lunedì 16 giugno 2014

I pericoli del dardennismo:
Deux Jours, Une Nuit




L'assioma tautologico per cui i Dardenne sarebbero sempre i Dardenne rischia di ritorcerglisi contro: con "Deux Jours, Une Nuit" qualcosa si è spiacevolmente spezzato. Siamo di fronte al film più povero dei due fratelli, tutto retto su una struttura narrativa che vorrebbe aprirsi sulla crisi economica e sulla dimensione instabile e precaria del mondo del lavoro, ma che finisce per trasformarsi in un'opera costruita fin troppo schematicamente, priva di uscite e qualsivoglia via di fuga. Il rischio è quello di cadere in un lavoro che non riesce mai a scavare oltra la superficie, intrappolato in un meccanismo che funziona esattamente come una coazione a ripetere (fino allo sfinimento). Coazione questa che implica solo due ipotesi, in un terreno forzatamente binario (quello coercitivo dell'aut aut). Anche dal punto di vista della messa in scena per la prima volta i Dardenne cadono in quello che si potrebbe definire dardennismo. Siamo in un cinema di pura deriva, dove la scelte di messa in scena, il rigore ascetico che ha reso grande il cinema dei due fratelli, entra in un loop che lo rende visibilmente programmatico, più preoccupato di rispettare i codici di una poetica che quelli del singolo film. L'ossigeno che si respira nella sequenza musicale in macchina, con la Cotillard che canta, è un espediente abusatissimo, lo sa bene chi segue i festival europei-internazionali. Sembra come se le scelte stilistiche di molto cinema intellettuale europeo si trovassero a un punto di impasse, avessero perso la loro freschezza per essersi trasformate in etichetta, in scelte di maniera deturpate di qualsiasi vitalità. Certo, Marion Cotillard regala un'ennesima prova di recitazione esemplare: il film regge tutto sulle sue spalle, sulle sue lacrime, sulla sua forza. Ma questo, per una volta, non basta.


Nessun commento: