«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda» da "L'uomo che uccise Liberty Valance" di John Ford.
Che poi il West fosse il cinema mi è sempre parso chiaro.
Si sono scritte migliaia di pagine sulla fabbrica delle illusioni, sulla sospensione d'incredulità, sul potere dell'immaginario: sul cinema e sulla sua grande illusione. Ma soprattutto sono stati girati tanti film sulla meraviglia del sogno, sulla settima arte stessa che svela meccanismi e magie. Ma io vorrei soffermarmi su quel piccolo atto d'amore, irriverente e scanzonato, che è "Be Kind Rewind" di Michel Gondry. Perché è la storia di chi cerca di proteggere il cinema (e l'immaginario) da chiunque se lo voglia portare via, di chi caparbio, impettito e testardo resisteva alla videocassetta perché non era una questione di qualità ma di memoria analogica.
Lo spunto del film - tutto teorico - rimane geniale: quando le videocassette di una storica videoteca si smagnetizzano non rimarrà altro da fare che rigirare i classici della storia del cinema. Non c'è uno stralcio di ruffianeria in tutto questo, ma l'atto d'amore di chi ha sempre sognato un cinema tutto per sè, da vedere e condividere, da dirigere e recitare.
Nella fede che al cinema - solo al cinema, almeno al cinema - alla fine vincano i sogni, mentre la realtà può anche aspettare fuori dalla sala.
giovedì 4 dicembre 2014
Il cielo sinistro di "A serious man"
E poi, guardando quel cielo sinistro, presagio di una catastrofe ancora più grande, "A Serious man" si configura come c crudele "commedia" della vita, parabola terribile a cui è destinata ogni esistenza: l'ebreo onesto prosegue il suo cammino insidioso, affrontando sciagure e malintesi, vivendo nel silenzio di Dio, in una realtà inevitabilmente deformata e grottesca. Il protagonista, ennesimo "idiota" perbene, uomo serio e probo, viene travolto dal ciclone. Nessuna ragione, il non-sense rimane l'unica religione del mondo: cinema cinico, beffardo e terribilmente ironico, i Coen non lasciano scampo filmando un altro dei loro incredibili manifesti e lasciando allo splendido prologo la chiave di lettura dell'intero film.
Quinto potere: la "cosa" di Lumet
Network ovvero come la televisione divenne il quinto potere: una sorta di "cosa", come la creatura carpenteriana, viva, mutante, pullulante di energie, capace di succhiare il nostro sangue alla stregua di un vampiro (è nato un nuovo organo nel cervello, si sarebbe affermato poi in "Videodrome": lo schermo!). Questa "cosa" vive ogni giorno, insieme a noi, davanti a noi, dentro di noi, mentre elegge nuovi guru e profeti, nuove strade e possibilità catodiche. Sembrava fantascienza d'annata, invece Sidney Lumet firma con "Network - Quinto potere" un film straordinariamente in anticipo sui tempi, su come la televisione sia stata in grado di annientare tutto ciò che veniva prima (il famoso baudrillardiano "delitto perfetto" nei confronti della realtà), modificando per sempre la nostra percezione delle cose.
Il mondo è finito
Onora il padre e la madre
Il mondo è finito, anche se nessuno se n'è accorto.
Ciò che è venuto a mancare è l'ossigeno stesso, al suo posto è rimasto un insopportabile fetore. Gli ambienti si sono compressi a dismisura, l'umanità si è trovata internata in luoghi freddi, squallidi e asettici, cellule prive di qualsiasi personalità. La morale è solo l'eco lontana di chi non ha più un passato da ricordare: ogni sorriso, ogni gentilezza, ogni possibilità di luce si rivela ormai una chimera impossibile da raggiungere. Anche i colori hanno ceduto il passo al grigiume plumbeo che permea ogni cosa: nessuna trasparenza, nessuna onestà, ogni elemento scivola verso il suo retrofondo rozzo e vischioso. E la famiglia, nucleo portante della stabilità umana, nido caldo in cui potersi rifugiare, è divenuta il centro disfunzionale dell'umanità. Ciò che emana quest'unione è l'insopportabile tanfo di una pestilenza senza fine (portata sulle spalle del corpo untuoso e mai così viscido del gigantesco Philip Seymour Hoffman).
Questa famiglia stracciata, umiliata ed offesa, non può che disgregarsi al suo interno, pezzo dopo pezzo, ferita dopo ferita. Ogni segreto viene a galla, così come il circolo infinito di odi, bisogni e rancori che si susseguono senza tregua.
Stanze sudice, geografie putrefatte, teatri di posa di immondizie affettive, legami inverecondi e poi la scopata iniziale di chi, per un attimo, ricorda di essere ancora un uomo. Trovo "Onora e il padre e la madre" lo straordinario apologo che ruota, per tutta la sua durata, intorno al concetto stesso di osceno, radendo al suolo i tabù del borghesissimo buongusto. Ciò che ci restituisce è uno spiacevolissimo, residuale pus che diviene traccia dei legami affettivi di una volta.
Il testamento di Lumet è la crudele chiosa di una carriera che non era mai stata così feroce, così disillusa e, sopratutto, dolorosa. E' d'altronde il racconto di un virus che porta/ha portato/sta portando il mondo alla deriva, fino all'inaccettabile eccesso di rubare al proprio padre e uccidere il proprio figlio.
I comandamenti si sono invertiti, i rapporti umani hanno raggiunto l'acme della perversione morale riscoprendo la loro radice malata e omicida. Sidney Lumet firma un'opera asciutissima, che fa della sua sobrietà lo strumento ideale per tramortire gli occhi di guarda. E poi si spegne.
mercoledì 3 dicembre 2014
I miei vicini Yamada di Isao Takahata
Come in un manga in movimento, stilizzato ed essenziale fino al midollo, "I miei vicini Yamada" fa della bidimensionalità il suo cuore pulsante, mentre utilizza acquarelli per colorare ogni emozione. Il maestro Isao Takahata risponde alle esigenze di realizzare un'opera semplice, ascetica, in grado di illuminare (e, soprattutto, di bucare) la vita quotidiana con un piccolo gesto, qualcosa di buffo o superfluo, forse una speranza o un sogno o un pensiero del momento. Racconti episodici restituiscono un ritratto dell'eccentrica famiglia Yamada, senza preoccuparsi di una narrazione che investa l'intero film, di una consequenzialità tra un momento e l'altro: solo siparietti, piccole situazioni che iniziano e finiscono, ma che, nel loro accumularsi, restituiscono l'inevitabile succedersi di giorni, stagioni e fasi della vita famigliare.
"I miei vicini Yamada" mi pare costruito come un perfetto meccanismo di haiku eterogenei che si sfiorano e s'incontrano per scandire il (non) tempo del racconto. Le dolci parole dei poeti Bashō e Buson riportano il tutto a una dimensione più antica, quasi nel rimpianto di un Giappone che non c'è più o di un'altra vita: in questo rimpianto, sotterraneo, nascosto ma viscerale, si trova il senso dell'intero film.
Ogni momento della preziosa opera di Takahata, riesce a commistionare candore e malizia, passando, senza soluzione di continuità, dalla gentilezza al risentimento, dai sogni proibiti all'adolescenza, dalle prime cotte di gioventù all'inesorabile avanzare dell'età.
Sotto la superficie edificante di una famiglia che, compatta, può superare le insidie del mondo, si nasconde un film ben più amaro e desolante: emerge un senso di frustrazione, di impotenza, di inadeguatezza del singolo nei confronti di un Giappone che è sempre in movimento. Un Paese che non si ferma, che non può fermarsi, ma che ha lasciato i suoi singoli cittadini indietro: troppo lenti per non rivelarsi un peso, troppo goffi per non inciampare, troppo umani per velocità oltreumane.
Tutto dice che bisogna andare avanti, lavorare sodo, stringere i denti, tutto è training morale. Gli Yamada cercano di stare al passo con i tempi, ma non ce la fanno: dimenticano continuamente le cose, accumulano ritardi, non si svegliano la mattina, sono distratti e arrivano alla sera sfiniti.
Emerge un senso di nostalgia infinita, un sentirsi fuori tempo massimo che fa della timida commedia de "I miei vicini Yamada" il dramma pulsante sull'incompatibilità di un paese con i suoi cittadini.
Il piacere assoluto della visione
Billy Wilder
Mi rendo conto che forse sono i film di Billy Wilder gli unici in cui mi lascio trasportare completamente dal potere del racconto. Non penso ad altro se non a ciò che sto vedendo, senza alcuna dietrologia, senza alcun appunto o tecnicismo di troppo. Mi sento catturato, inebriato da ogni singolo incastro narrativo, e, in un secondo, tutto il mare di teoria, tutte le riflessioni, le elucubrazioni infinite, le scuole di pensiero saltano in aria. Ciò che rimane è il piacere assoluto di vedere un film, di lasciarsi coinvolgere, di sospendere l'incredulità per centoventi - dico centoventi! - minuti, di amare ciò che vedi, e ridere e piangere e in caso divertirsi un mondo. Dimentico la regia, la fotografia, la colonna sonora, non noto alcun movimento di macchina, alcun vezzo di montaggio, dimentico gli autori e le teorie, dimentico i libri, dimentico tutto: vedo ogni cosa insieme, totale ma mai totalizzante, quasi un corpo unico ricco di grazia e di brio, e mi scordo - oh sì, mi scordo - il cinema (nonostante i suoi film, soprattutto le commedie, presentino le costruzioni narrative più rigorose e puntigliose di tutto il cinema americano). Forse mi accade anche con Lubitsch o Capra, ma i film di Wilder contengono quell'ingrediente segreto che porta diretti verso il puro, appagante piacere della visione. Penso questo mentre rivedo per l'ennesima volta quel capolavoro assoluto che è "L'appartamento": mi sento felice come un bambino appena salito a bordo di una giostra, provo un entusiasmo, un'ingenuità, una soddisfazione sconsiderata che nessun cinema, perfino quello che amo di più, potrà mai restituirmi. E sto bene.
Miseria e spettacolo: Trash
E' arrivato in sala "Trash" di Stephen Daldry. In giro si parlava del "The Millionaire" dell'anno, cosa che mi aveva piuttosto terrorizzato ai tempi del festival di Roma. Di "The Millionaire" il film di Daldry conserva l'impostazione produttiva: prendere un regista piuttosto celebre e "gettarlo" nel terzo mondo. Dal film di Boyle recupera anche la problematica di ordine morale di trasformare la miseria in spettacolo, di gettarla all'interno di un calderone d'intrattenimento che, eticamente, può davvero infastidire.
Provando a chiudere un occhio (e non è detto che lo si voglia fare o sia giusto farlo) trovo "Trash" un'opera certo convenzionale ma anche sufficientemente riuscita. Sebbe non ami affatto il cinema di Daldry devo ammettere che qui si avverte un buon senso del ritmo, che si propaga per tutta la durata in modo davvero incalzante. Montaggio ferratissimo (ma non videoclipparo come si legge in giro) messa in scena completamente al servizio della materia trattata, scelte di casting azzeccate (i tre ragazzini protagonisti sono meravigliosi e finiscono per oscurare Martin Sheen e Rooney Mara). E' un film, del resto, profondamente (colpevolmente) spettacolare, invaso da tanta (troppa) musica, progettato a menadito per assecondare i gusti delle masse. Si può dunque criticare il tipo di operazione, la sua dubbia moralità, ma, all'interno dei suoi parametri, risulta innegabile che "Trash" sia un film che funzioni.
Riesce a evitare qualsiasi ruffianeria quasi fino alla fine, peccato solo per quegli insopportabili quindici minuti di coda: del resto la maledizione dei finali furbetti ed edulcorati, delle verbosità che vorrebbero "dire" il film quando le immagini ci sono già riuscite da sole, è cosa nota e piuttosto esecrabile. Imbarazzanti ragazze-fantasma e un manicheismo di fondo davvero insopportabile: ma d'altronde c'è da sorprendersene?
post scriptum: mi sorprende lo "scandalo" suscitato dalla sua vittoria al festival di Roma: con una giuria popolare e un'impostazione festivaleria di quel tipo, cosa ci si aspettava che vincesse?
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