giovedì 24 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA' #5
"Hunger" (sotto la pelle, oltre la carne)


Corpo camuffato (Holy Motors), imperfetto (Cosmopolis), invaso (Amour), convulso (The Master), umile (A simple life), radiografato (La guerra è dichiarata) ed infine esplorato (C’era una volta in Anatolia): indaghiamo sempre di più quest’esile massa, in attesa di scoprire se non ci sia niente di più profondo della pelle (Paul Valery) o se si possa trovare, tra organi e carne, una verità ipodermica, che non ci vergogneremo a chiamare anima. Corpo, meccanismo autoptico per eccellenza, soggetto-oggetto privilegiato della storia del cinema e dell’arte più in generale.
Nella seconda scena del “Faust” di Aleksandr Sokurov, il dottore, attratto da misteri cadaverici e anatomici, espelleva le budella da un addome squarciato. Indagare le profondità sottocutanee è prima di tutto un lavoro di ricerca, un viaggio nel tentativo di capire dove si trovi il tesoro per eccellenza, l’anima. Forse si trova nei piedi?
Il viaggio cinematografico è quanto di più affine all’analisi anatomica, quella che spinge a guardare più da vicino e a capire se l’essere umano sia un risultato più nobile e misterioso dell’addizione delle singole parti che vestono una carcassa. Emergono ancora dall’oscurità le strane immagini di “The Art of Seeing with One’s Own Eyes” di Stan Brakhage, e quel momento preciso in cui ci guardavamo (cos’è l’autopsia se non un guardarci?) e, inquieti, non ci riconoscevamo. Non c’è incubo più grande di vedere noi stessi. In “Vital” Shynia Tsukamoto si chiede se, espulso ogni organo, si possa trovare traccia di una coscienza ipodermica. (Si potrebbe andare avanti per una vita, tornare nell’Anatolia anatomica di Ceylan, ma è un rimando infinito che ci porterebbe troppo lontani, fino a Cronenberg, a Miike, e a chissà quale altra strana, orientale, cavità oscura).


Ora è chiaro che nell’esordio di Steve McQueen, “Hunger”, uscito in Italia solo nel 2012 dopo quattro anni dalla sua effettiva distribuzione, ci siano diverse tematiche che hanno la priorità, soprattutto a carattere storico-politico, ma non ne parleremo in questa sede. Quello che qui ci interessa è altro, riguarda i limiti del corpo come strumento politico, lo svuotamento progressivo della massa e l’inevitabile decadimento motorio. Non ci sono autopsie perché il fisico è già manifesto intenzionale: nessun demone sottocutaneo, nessun segreto da svelare dal momento che l’ipocoscienza si è già mutata in coscienza, esponendosi in tutta la sua evidenza.
Steve McQueen fa cinema del corpo, o, se preferite, fa del corpo cinema (ma sempre di corpo si parla). Da questo punto di vista sono emblematici i titoli dei suoi due film: il primo, “Hunger”, fame, riguarda quella mancanza che è l’unica vera lotta, la sola, fortissima manifestazione di vita in un contesto (quello carcerario) che la nega. Il secondo, “Shame”, vergogna, meno interessante singolarmente ma stimolante come frammento di un dialogo, riguarda l’eccesso, l’opulenza, la bulimia. Ma la mancanza rimane e si fa ancora più abissale: non si muore più perché affamati ma perché sazi e soli. Laddove il sesso diventa bisogno alimentare il corpo si automatizza, il desiderio si reprime e ci si trasforma in esseri incapaci di amare.
La rivolta di Bobby Sands è quindi quella politica del digiuno e della sottrazione. Assistiamo per ellissi a un corpo che si svuota, che rifiuta il suo pane quotidiano a favore di una causa. Lo vediamo farsi sempre più leggero, come ad inseguire l’aria e il volo degli uccelli in una notte oscura ma magica. Il film di McQueen è ammaliante perché parla di un fisico che si spoglia per poter essere libero e tornare a volare nelle distese immense del cielo. Chi insegue la libertà ad ogni costo dev’essere disposto ad una trasformazione corporea senza precedenti, a una leggerezza (im)mortale, come quella degli uccelli.
Detour. Sono da sempre attratto dalle immagini di uccelli in volo: tornano spesso nel cinema contemporaneo, come a perturbare uno stadio di coscienza antico e nostalgico. Da diverso tempo vorrei prendere un nutrito gruppo di persone e porlo davanti all’immagine di stormi (ormai è l'immagine delle cose e non più le cose stesse a creare empatia e ad avere credibilità). Vorrei rintracciare un rapporto di parentela atavico con questi volatili all’interno della coscienza collettiva, seppure a livello sottile e nascosto. Vorrei individuare quanto permanga un desiderio di ritorno al passato proiettato nel futuro: del resto facciamo di tutto per tornare a volare.
Gli uccelli che compaiono in “Hunger” sono però molto strani, sembrano quelli cupi ed oscuri di una fiaba nordica, come se si trattasse dell’ultima notte dei tempi. Nel film vengono collegati alle immagini delle esalazioni finali di Bobby Sands: inquadrature dall’alto, roteanti e pulsanti di scattante mortalità, riprendono l’effettiva scarcerazione di chi ama la vita. Recluso e ferito, Bobby Sands, non potendo evadere dal carcere, fugge dal suo stesso corpo, cella per eccellenza. Ancora una volta i luoghi non sono altro che proiezioni dei labirinti interni, losche, asfittiche emanazioni di una mente che aspira ad essere libera.
E se il corpo è una prigione, allora bisogna svuotarlo, camminare tra i liquidi corporei, superare il sangue, il vomito e il piscio, e risalire in superficie (o meglio scavare in profondità). Sotto la pelle, oltre la carne.

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