mercoledì 4 giugno 2014

La legge del mondo
Il processo di Orson Welles




Poche sere fa ho rivisto, dopo diversi anni, "Il processo" di Orson Welles. E' quasi pleonastico dirlo, ma di sicuro non fa male: che film incredibile! La cosa che più mi lascia attonito è il modo con cui Welles riusciva a trasfigurare gli interni labirintici di Kafka, strutture quasi rizomatiche che si ergono sulle rovine del mondo - e del senso. Realtà sotterranee in cui sembra che non esista più alcuna differenza tra esterno e interno. Ogni porta può portare ovunque, eppure non esiste più un fuori, una dimensione ulteriore rispetto a quella imposta dal Processo. L'umanità intera, cifrata, decodificata, numerata, è succube di strutture che non può più dominare: è la legge del mondo, dimentica di Dio e di ogni umana compassione.
Tutto sembra essere contenuto all'interno di quella mostruosa, fetida struttura amministrata che è la burocrazia. Il grandangolo deforma ogni ambiente fino a far credere che non esista più cielo, aria o libertà: tutto è già osservato, visto, scritto, catalogato. Il signor K. - un grandioso Anthony Perkins - è smarrito in balìa di un mondo ormai fuori da ogni canone. Se il testo capitale di Kafka era completamente immerso in una realtà ormai priva di senso, frantumata e terribile, il film di Welles assomiglia sempre di più all'incubo di un sopravvissuto a un campo di sterminio, nella consapevolezza che l'umanità è iscritta a tal punto all'interno di una legge disumana da non poterla più trascendere o negare. La legge è tutto, al di là del bene e del male, al di là del senso o del non-senso. Un condannato è un condannato, non importa se sia colpevole o meno. Welles, con furore espressionista, rinchiude i suoi personaggi nelle celle del mondo, gli fa respirare l'aria asfittica e marcia dell'incubo, mentre segue, in fomidabili piani sequenza, il suo signor K.: tunnel della mente dove la luce abbagliante può filtrare appena, con l'esito di accecare. Non rimane che silenzio e oscurità.

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