sabato 18 agosto 2012

Slapstick&Keaton: torte in faccia all’uomo meccanico.


“Bisogna nutrire gli occhi per i sogni della notte”

(Denis Lavant in “Mauvais sang” di Leos Carax)




Scrivo mentre scorre “Sherlock Jr.” o, se volete, “La palla n.13”. Lo vedo, lo rivedo, torno indietro, fermo l’immagine. Il meccanismo del fermo immagine mi porta a fare associazioni improvvise, a riscoprire Buster Keaton in tutta la sua pulsante staticità. Stasi come condizione co(s)mica, nemesi e assieme origine del movimento. Ridere di qualcuno, non ridere con qualcuno, parafrasando il codice Keatoniano. Recitare distanti o, forse, recitare la distanza. Fare del cinema un sogno meraviglioso, una fiaba incantata dove nuove leggi sfidano la realtà. Faccia di pietra per geniale intuizione, il volto di Keaton è il segreto mai svelato del cinema muto e dei suoi eroi, è l’emozione derivante dalla sottrazione (mimica ma anche registica/ideologica) ed è, soprattutto, mediazione uomo-macchina (si pensi a “The electric house” piuttosto che a “The Cameraman” ma anche allo stesso “Sherlock Jr.”). “Sherlock Jr.” è straordinario fin dalla prima, programmatica inquadratura. Ma ci si potrebbe spingere ancora oltre affermando che l’intero film si trovi già nel singolo fotogramma che compone quella prima inquadratura, come se si trattasse di un autentico film-frame. Il film-frame, come mi piace definirlo, è il segno di un’essenzialità ascetica e compendiaria, onnicomprensiva e già definitiva. E’ come se Keaton stesso dicesse (in politico e poetico silenzio): qui ci si siete voi, pubblico pagante, e qui ci sono io, Buster Keaton. La cornice decade, ogni possibile linea di demarcazione, per quanto sottile, viene annientata. Ma facciamo un passo indietro. Cosa vediamo? A) Una sala cinematografica. B) Il luogo stesso in cui ci troviamo vedendo il film. C) Un riflesso. D) Al cinema il cinema. La sala è vuota ma in fondo, all’ultima fila di destra, è seduto Buster Keaton e sulla sedia accanto alla sua è posata una scopa. E’ tutto chiarissimo, non c’è bisogno di alcuna parola. Conosciamo già il mondo in cui il personaggio si muove e, senza alcuno sforzo, abbiamo già compreso che lavoro fa. La seconda inquadratura è ancora un progetto narrativo: siamo su un campo più stretto dove lo spazzino, con vigile attenzione, legge “How to be a detective”. L’inquadratura è narrazione stessa: a pochi secondi dall’inizio del film capiamo già il conflitto di quest’uomo. Spazzino in un cinema ha aspirazioni più grandi: sogna di diventare un detective per uscire da un mondo ordinario fin troppo noioso. E quando nella terza inquadratura arriva il direttore del cinema e vede la noncuranza del suo dipendente, lo rimette subito in riga. La frustrazione del nostro eroe, costretto a spazzare, è ancora più evidente. Si toglie il baffo finto (rientro nell’ordinario) e smette di sognare.



Il segreto del muto, di cui si è parlato in continuazione senza mai riuscire a scoprirlo o a riproporlo, risiedeva forse in una semplicità immacolata e genuina, nel riportare tutto all’unità fotogrammatica, nel creare mondi e disfarli in pochi secondi, nell’essere demiurghi di un’essenzialità scevra e immaginifica, nemica del (nostro) tempo e del (nostro) spazio. (Apro parentesi per scrivere qualche parola sul caso “The Artist” di Hazanavicious. Il vero motivo per cui nel film francese manca completamente un’idea vera di cinema muto ((o almeno una rielaborazione del suo segreto)) risiede nella totale, lusingata costruzione, nella chiara volontà che la controtendenza diventi moda. “The artist” mostra l’essere muti per far rumore. Non dice in silenzio né dice il silenzio. E se si toglie al muto la sua verità non rimane che un’operazione commerciale e per nulla anacronistica, nascosta e giustificata dalla sinistra logica dell’omaggio).
Keaton, più di chiunque altro, aveva scoperto il segreto del muto e l’aveva applicato al suo personaggio, oltre che alla narrazione. Aveva intuito, prima di tutti, le vere potenzialità di un cinema che annullava i retaggi del teatro, della letteratura ma soprattutto della realtà. Un cinema vero, mai reale. Un linguaggio autonomo, specifico, dove le emozioni dovevano nascere in silenziosi sottotoni di atletico dinamismo. Il corpo e la sua caduta, le leggi della slapstick come leggi di un verosimile solo cinematografico. Buster Keaton, prima di essere attore o regista, era la prima incarnazione del cinema stesso. Esatto, Keaton era il cinema, o quantomeno il corpo del cinema. Era materia sognante dalla massa indistruttibile, come un blocco elastico con un solo punto debole: il cuore. Deriso, picchiato, caduto, si rialzava esattamente come prima, ma se lo toccavi al cuore entrava in cortocircuito. Ma cosa stiamo descrivendo? Forse non il corpo di una macchina ballerina dotata di ironica grazia e infantile candore? Le macchine non muoiono mai e quando mai il nostro Buster è morto? Possiamo considerare il corpo slapstick come il primo corpo-macchina del cinema? Non è la macchina di ottant’anni dopo, certo, non è il corpo dei film di Cronenberg o Tsukamoto che raccontano la morte dell’humanitas. E’ un corpo che ha memoria del suo essere uomo e che ha la sua debolezza – o forse la sua forza – nei sentimenti. E’, soprattutto, un corpo-macchina che sogna. Digressioni obbligate da fascinazioni animate: il verosimile slapstick decadrà, Chaplin parlerà (e Charlot morirà) e il cinema imiterà la realtà. Il verosimile irreale della commedia slapstick dove la caduta non era morte perché la morte non era mai stata inventata, diventerà invece il predominio del cinema d’animazione. Cartoni animati come unici eredi del cinema comico muto. Il corpo, la carne del personaggio animato, è la stessa di Mark Sennett, Fatty Arbuckle e tutti gli altri con le facce sporche di torta. In quest’ottica Paperino è fratello di Buster Keaton e Harold Lloyd. E se si muore si rinasce l’ora dopo o il giorno dopo. Dunque la morte non esiste, urla lo splapstick. Willy il Coyote muore ogni mattina e il giorno dopo è di nuovo in pista. L’arte della variazione deve tenere conto delle regole salde: il ciclo della rinascita e la vittoria obbligata di Beep Beep. Se Beep Beep perdesse quel sistema crollerebbe immediatamente, vittima di un paradosso che annienterebbe la logica di un intero mondo. Buster Keaton è sfortunato e non c’è storia che non implichi un inseguimento continuo tra obiettivo e ostacolo. Questo regno immaginifico (il cinema d’altronde) è un mondo dove la morte è stata negata. Proprio come nei sogni. Non è un caso che nel franchise più fieramente antirealistico degli ultimi anni, “Mission Impossibile”, sia subentrato Brad Bird, regista di film d’animazione, che trasforma completamente Tom Cruise in un cyborg che scala grattacieli e sfida tutto e tutti, ma non ha mai un capello fuori posto.
“Sherlock Jr.” (pre)vede già tutto questo. E’ irrilevante se Keaton ne fosse cosciente. Qui non solo viene raccontata la storia di un riscatto in un mondo straordinario che poi influenzerà anche quello ordinario, ma viene svelato il futuro, le possibilità di un cinema che “immerga”, di un film che possa essere vissuto, delle icone e dei modelli “fantastici” e, soprattutto, della realtà che insegue il cinema. Il cinema come immaginario ingombrante e gigantesco, più vero del reale. La realtà è invidiosa e povera e ha bisogno di qualcuno che la sovverta o la reinventi, dunque, in entrambi i casi, che la completi. Completare una realtà che di per sé non è completa, ma anzi è inesatta, è (im)parziale, è dimentica di uno o tanti dieci cento mille mondi perché troppo concentrata sul suo mondo, sul suo uomo. Come agire, si chiedevano, si chiedono i cineasti. Il cinema, in quanto completamento, viene chiamato a disvelare il reale. A scoprirlo e a portarlo alla ribalta. O meglio: volere che il cinema scopra. Riformulo alla Bunuel. Voglio che il cinema mi scopra qualcosa. Ed ecco Keaton baciare una donna emulando il suo doppio cinematografico. La realtà emula il cinema e arriverà (ed è arrivato) il giorno in cui il verosimile avrà più credibilità del vero. E allora che cosa succederà?

Un uomo tirerà una torta in faccia ad Eric Packer*


* “Cosmopolis” di David Cronenberg.