lunedì 11 maggio 2015

Sognando Pelešjan




E quando le immagini che vedi non fanno altro che attorniarti, ti viene una gran voglia di fermarti e lasciarti andare. Arrivano in soccorso, come amici lontani, antichi pastori armeni che scivolano lungo i pendii innevati abbracciati all'amato gregge. E allora appare la goffa, tenera sagoma nera di quell'uomo che tentò di salvare una pecora dalle acque torbide di un torrente e, per poco, non finì per annegare. Rimane il fulgido biancore delle nuvole che avanza come un gentile, malinconico spettro proiettato su cielo nero. La luce emerge sempre dall'oscurità, mentre seduce l'occhio e inebria il cuore. Il tempo s'iscrive sui volti degli uomini, disegna rughe e cicatrici e poi prosegue nella più struggente indifferenza. Emerge allora il desiderio clandestino e impossibile di fermare le immagini, di tornare a fissare i fantasmi impressi su celluloide, e amarli, come se fossero vivi. Come a dire, amo solo il cinema che posso toccare, amo solo gli uomini che posso sentire. Il miraggio-Pelesjan esplode in mille pezzi, come l'ambizione di un montaggio a distanza che tra un punto e l'altro voleva inserire l'intero universo.
Una grande parentesi in cui c'era (già) la vita.
Mi rimane il desiderio (quasi) irrealizzabile che Pelesjan possa tornare, un giorno, a toccarci con le sue immagini. Oggi ne avremmo davvero bisogno.

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