venerdì 8 marzo 2013

ORFANI DI REALTA' #15
Il ritorno dell'Angelo sterminatore




Terra due. Specchio (riflesso). Guardando sei guardato.
Siamo ormai all’ultimo capitolo di “Orfani di realtà” e mi ritrovo a pensare ad “Another Earth”, interessante opera prima di Mike Cahill. Un pianeta speculare al nostro che ospita, presumibilmente, un’altra versione di noi stessi. Questa copia (o originale? O copia della copia? Ma che ha importanza ha poi?) ha fatto altre scelte, ha preso altre strade o direzioni. Mentre ci guardiamo possiamo immaginare tutti i possibili what if di ieri, di oggi e di domani. E' questa l’intuizione interessante di un film tutto volto a rintracciare uno dei principi base della narrazione in toto: poter pensare al condizionale, immaginando infiniti come se. Del resto il cinema (come ogni letteratura) è sempre stato scritto al condizionale, mentre quella che chiamiamo “realtà” (obbligatoriamente tra virgolette) è vittima di un indicativo imperante.
Ma è interessante notare come il fenomeno del what if si generi, sempre più spesso negli ultimi anni, dall'esperienza del lutto (o meglio, dall'elaborazione del lutto). Sembra proprio che tanto cinema recente ci stia letteralmente dicendo che per immaginare e vivere una nuova vita, per rifondare la visione e guarire gli occhi, sia necessario morire, simbolicamente o letteralmente. La palingenesi dello sguardo, quindi, richiede come espediente narrativo la morte, e si presenta, di conseguenza, come una nuova, vitale elaborazione di questo lutto. I collegamenti sono subito immediati: quando Terrence Malick torna a vedere per la prima volta ha bisogno di una scomparsa, di un immediato tangibile non esserci; la morte del fratello del personaggio di Sean Penn che, sebbene non venga mai mostrata, è l’ombra oscura ma fondante di “The Tree of life”. Oppure, ancora, vediamo la morte come assenza di azione, come quella depressione o melanconia che avvolge il personaggio di Kirsten Dunst nel primo tempo del film. Questo stato di distanza dagli altri, di morte apparente, è l’unico modo possibile per poter “sentire” il mondo e i suoi mali, per poter aspettare la fine con nuovi occhi e senza paura, arrivando perfino a poter amare quella fine. La morte è il punto di non ritorno per un viaggio: “Faust” di Sokurov sta lì a testimoniarlo.
Ecco che la scomparsa da questo mondo (e di questo mondo) si profila come ipotesi di apertura e di narrazione, come unione panteistica tra microcosmo e macrocosmo.



Perfino un film solo in apparenza più innocuo e meno teorico come “Skyfall” viaggia in questa direzione. Assistiamo, difatti, alla prima, clamorosa morte di James Bond. Ed è questa morte a poter generare una resurrezione e una nuova, umanissima versione dell’agente 007: solo morire ha permesso a James Bond di essere un uomo come tanti, di uscire dallo spettro supereroistico per profilarsi come individuo dolente e fragile, depresso e dubbioso, in preda a un’autentica crisi d’identità che non ha precedenti nella sua storia. Stiamo parlando di un eroe che non passa i test psicofisici e che è succube di un matriarcato ormai esplicitamente crudele: una vera e propria rivoluzione portata da Sam Mendes e dal suo staff. Rivoluzione che molti hanno giustamente individuato nella progressiva, inevitabile Nolanizzazione di Hollywood. Che Christopher Nolan abbia portato alla ribalta il supereroe stanco, fragile, non più invincibile (che può anche morire) è evidente a tutti: da questo punto di vista la trilogia di “Batman” rappresenta il punto di non ritorno che ha inevitabilmente oscurato il destino e il futuro delle grandi saghe (nel bene e nel male).
E’ una direzione interessante ma pericolosa, demitizzante e in equilibrio precario: se i supereroi possono morire allora è ovvio che il cinema immaginifico e "impossibile" rischia di andare sempre di più nella direzione della “realtà” (con tanto di ovvi riferimenti alla crisi economica, all’11 Settembre, al terrorismo e al crollo della borsa). Ovviamente il rischio è che la vita ordinaria rischi di stabilizzare e quotidianizzare il fantastico (per poi, eventualmente, farlo rinascere e rivendicare come nel finale fiorentino ed imbarazzante dell’ultimo mediocre Batman). Di conseguenza se l’ultimo Batman è stato vittima e manifesto di questo processo perdendo, nel suo essere cinema d’attualità, tutta l’immaginazione del primo Nolan (mi riferisco a “The prestige”, “Insomnia”, “Following” e non certo dello sterile e per niente onirico “Inception”), “Skyfall” si è presentato al contrario come una rivoluzione interessante ed abissale (il rischio, semmai, sarà nei prossimi capitoli). Comunque staremo a vedere. Certo è che basta osservare il trailer di “Star Trek – Into the Darkness” per rendersi subito conto di questo processo di Nolanizzazione dei blockbuster.



Torniamo ancora alla morte come anticamera della nuova narrazione. Gioca su questo il sempre citato “Holy Motors” che potrebbe ergersi a manifesto epocale di un cambiamento, come l'epitaffio dell'identità (chi non muore non è) e documento prezioso e visionario sulla continua trasformazione della narrazione. Qui, addirittura, la morte non esiste più. Tutto è simulato (esatto contrario della tangibilità dell’universo Nolaniano).

Epilogo

Simulazione come indice sommario degli “Orfani di realtà”. Non-luoghi che avanzano ipertrofici, mondi che si rinchiudono e recludono: internamento del mondo. Abbiamo visto tutto questo nei 15 pezzi che compongono i nostri "Orfani di realtà". Torno spesso a “Carnage” di qualche anno fa perché duetta bene con “Io e te” o “Killer Joe”. Ciò che mi interessa è quella forza invisibile che, in modo più o meno evidente, obbliga i personaggi a non uscire più dalle proprie gabbie. Sembra proprio di tornare a cinquant’anni fa, chiudendo idealmente un cerchio tra i più interessanti della storia del cinema: che l’angelo sterminatore sia il collante di questi mondi, come forza invisibile e irrazionale che nega la volontà degli uomini, recludendoli nelle gabbie da loro stessi create.
In Bunuel c’è già tutto questo.
La barriera è invisibile e non ha assolutamente senso. L’unico modo per superarla è continuare a recitare: attraverso l’analogia – e non la ragione – tutto potrà tornare in (dis)ordine. Nel frattempo lo spettacolo deve continuare. A noi la simulazione.



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