustrazione, di impotenza, di inadeguatezza del singolo nei confronti di un Giappone che è sempre in movimento. Un Paese che non si ferma, che non può fermarsi, ma che ha lasciato i suoi singoli cittadini indietro: troppo lenti per non rivelarsi un peso, troppo goffi per non inciampare, troppo umani per velocità oltreumane.
Tutto dice che bisogna andare avanti, lavorare sodo, stringere i denti, tutto è training morale. Gli Yamada cercano di stare al passo con i tempi, ma non ce la fanno: dimenticano continuamente le cose, accumulano ritardi, non si svegliano la mattina, sono distratti e arrivano alla sera sfiniti.
Emerge un senso di nostalgia infinita, un sentirsi fuori tempo massimo che fa della timida commedia de "I miei vicini Yamada" il dramma pulsante sull'incompatibilità di un paese con i suoi cittadini.

Il piacere assoluto della visione
Billy Wilder




Mi rendo conto che forse sono i film di Billy Wilder gli unici in cui mi lascio trasportare completamente dal potere del racconto. Non penso ad altro se non a ciò che sto vedendo, senza alcuna dietrologia, senza alcun appunto o tecnicismo di troppo. Mi sento catturato, inebriato da ogni singolo incastro narrativo, e, in un secondo, tutto il mare di teoria, tutte le riflessioni, le elucubrazioni infinite, le scuole di pensiero saltano in aria. Ciò che rimane è il piacere assoluto di vedere un film, di lasciarsi coinvolgere, di sospendere l'incredulità per centoventi - dico centoventi! - minuti, di amare ciò che vedi, e ridere e piangere e in caso divertirsi un mondo. Dimentico la regia, la fotografia, la colonna sonora, non noto alcun movimento di macchina, alcun vezzo di montaggio, dimentico gli autori e le teorie, dimentico i libri, dimentico tutto: vedo ogni cosa insieme, totale ma mai totalizzante, quasi un corpo unico ricco di grazia e di brio, e mi scordo - oh sì, mi scordo - il cinema (nonostante i suoi film, soprattutto le commedie, presentino le costruzioni narrative più rigorose e puntigliose di tutto il cinema americano). Forse mi accade anche con Lubitsch o Capra, ma i film di Wilder contengono quell'ingrediente segreto che porta diretti verso il puro, appagante piacere della visione. Penso questo mentre rivedo per l'ennesima volta quel capolavoro assoluto che è "L'appartamento": mi sento felice come un bambino appena salito a bordo di una giostra, provo un entusiasmo, un'ingenuità, una soddisfazione sconsiderata che nessun cinema, perfino quello che amo di più, potrà mai restituirmi. E sto bene.

Miseria e spettacolo: Trash




E' arrivato in sala "Trash" di Stephen Daldry. In giro si parlava del "The Millionaire" dell'anno, cosa che mi aveva piuttosto terrorizzato ai tempi del festival di Roma. Di "The Millionaire" il film di Daldry conserva l'impostazione produttiva: prendere un regista piuttosto celebre e "gettarlo" nel terzo mondo. Dal film di Boyle recupera anche la problematica di ordine morale di trasformare la miseria in spettacolo, di gettarla all'interno di un calderone d'intrattenimento che, eticamente, può davvero infastidire.
Provando a chiudere un occhio (e non è detto che lo si voglia fare o sia giusto farlo) trovo "Trash" un'opera certo convenzionale ma anche sufficientemente riuscita. Sebbe non ami affatto il cinema di Daldry devo ammettere che qui si avverte un buon senso del ritmo, che si propaga per tutta la durata in modo davvero incalzante. Montaggio ferratissimo (ma non videoclipparo come si legge in giro) messa in scena completamente al servizio della materia trattata, scelte di casting azzeccate (i tre ragazzini protagonisti sono meravigliosi e finiscono per oscurare Martin Sheen e Rooney Mara). E' un film, del resto, profondamente (colpevolmente) spettacolare, invaso da tanta (troppa) musica, progettato a menadito per assecondare i gusti delle masse. Si può dunque criticare il tipo di operazione, la sua dubbia moralità, ma, all'interno dei suoi parametri, risulta innegabile che "Trash" sia un film che funzioni.
Riesce a evitare qualsiasi ruffianeria quasi fino alla fine, peccato solo per quegli insopportabili quindici minuti di coda: del resto la maledizione dei finali furbetti ed edulcorati, delle verbosità che vorrebbero "dire" il film quando le immagini ci sono già riuscite da sole, è cosa nota e piuttosto esecrabile. Imbarazzanti ragazze-fantasma e un manicheismo di fondo davvero insopportabile: ma d'altronde c'è da sorprendersene?

post scriptum: mi sorprende lo "scandalo" suscitato dalla sua vittoria al festival di Roma: con una giuria popolare e un'impostazione festivaleria di quel tipo, cosa ci si aspettava che vincesse?

giovedì 27 novembre 2014

Tre storie di una malattia mortale




Ho una grande nostalgia di Michael Cimino e di film come "L'anno del dragone". Stanley White è l'indice di un mondo narrativo che forse non esiste più, di un modo di concepire le relazioni umane, l'etica e il "mestiere" che appartiene a un'altra epoca: la sua sfida contro la mafia cinese di Chinatown si trasforma in ossessione cieca ed esclusiva, che fa perdere al protagonista ogni cosa, compresi gli affetti che non è mai stato in grado di apprezzare.
In questo senso mi piacerebbe vedere "L'anno del dragone" accanto a "Zero Dark Thirty" per una mia passione intorno agli "eroi" solitari, quelli dove ogni azione sembra perdere qualsiasi ipotesi attiva, per farsi necessariamente deponente: anche Maya nel film della Bigelow non porta avanti un'idea, ma è come mossa, infiammata, trasportata da quella stessa idea fissa. Non è lei a dominare la sua fame di cattura, avviene esattamente il contrario: Maya soccombe al cospetto delle sue pulsioni. Obiettivi impossibili da arginare finché non sono compiuti, come dei virus che accendono la mente e impediscono qualsiasi altro pensiero che non sia la cattura di Osama Bin Laden. Si arriva al dato di fatto, problematico quanto volete, che la vita privata non esista più: non sappiamo nulla di Maya al di fuori del suo lavoro, perché probabilmente non c'è nulla da sapere.
Sono film, questi, che inscenano i frutti di un'ossessione logorante, che è anche, e soprattutto, un'impossibilità di scelta. Allarghiamo il campo al John Wayne di "Sentieri selvaggi": la furia di Ethan contro gli indiani, il suo sguardo di fuoco diretto verso la distruzione non solo del "nemico", ma della sua stessa persona.



Tutti e tre i film, con le dovute differenze, conservano la straordinaria intuizione di trasformare l'eroismo in patologia, l'avventuriero in nuovo malato della società, la caccia in febbre cieca e forsennata. D'altronde quest'eroe perverso non rimane in tutte e tre le opere innegabilmente solo, quasi alla stregua di un reietto, di un esule destinato per sempre allo statuto di borderline? Maya, Ethan e Stanley sono come micce accese che sembrano continuamente sul punto di esplodere: la loro ossessione li consuma fino a svuotarli e, una volta venuta a mancare, le rispettive vite si scaricano, privandoli dell'enfasi febbrile, della grandiosità, della gloria e del dolore dilaniante della malattia. La porta della comunità si chiude alle sue spalle, mentre Ethan cammina solitario verso la prateria. Maya, seduta da sola a bordo di un aereo, comprende che il senso della sua vita - ovvero il proprio nemico - è svanito come un fantasma.
"L'anno del dragone", "Zero Dark Thirty" e "Sentieri selvaggi" sono, con le dovute differenze, tre western (il primo squisitamente metropolitano, il secondo figlio delle strategie del terrore in tempi di guerra, il terzo crepuscolare e definitivo). Se "L'anno del dragone" devia verso le sparatorie rocambolesche da saloon (che farebbero invidia a qualsiasi action-movie di mezza tacca dei giorni nostri), "Zero Dark Thirty" commistiona linguaggi cinematografici e punti di vista differenti, sospettando della verità di ogni immagine. L'inquadratura fordiana, infine, restituisce sempre un grandioso senso di apertura all'orizzonte: Ethan può incamminarsi verso il futuro (che è in realtà la dimensione mitica del passato) una volta liberatosi dalla sua malattia mortale. Dov'è diretto? Ovviamente al western classico, al suo mondo, alla sua epopea che è ormai fuori tempo e non esiste più. Anche Maya è destinata a sparire, così come Stanley: il mondo li ha dimenticati perché anche loro, per troppo tempo, hanno dimenticato il mondo. Ciò che fa soffrire è l'indifferenza di questa dimenticanza, l'oblio cui sono destinati i singoli di fronte agli eventi.



Tutti e tre i film presentano una dimensione autentica del dolore e della sofferenza, oltre che dei veri e propri "duelli finali" come da migliore tradizione western. Ma dal duello non si esce né sconfitti né vittoriosi, anzi, si depone la spada e si avanza con un vuoto incolmabile, con un senso di mancanza e di assenza che nessuno potrà mai estirpare. Cos'è questo vuoto? E' il torpore, il piattume, la monotonia che segue la morte del proprio nemico, che svuota e che guarisce. Ma questa cura manca di vera vita.

Le ombre malesi di William Wyler




La luna piena illumina il volto di Bette Davis mentre spara al giovane Hammond. Non dimenticherò mai gli occhi di quella donna, che posso annoverare, senza troppe difficoltà, tra i miei primi turbamenti cinefili. "Ombre malesi" è un film incredibile che pensa l'omicidio come quell'attimo di possessione che ci si ciba dei nostri istinti e delle nostre passioni. Si configura quasi come momento estatico, di fuoriuscita da sé, di perdita di dominio sulla nostra volontà. Wyler intelaia un'opera tutta mentale che, mettendo in scena una vera e propria possessione, trasfigura la giungla malese nello scenario ideale di un mondo interiore: ombre che sembrano uscite da un'opera espressionista, atmosfere lugubri e spettrali come in un horror d'antan. In fin dei conti il film del maestro Wyler è una sorta di melodramma tropicale di altissima fattura, reso inquietante dalla sola, vitrea presenza della vedova Hammond. Il codice Hays impose il finale del film e, per una volta, al contrario del parere di molti, la cosa non si è poi rivelata così assurda: riporta ogni elemento alla dinamiche cieche e crudeli del cinema noir, inscenando l'inevitabilità di un destino già scritto e definitivo.

Il teatro prima della Storia
Notte e nebbia del Giappone




Una storia, dei personaggi, una serie di oggetti che nascono e tornano nel buio, quali apparizioni baluginanti, in bilico costante tra luce e oscurità. Alternano piani temporali differenti, perché la verità, qualunque essa sia, ha facce diverse. Quando si vede "Notte e nebbia del Giappone" si ha come l'impressione di assistere a una recita perfettamente collaudata: complice l'impianto teatrale mi viene in mente come l'automatismo, il discorso politico, la frase preimpostata, restituiscano a ogni azione la propria ambiguità e la propria possibilità di critica. "La critica rivoluzionaria al movimento rivoluzionario": si delinea quello che sembra un "Rashomon" studentesco e militante, costruito da 45 piani sequenza: il Teatro viene prima della Storia o, meglio ancora, la Storia è sempre riproduzione teatrale.

Confessions di Tetsuya Nakashima




Nessuna innocenza.
Parte in maniera travolgente "Confessions" di Tetsuya Nakashima: inondati da una serie infinita di informazioni, veniamo inseriti in una situazione che rivela progressivamente tutta l'algida crudeltà che la costituisce. Subito assistiamo a una confessione che si trasforma in escalation inaspettata, in atto "educativo" e tremendo rinchiuso tra le quattro mura di un aula scolastica. Peccato che dopo questo potentissimo incipit il film inizi velocemente a debordare, intrecciando macchinosamente ogni elemento e finendo sulla strada di una vendetta patinata. Le forme perfette, i ralenti esasperati, i colori desaturati, il rincorrersi di cieli e di specchi, l'onnipresenza della colonna sonora e soprattutto i facili psicologismi della seconda parte del film (dove il mistero viene meno e si cerca di spiegare l'origine del male in un banale rapporto di causa-effetto) finiscono purtroppo per perdere o comunque attenuare la vera dimensione del dolore. Rimane invece solo il fastidio, alimentato dalle esplosioni finali che debellano il senso del tempo e dello spazio, del cinema e della narrazione: ma non c'è nessuna esplosione emotiva, solo il rimpianto per il film che "Confessions" avrebbe potuto essere. Preferisco la vendetta lenta e crudelissima di Kim-Ji Woon (I saw the devil), che non tenta di spiegare il male, ma si "limita" solo a mostrarlo, fornendone una sorta di fenomenologia: quello è cinema devastante fino al midollo, ben oltre la patina luccicante delle immagini.

Istantanee: il finale di Marocco




Se chiudendo gli occhi dovessi pensare all'immagine più evocativa del mondo delle apparenze, dell'artificiosità sublime Sternberghiana, allora mi verrebbe subito in mente quello straordinario finale di "Marocco" dove Marlene Dietrich segue l'amato legionario Gary Cooper a piedi nudi nel deserto: regno fantomatico della leggenda che si perde nel fruscìo del vento e degli echi illusori di un mondo irreale, ricostruito e tutto cinematografico. E intanto lo straordinario Adolphe Menjou è fermo a guardare e a soffrire in placido (e morboso) silenzio.

sabato 15 novembre 2014

Torneranno i prati di Ermanno Olmi




Ieri come oggi, il cinema di Ermanno Olmi è un cinema vibrante di dettagli. Perfino tra le trincee innevate della prima guerra mondiale, "Torneranno i prati" riesce a conferire una sorta di realismo magico a ogni oggetto che sfiora. Il soldato è prima di tutto un uomo, oltre qualsiasi grado o stelletta che un reggimento possa conferirgli. La realtà storica, la fatica quotidiana, la paura che emanano i suoi occhi assume i tratti di una malinconia inquieta, dimentica del tempo che scorre, preda inesorabile di un delirio a cui non si può mai essere preparati.
Olmi è uno di quei rari, preziosissimi registi per cui far cinema significa cantare, non una storia, non la Storia, ma quei paesaggi interiori in cui vige ancora un sottile strato di speranza, misto al dolore del sangue e alla poesia lunare del cielo. I colori desaturati di un mondo privo di bellezza vengono traditi dai rami dorati di un albero spoglio. Arriva quindi improvvisa la prima esplosione, osservata con la calma inquieta e insospettabile di chi, per un attimo, si sente già morto. Ma la vita, proprio lei, è ancora una volta l'unica vera, inebriante salvezza: così la memoria.
"Torneranno i prati" porta alla luce i racconti bellici che un padre faceva al proprio figlio. Riconciliarsi con questo padre significa cantare le gesta (non belliche, ma emotive) dell'uomo e riscattarne il cuore. I personaggi guardano in macchina svelando il cinema nell'atto stesso di farsi e disfarsi, senza alcuna preoccupazione di camuffamento. Quando la lucidità rende trasparenti le immagini, rinunciando a inutili orpelli o particolari vezzi di messa in scena, ci sottrae al film stesso per scavarci sottopelle, per scoprirci, parlare con noi, per sentirci. Come nella miglior tradizione ascetica, il cinema di Olmi è miracolo di sottrazione, essenzialità pura che trasforma perfino le immagini di repertorio in tracce emotive di un dolore mai dissolto.


giovedì 13 novembre 2014

Sul peso dell'immagine
Gangs of New York




E' strano rivedere dopo tanto tempo Gangs of New York di Martin Scorsese. E' strano perché dà l'idea di un progetto gigantesco, ambizioso e importante, inseguito appassionatamente nel corso degli anni. Basti pensare alla realizzazione irta di imprevisti, al montaggio infinito, alle svariate traversie che hanno modellato il film, tirandolo da tutte le parti, deformandolo e reinventandolo. Proprio per questo, a rivederlo, Gangs of New York mi dà l'idea di un grandioso oggetto filmico non riuscito, quasi struggente nel suo cercare di restituire un equilibrio che manca.
Ciò che si ama in Gangs of New York è il tentativo forsennato e impossibile di amalgamare il racconto, la consapevolezza della propria irriducibile fragilità. Come lampi si alternano momenti di grande cinema ad altri perfino sciatti e deboli, che perdono di vista il senso del ritmo e del racconto. Gangs mi pare tuttavia una di quelle opere cui voler bene, perché sembra addirittura il saggio visionario di chi, dopo decenni, continua ad affermare che realizzare un film è un'impresa folle e ardita, un sogno impossibile che tanto assomiglia a una guerra giusta. Proprio in Gangs, più che in qualsiasi altra opera di Scorsese, si sente il peso fisico dell'immagine: c'è una pesantezza, un senso di gravità, ma anche di missione impossibile, di follia ardita, che accompagna l'intera visione del film. Sembra quasi di poter vedere il sudore e la fatica delle riprese - e del montaggio - impressi indelebilmente su ogni singolo frame.
Tutta la cinefilia scorsesiana appare come un magma che ribolle sotto ogni inquadratura, a volte perfino intrappolandola all'interno del suo caldissimo nido. Siamo a metà, d'altronde, tra lo Scorsese feroce degli anni precedenti e quello più accademico e museale (quello che, negli anni dopo, avrebbe girato "Hugo Cabret" o "Shutter Island"): spesso Gangs of New York viene fagocitato all'interno dei suoi stessi didascalici intenti, salvo poi sollevarsi e regalare momenti alti in cui esplode un furore quasi sternberghiano dell'immagine.



Il conflitto tra William e Billy, nature sfrenate e individualiste su cui si fondano gli Stati Uniti d'America, rimane narratologicamente esemplare. E quando scoppia la rivoluzione in città, i due non fanno altro che combattere la loro guerra, completamente indifferenti alla scorrere della Storia. L'egoistica battaglia di chi non ha occhi per le svolte dell'umanità circostante appartiene al vecchio mondo. William e Billy sono quel mondo: il loro vero nemico comune, di cui non si rendono conto, è lo scorrere irrefrenabile del tempo e lo spettro imminente della Democrazia.
E' quasi deludente, del resto, la morte di Billy il Macellaio. E' una morte che non ci dà riscatto, nè soddisfazione alcuna, perché non rispetta i crismi del racconto, perché non è all'altezza di un personaggio così sfacciatamente shakespeariano. La si vorrebbe feroce, diabolica, sanguinolenta, sofferente, quando in realtà è semplicemente misera, quasi comune. Ma è questa miseria, questa tristezza infinita, quest'improvvisa, sofferta demitizzazione che rende memorabile l'intera seguenza (Il cattivo è morto, avrebbe detto qualcuno, ma nessuno se n'è accorto). Billy il Macellaio se ne va, si spegne come chiunque altro, e qui comprendi che sia proprio questa l'intuizione migliore di Scorsese. La storia del film e i suoi personaggi vengono scanzati violentemente, senza rispetto o pudore, dalla grande Storia che avanza.
Il tempo del racconto finisce, il tempo della Storia inizia.

post scriptum: è ovviamente superfluo qualsiasi aggettivo che miri a descrivere la performance di Daniel Day Lewis, su cui è retto l'intero film.

venerdì 7 novembre 2014

La Storia della Principessa Splendente
Quando un film è come un haiku




Al cospetto de "La storia della Principessa Splendente" del maestro Takahata verrebbe quasi voglia di portarsi a casa ogni singolo frame, per custodirselo per sempre all'interno di quell'intima galleria personale dove far ritorno ogni volta che l'aridità minaccia di spegnerci. Ma poi ci si rende conto che è proprio il movimento a dar vita alla poesia di un tratto essenziale, che non ha bisogno di inutili orpelli o magniloquenze per poter fare del cuore dello spettatore un universo sterminato in cui entrare. Dall'inizio alla fine ci si addentra in un altro mondo, e lo si fa in punta di piedi. Nel silenzio sacro che accompagna ogni visione miracolosa, si passa dall'infanzia idilliaca all'opprimente castello in città, fino a quell'incredibile fuga in cui la figura sembra assorbire tutto il mondo circostante. Takahata racconta ogni piccolo gesto come se fosse un dolce e sereno poeta di haiku, in grado di bussare alle nostre porte con la semplicità, la dolcezza e l'ascesi appartenute solo ai più grandi. Ricorda quasi Ozu per la sua nuda composizione dell'immagine. Le sue immagini non parlano, cantano la bellezza della natura e della terra, dei fiori e delle stagioni, come nella migliore tradizione giapponese. E tu, come un bambino impreparato a tanta bellezza, riscopri nel film quel villaggio lontano e inesplorato che ti ha sempre restituito la vita. Sono film come "La storia della Principessa Splendente" che mi fanno ricordare perché ho sempre amato il cinema. Se "The Wind Rises", film-testamento di Miyazaki era la produzione dello studio Ghibli che più si avvicinava alla potenza della pittura, "La storia della Principessa Splendente" è il canto soave con cui il cinema ritorna alla poesia: nessun tramonto poteva essere migliore di questo.

Interstellar
Lo spazio non è mai stato così noioso




Non poteva che essere la fantascienza a svelare tutta la pochezza e la carenza d'immaginazione del cinema di Christopher Nolan. Risulta incredibile che un film come "Interstellar", ambientato nei meandri più oscuri e lontani dello spazio profondo, perfino in un'altra galassia, non riesca nemmeno per un momento a restituire un senso di mistero o meraviglia (ricorda molto il modo con cui il fallimentare "Inception" non presentava nemmeno una suggestione onirica nonostante fosse un film sui sogni).
Il cinema di riferimento cui Nolan dice di rifarsi è quello della grande fantascienza per famiglie anni '80, quella che porta il nome tutelare di Steven Spielberg sulle spalle. Eppure ciò che viene a mancare in "Insterstellar" è proprio la magia, il senso dell'avventura e la fascinazione per l'ignoto e l'esplorazione. Qui tutto suona maledettamente famigliare e derivativo, e non c'è mai nulla in grado di sorprenderci veramente.
Il "dove nessun uomo è mai giunto prima" sembra aver perso il suo stesso motivo di esistere. Sono cambiate le coordinate: Nolan si rivela incapace di costruire un'atmosfera, una sequenza filmica senza ricorrere alla soundtrack onnicomprensiva ed estenuante di Hans Zimmer. D'altronde già la sceneggiatura si rivela molto meno complessa di quanto la massicia campagna di marketing lasciava sperare. Dialoghi troppo spesso imbarazzanti che prendono per mano lo spettatore per (mal) spiegargli, una dopo l'altra, teoria scientifiche e massimi sistemi. La sensazione è che Nolan non creda nel suo spettatore e senta il bisogno di imboccarlo, con un'arroganza che ha pochi precedenti nella storia dei "blockbuster intelligenti" (definizione che mette i brividi solo a pronunciarla). E lo fa con l'ambizione altisonante di chi mira a riformulare "2001" e ha l'audacia (la presunzione?) di replicare un celebre stacco di montaggio di "Solaris", mentre parla dell'Amore come unico motore in grado di salvarci.



Di fronte a una svolta (pre)finale nemmeno così imprevedibile, "Insterstellar" infila uno dopo l'altro quegli spiegoni da peggior cinema hollywoodiano allo scopo di dare verosimiglianza scientifica al tutto. Ancora una volta la parola spiega l'immagine: siamo di fronte a un cinema squallidamente illuminista, completamente convinto che con la ragione si possa piegare l'intero universo (quando il cinema di fantascienza più grande ci insegna che con la ragione non si può nemmeno tentare di spiegare l'uomo).
Non esistono eccedenze, tutto si ritrova all'interno dello schema collaudato di chi, in fin dei conti, non crede in un Altrove al di fuori dell'uomo e della scienza. Non è sempre stato il peccato di Nolan quello di architettare i suoi film come se fossero ingranaggi perfetti? Peccato che un film non è mai una teoria scientifica, ma questo Nolan l'ha dimenticato. Eppure, a ben vedere, perfino questo schema collaudato presenta delle falle: finali posticci, incoerenze scientifiche, naufragi tra buchi di sceneggiatura e tre ore di durata (per dire, in fondo, che cosa?)
Il vero peccato, d'altronde, è avere wormhole, viaggio spazio-temporali, catastrofi naturali, e mancare completamente di cinema. E quando speri in un po' di silenzio ti rendi conto che lo spazio immaginato da Nolan è davvero una cosa noiosa.

martedì 4 novembre 2014

Coreografie della mente: Scarpette Rosse




Rimango ancora una volta sbalordito di fronte al technicolor rosso fiammeggiante di "Scarpette rosse" di Powell e Pressburger. Gli occhi entrano in visibilio al cospetto della lunga sequenza in cui viene rappresentato il balletto tratto dalla fiaba di Andersen. Esempio folgorante di come filmare la grazia - e la violenza irrefrenabile - della danza facendoci dimenticare completamente di un palcoscenico.
Lontani anni luce da qualsiasi ipotesi di teatro filmato, Powell e Pressburger muovono il corpo della giovane protagonista all'interno delle fantasie ectoplasmatiche del cinema. Immagini incredibili popolate di mostri e spettri danzerecci, dove il primo piano appare come squarcio dello schermo, collisione estrema tra soggetto guardante e oggetto guardato. Lo spazio rinuncia alla chiusura del palcoscenico per aprirsi a una serie infinita di luoghi-altri: il canale di accesso per ognuno di questi luoghi è la nebbia leggendaria che tutto con-fonde.
Il set del balletto si fa spazio rizomatico, coreografia della mente in grado di opporsi a qualsiasi differenza o ostacolo tra interno ed esterno. Tutta quella sequenza mi dà l'idea di un corpo ribollente e grondante di vita, che urla con graziato movimento la sua totale ribellione (che è, inevitabilmente, un'adesione) a un doppio esistenziale.
Perché "Scarpette rosse" è quel capolavoro che racconta la storia di un doppio che ha estirpato il dominio sulle nostre vite, imponendosi sul corpo come un virus potente e imperturbabile, sempre attratto da una pulsione di morte (che è, insieme, chiusura del sipario). Sono le scarpette rosse a condurci, a piegare la trama alle necessità crudeli e implacabili del racconto.
Del resto al centro c'è un triangolo amoroso che riporta "Scarpette rosse" all'interno di quel cinema della crudeltà necessaria e inevitabile che echeggia i diabolici furori sternberghiani e anticipa i turbamenti fassbinderiani.

giovedì 30 ottobre 2014

Errando sulle rovine tra Rossellini e Malick




Esalazioni di un mondo sopravvissuto alla catastrofe: "Viaggio in Italia" è sempre stato per me l'ultimo film, l'opera posteriore a tutte le altre, quella capace di camminare tra le rovine di un paese che si trova oltre la fine della Storia (la seconda guerra mondiale come guerra ultima, definitiva, inevitabile punto di non ritorno dell'umano). I personaggi erranti di Rossellini sono, non a caso, un Lui e una Lei, esili esistenze che vagano in terra straniera: nella speranza che il sentimento possa germogliare dall'aridità, che il fiore possa crescere di nuovo tra le rovine della Terra (e della morale). Con un salto avanti gigantesco, tanto audace quanto stimolante, i protagonisti di "To The Wonder" sono dei novelli Lui e Lei, non-esistenze in cui rispecchiarci, ipotesi di umanità che errano tra i resti dell'uomo. In ciò che viene dopo il cinema, non c'è più posto per psico-sociologie, rimangono gesti e movimenti, mappature di luoghi che possono sussistere anche (e perfino) senza gli uomini. La meraviglia è allora quel sentimento struggente e inquieto che ci dà movimento, ci mette in moto verso qualcosa di tragico eppur sublime, proprio perché irraggiungibile. Questi spettri erranti sembrano morti che camminano ben consci dell'impossibilità di un ritorno, di una rinascita, di un nuovo, auratico albero della vita. L'unico dono che esiste è allora un abban-dono (penso e ripenso che ogni uomo è la fragile testimonianza della sua sconfitta: ricordiamoci che "Viaggio in Italia" inizia con la domanda "Dove siamo?" a cui segue "Non te lo so dire") Sarebbe bello vederli insieme questi due film, farli lavorare l'uno nell'altro, indagarne i frutti, svelarne le tensioni e, forse, riscoprirne l'insospettabile compattezza.

mercoledì 29 ottobre 2014

I pericoli delle funzioni narrative
Class Enemy di Rok Bicek




Cinema didattico come si faceva una volta che, nonostante il difficile tema trattato, riesce a mantenersi in equilibrio per tutta la durata, senza mai scivolare nella retorica o nella melassa dei buoni sentimenti. Con una messa in scena algida e completamente al servizio della narrazione, l'opera prima di Rok Bicek sa essere asciutta e rigorosa almeno dal punto di vista registico. Dove cade è in un certo schematismo di fondo che delinea un po' tutti i personaggi: figure che sono troppo spesso trattate come funzioni narrative tagliate con l'accetta. Basti pensare alla sequenza dei genitori - troppo stereotipata per esser credibile - o alla costruzione del protagonista stesso del film. Il professor Zupan, come gli altri personaggi, è già un programma, privo delle sfaccetature e delle complessità che un'opera morale come questa dovrebbe possedere. Di conseguenza "Class Enemy" è un film solo in parte riuscito, e lascia l'amaro in bocca perché - tra una sequenza e l'altra - pare di poter scorgere il film che avrebbe potuto essere e che, purtroppo, non è.

Restauri del cuore
Operazione paura di Mario Bava




E' stata, senza dubbio, una delle esperienza più memorabili del festival del cinema di Roma 2014: mi sembrava di tornare bambino alla corte di terribili spettri e antiche maledizioni. Conserverò sempre l'esperienza memorabile di vedere "Operazione paura" di Mario Bava restaurato su grande schermo. Dalle grida iniziali che ci gettano già nel torpore di un incubo, al tetro, distorto finale che più che a un happy end assomiglia all'impossibilità fisiologica di un vero risveglio; dagli zoom strepitosi che sembrano proiettili sparati dallo sguardo, alla macchina-altalena che ci avvicina e poi ci allontana, senza mai permetterci di avanzare realmente. E come dimenticare poi quella palla, iconica e leggendaria per qualsiasi amante del cinema horror, che rimbalza sulle scale lanciando lo spettatore all'interno di una vera e propria vertigine senza fine? Gloria a Mario Bava, gloria a questa rassegna sul gotico italiano e - a questo punto - gloria a Joe Dante, "maestro di cerimonia" e perfetto introduttore del mondo da cui è nato il suo cinema.

La morte spiegata ai bambini
Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet




Con mia grande sorpresa - poiché non apprezzo affatto il cinema confezionatissimo dell'autore di Amélie - l'ultimo film di Jeunet l'ho trovato un piccolo gioiello. Probabilmente il regista ha trovato il suo terreno più congeniale nel road-movie avventuroso per bambini, nel viaggio iniziatico che mette fine all'infanzia. Il suo film è curioso nel raccontare a un pubblico giovanissimo temi arditi come la morte o come, in maniera ancora più esemplare, l'esibizione mediatica di una singola esistenza. E' un film che scorre delicatamente, tra scenari meravigliosi e splendide sequenze che avrei voluto vedere da bambino: nel suo viaggio negli USA ha perfino il coraggio di deridere esplicitamente l'immagine degli americani, spettri luccicanti e velenosi che avanzano nel regno dell'apparenza. Scritto assai bene, senza lungaggini o invasioni musicali, il film di Jeunet mette in scena perfino una sequenza "oscena" agli occhi di un bambino, ma che, grazie alla sua stessa struttura narrativa,viene metabolizzata in modo esemplare. Poi, certo, il suo rimane un cinema sempre uguale a se stesso, così tanto innamorato della bella immagine da rischiare sempre di depotenziarsi. Eppure..

Lulu di Luis Ortega




Opera che gira a vuoto per tutti i suoi ottantaquattro minuti di durata, e - badate - questo non è da leggere assolutamente come un problema. Nel suo non avere direzioni, nel suo "perdersi" insieme ai due protagonisti, "Lulu" è un oggetto filmico affascinante e seducente. Peccato solo che il gioco funzioni per la prima parte del film, finendo per diventare stucchevole man mano che avanza. Alcune sequenze mi facevano ripensare a "Les amants du Pont neuf" del mio amato Carax,per un certo modo di muoversi e di agire nello spazio, per una certa furia distruttrice propria della coppia di protagonisti. Ma qui quello che manca è la vitalità dirompente e devastante del vagabondaggio, la forza, l'irruenza, ma soprattutto la vita. Alcune sequenze sembrano troppo costruite per crederci realmente, e alla fine si finisce a osservare un film sbiadito che, paradossalmente, caccia all'infuori di sé la realtà stessa dei suoi personaggi. All'ennesimo balletto della protagonista capiamo direttamente che c'è una troupe che la sta filmando, e questo, in un film del genere, non va affatto bene. Un peccato, anche perché l'aspetto più interessante di Lulu è proprio come Ortega filma la città e i non-luoghi metropolitani: un regno di solitudine e spaesamento infinito, che può essere ricomposto e riformulato solo da chi ha sempre vissuto ai margini della società.

domenica 26 ottobre 2014

Last Summer mi ha fatto piangere




Nel caos onnivoro e chiassoso che ci avvolge, nella masnada di immagini che sommerge ogni spettatore contemporaneo, la visione di "Last Summer" si rivela un potente collirio, una gentile e benefica medicina che ci avvolge in un cinema che pare "straniero", come se fosse un Ufo piombato in Italia.
Il film di Seràgnoli, giovane esordiente italiano, è un'opera che respira gran cinema inquadratura dopo inquadratura. L'aspetto più sorprendente è la sua stessa idea di tempo cinematografico: ogni immagine ha una sua durata interna, una sua geografia che pare costruire la mappa emotiva dei protagonisti. La musica non invade mai l'immagine, tranne quando viene necessariamente evocata (come nel finale): un'idea di cinema purissimo, ascetico, minimale, che rispetta il suono e l'attore, che s'innamora di un gesto, di un movimento, e riporta ogni elemento allo sguardo e alla luce. Con un rigore quasi sconosciuto, la storia si riduce a un rapporto negato, a un incontro madre-figlio dopo tanti anni di distanza. Tutto il film di Seràgnoli racconta l'avvicinamento progressivo di due corpi, illuminando ogni sottigliezza, ogni piccolo gesto, ogni singolo particolare come se si trattasse di un climax improvviso. Tutto è in primo piano, nella dimensione stessa in cui non avviene nulla d'importante, nulla di davvero narrativo: per questo ci si ritrova a navigare solitari in un mare di sospensione. Ma il nostro sguardo, solo, difettoso e sconosciuto, cerca di fissare un punto fermo, quel controluce che ci illumina e ci fa innamorare (il controluce segreto che nasconde perfino il volto più austero).



Penso e ripenso alla sequenza più bella del film, quella dolcissima in cui madre e figlio si riconciliano durante l'ultima notte: una luce che ricordo caldissima, quasi infuocata (non importa se poi non lo era davvero), primissimi piani che bucano lo schermo, rivelando l'oceano di tenerezza sconfinata che è nascosto dietro ogni viso. In quella sequenza straordinaria Seràgnoli scopre quel volto negato che non fu mai conforme alla faccia, mentre sonda la verità di un sentimento naufragato.
Negli slittamenti emotivi, nelle mani che si sfiorano, nel sorriso di un bambino, negli occhi di una madre: "Last Summer" è "solo" questo, ma in questo "solo" c'è più cinema, più amore, più passione che in tre quarti nella produzione cinematografica nostrana.
Inoltre l'ambiente in cui è ambientata tutta la vicenda completa perfettamente il senso del film: una barca in mezzo al mare che conchiude e insieme svela tutte le potenzialità di un affetto. Gli occhi lanciano lo sguardo verso l'orizzonte, l'espressione si tinge di malinconia, i limiti di una relazione superano i recinti di una struttura navale.

post scriptum necessario e al di fuori di ogni presunta, stupidissima oggettività: "Last Summer" mi ha fatto piangere. Di conseguenza nessuna ricognizione critica, nessuna parola, sarà mai sufficiente a "dire" ciò che provo. Non posso fare altro che consigliarlo, visto che il film avrà anche una distribuzione in sala.