domenica 26 ottobre 2014

Sull'immagine che vince la giustizia
Gone Girl di David Fincher




In un festival del cinema di Roma che prosegue in modo piuttosto mediocre, dove ciò che eccelle è la miracolosa furia di un grande regista (Miike con "As The Gods Will") e la struttura minimale e dolcissima di una nuova scoperta (Seràgnoli con "Last Summer), mi imbatto improvvisamente e inaspettatamente in quello che, per una volta, senza troppi preamboli o discorsi, è un autentico capolavoro. Non ho mai straveduto per David Fincher, con la felicissima eccezione di due film adorati e importantissimi quali "Seven" e "Zodiac". Ma "Gone Girl" è qualcosa di davvero incredibile. Formulando un postulato, si potrebbe dire che "Gone Girl" sta agli anni '10 come "Seven" agli anni '90 e "Zodiac" agli anni zero.

"Gone Girl" è un thriller. E già questo è un dato di fatto, non un'etichetta appiccicata a posteriori, ma un thriller autentico a livello strutturale. Opera dalla scrittura eccelsa, lavora su una pista narrativa che, nei suoi innumerevoli snodi, viene continuamente ribaltata: ogni coup de théâtre viene portato fino al suo parossismo, il verosimile vince continuamente il reale, in un duello dove la posta in gioco sono le leggi stesse del racconto cinematografico. Siamo in un Alfred Hitchcock esponenziale che è, soprattutto, riflessione narratologica squarciata nello stesso atto di farsi e disfarsi del film. Ma, per una volta, la struttura non cristallizza l'opera, non la blocca in un prodotto di puro ingegno, ma, con il veicolo mediatico (vero protagonista), la trasforma nell'incubo deforme della famelica, onnivora società delle immagini. La favola posticcia generata dal regno dell'apparire duplica il film in una serie di doppi che si incrociano, si scontrano, e poi, improvvisamente rinascono. Dalla protagonista, se stessa ma anche, e soprattutto, suo alter-ego letterario, a ogni gesto, atto o movimento, che sdoppia mediaticamente il soggetto. I protagonisti del film sono scissi, frazionati, spaccati, lontani da una qualsiasi unità identitaria.



Fincher getta i suoi mostri in un abisso teorico popolato di spettri narrativi, false piste e retaggi di un altro cinema (di un altro mondo). Lavora sul punto di vista ribaltandolo in continuazione, slittando dai dettami della sorpresa a quelli, hitchockiani, della suspance. Si ha quasi l'assurda impressione che altri film s'insinuino lungo le retrovie della narrazione, per deragliarla dall'interno, mentre il ritmo procede incalzante come mai, svelando tutta la sua folgorante imprevedibilità. Tra sequenze da manuale e momenti bellissimi, incrostati entro la patina dell'inquadratura, avanzano uomini deificati a star. Del resto aver usato un attore celebre per la sua inespressività, come Ben Afflek, si rivela una mossa geniale.

Ma, cosa più importante di tutte, Fincher firma il suo apologo sull'immagine che vince la giustizia. E in questo è davvero un film importantissimo.

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