martedì 23 febbraio 2016

Fuocoammare di Rosi




Le solenni sottoesposizioni di "Fuocoammare", i suoi neri, le sue tribolazioni, il suo stesso digitale...le notti strazianti di una Lampedusa che si vorrebbe vedere da vicino, sempre più da vicino, alla ricerca di una piccola, lontana luce che squarci l'oscurità. Quella di Lampedusa non è una storia, ma un contenitore di storie (proprio come succedeva in Sacro Gra): "Fuocoammare" è un'opera liquida come l'acqua in cui, imperterrito, scivola il film stesso...rivedo le immersioni infinite che mi fanno pensare a un altro mondo, a un "portale" per ricominciare a vedere nel buio subacqueo (o, forse, per coprirsi gli occhi). Lo sguardo triste, dolente, quasi inaccessibile del migrante, esplode in tanti piccoli frammenti che sembrano più eterogenei che mai, eppure...eppure si incontrano, al di là delle immagini stesse. L'occhio dell'altro, gonfio di lacrime e dolore, si riflette nell'occhio pigro del piccolo Samuele...i corpi agonizzanti reagiscono (o agiscono assieme) a una stanza da letto con i santini di Padre Pio e della Madonna. "Fuocoammare" è un film sui dialoghi impossibili, sul cinema come atto stesso che scaturisce dall'esperienza, dal dolore ma, soprattutto, dall'amore. Dall'amore di Rosi per le storie che racconta, dal rispetto di un codice morale dello sguardo che pur mette a dura prova (ammetto, ad esempio, che mi sarebbe piaciuto non vedere tre precise inquadrature del film...facile immaginare di quali si tratti). Ma anche queste tre inquadrature, strutturalmente oscene, si inseriscono nella sincerità di chi, ancora una volta, sa cosa significa parlare all'occhio e al cuore di chi guarda.

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