venerdì 20 febbraio 2015

Il mito di Timbuktu




Cinema morale prima di tutto che, in giorni di stress mediatico e terrorismi d'informazione, ha il grande pregio di saper tornare semplicemente - essenzialmente - all'uomo.
Contro ogni facile retorica, contro ogni spettacolarizzazione perversa dell'immagine, contro ogni fascinazione-ostentazione ideologica della violenza, "Timbuktu" si apre sulla corsa di una gazzella e torna al momento che precede lo sparo.
In quella sospensione, in quella rottura, in quel medesimo frangente Sissako intercetta il momento stesso dell'irruzione, dell'insediamento dell'Altro all'interno di un mondo che conserva il sapore del mito. La morte interrompe bruscamente la leggenda. Eppure il gesto filmico di Sissako, dove estetica e morale sono le stessa cosa, è sempre quello del passo indietro, del ritorno al cinema e al suo respiro, allo sguardo languido del singolo che precede oscenità e nefandezze di ogni tipo.
E' sempre più interessante l'istante sacro che anticipa la detonazione, perché sa bloccare il tempo, indagare le pulsioni, identificare traiettorie e discrepanze del reale. Il film vive di questi momenti bloccati nel tempo, in grado di scovare bellezze ancestrali perfino tra le macerie e i detriti dell'umanità.
"Timbuktu" è un esempio prezioso e rigorosissimo di un cinema volto a intercettare l'applicazione continua, pedissequa, terribile del Mito, che si reitera sempre, come una maledizione. E quando poi riflette sull'elaborazione dell'immagine di un video jihadista, innesca immediatamente i meccanismi della finzione e dei ruoli, in un training che riporta tutto, inevitabilmente, alla simulazione, alla recitazione, all'attore 2.0.
Ancora una volta, immagini, grazia e condanna del mondo.

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