martedì 22 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #4
"Killer Joe"



Trama semplice ma crudele: il giovane Chris convince suo padre ad assumere un sicario, il killer Joe del titolo, allo scopo di uccidere la madre ed intascare così il premio dell’assicurazione. Killer Joe, non potendo essere pagato in anticipo, si prende come garanzia la sorellina di Chris.
Verrebbe da dire che gli anni non passano.
Verrebbe da dire che William Friedkin rimane un regista crudo, sporco, cinico e violento.
Ed è vero, verissimo. Non ha perso una traccia del suo efferato, lucido nichilismo, ma qualcosa è cambiato. Sotto le pelle di questo noir postmoderno ho avvertito una strana pulsione dominante, come una carica propulsiva che sembrava calamitare i personaggi agli interni, agli spazi domestici, ai locali e ai night club. Probabilmente è la stessa forza invisibile, la stessa impercettibile ma grandiosa vibrazione che obbligava i personaggi del "Carnage" Polanskiano a non lasciare mai l'appartamento. Ora è chiaro che non si tratta di un kammerspiel alla "Carnage" anche perché in "Killer Joe" si possono contare diversi esterni. Ma il fatto è che ogni esterno sembra come proteso ad annullarsi, a lasciar trasparire un fondo opaco, traducendosi in una povertà di luoghi e situazioni, in un'impossibilità di andare oltre.
E' come se l'esterno fosse già, prima di tutto, interno. L'aria aperta non esiste (più?), è una gabbia recintata, con lucchetti e cancelli, memori di quel “No Trespassing” che ha cambiato inevitabilmente la sorti del cinema.
Ritorna subito, impellente e necessario, il tema centrale che avevo rintracciato in “Cosmopolis”, ovvero quello di un mondo, scatola-cervello, che traccia nuove superfici e geografie, internandosi per bisogno di autosostentamento, organizzazione e controllo. O, ancora di più, "Take Shelter" dove il protagonista si rifugia in un bunker sotterraneo assieme a moglie e bambina, allo scopo di salvarli da un'apocalisse annunciata. Ma l'apocalisse non è quella del mondo bensì quella della psiche. In questo paradigma instabile la tragedicommedia dell'umanità non si può che consumare in interni: in "Killer Joe" si gioca al massacro in casa e la vittima sacrificale è, ovviamente, la famiglia.
Ne deriva un’impossibilità di evasione, una fatalità cieca e senza via d'uscita.
Emblematico, da questo punto di vista, il fallimento di qualsiasi prospettiva di nuova vita da parte di Chris: il desiderio impossibile di scappare con sua sorella lontano dalla famiglia, da killer Joe e dal mondo conosciuto. A umiliare il sogno c'è questa nuova, solitaria geografia: il confine texano, un fiume che separa un esterno da un altro, che li internizza creando barriere percettive invalicabili. Morte della continuità spaziale e vita delle isole.


Esistono solo un’al di là e un al di qua, senza un prima e un dopo, in mancanza di qualsiasi nesso o stabilità: mondi diversi e paralleli, esistenze impossibilitate a convergere ma capaci di guardarsi solo a distanza (e immaginarsi, sognandosi/sperandosi non speculari). Ed è così che il mondo si è fatto minuscolo.
Anche gli inseguimenti, famosi nel cinema di Friedkin (questa volta in moto e a piedi), hanno perso il loro ossigeno per trasformarsi in autentici cul de sac. Le strade sono sbarrate e a senso unico, non c’è più alcuna via d’uscita.
Non si vive e muore più a Los Angeles, non c’è più alcun braccio violento della legge (non c’è più legge verrebbe da dire), ormai la tragedia umana è una commedia d’interni. Come Polanski, oltre Polanski. Il problema, ancora più grande, è che questi interni hanno perso la loro sacra identità, che le famiglie che li abitano sono diventate unioni perverse, unità coese solo (e non sempre) geneticamente ma oscure e inconciliabili socialmente. Gioco-rimando scorrevole e ipnotico, il non-luogo si è fatto casa (e famiglia).
Sotto questa luce oscura Friedkin non può che lavorare di contrappunto, nella direzione di un’ironia impetuosa, che trasforma l’azione in un gioco parossistico dove improvvisi slanci di violenza sembrano irrompere e squarciare lo schermo. La distruzione di una famiglia, ancora una volta disfunzionale, avverrà con l’aria scanzonata della beffa. L’America della speranza, dell’happy ending e del sogno è svanita per sempre sepolta dall’irriverenza del non-sense.
Friedkin indaga furibondo e divertito, perché è l'ironia l'unica forma di narrazione (e di riscatto) possibile e, soprattutto, la sola, politica manifestazione di una rabbia lucida e rinvigorita.
Il Killer Joe del titolo è interpretato da uno strepitoso Matthew McConaughey alle prese con la miglior prova della sua carriera. In questo perfetto meccanismo a orologeria Friedkin dimostra – una volta di più – come dietro alle pieghe del terribile e dell’osceno si nasconda sempre l’esilarante: gli ultimi venti minuti sono puro, violentissimo divertissement. Dal sesso orale applicato a una coscia di pollo al gioco al massacro in tempo reale. Il fatto è che questa spirale di determinismo e fatalità, di nichilismo e mostruosità, non provoca più nessuno spavento, anzi, fa solo ridere. Ecco il punto! Moriremo dal ridere e niente farà più differenza: il film si spezza dopo il massacro, quando Joe scopre che la (sua) ragazza è incinta. Schermo nero: e questo è l’unico, delirante, coraggiosissimo lieto fine possibile.
Grande Friedkin, il suo è cinema politico fino al midollo.

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