lunedì 14 aprile 2014
Il gesto filmico di Wes Anderson
"Grand Budapest Hotel"
"Grand Budapest Hotel": al via la nuova giostra di Wes Anderson, ma questa volta, forse molto di più delle altre, si tratta di una giostra in grado di riflettere e ironizzare su se stessa, sulle sue capacità di controllo, sul suo tentativo di costruire un meccanismo perfetto dove niente è fuori posto, dove la frontalità, la simmetria, l'ordine di un libro illustrato o di un cinema che è sempre più animato, sono la cornice (e il contenuto stesso) di un intero mondo.
Mai come in questo film i personaggi erano apparsi così palesemente consapevoli del racconto e della finzione di cui fanno parte. Delle volte, nei dialoghi, emergono anche delle parole sull'affabulazione, sul ritmo interno, sui codici e sul fattore prevedibilità del meccanismo narrativo perfetto. "Grand Budapest Hotel" si trasforma così in un film sull'arte del racconto, su un'immagine che vorrebbe ordinare tutto, prevedere tutto, riordinare ogni tassello narrativo e non farsi mancare nulla. Ma questa, appunto, è solo un'illusione: come a dire, ogni personaggio si concede al gioco, ogni attore recita la sua parte, per giunta divertendosi un mondo. Di qui l'uso di volti noti, di autentiche icone, di caratteristi in grado di non essere i personaggi, ma di essere se stessi "prestati" al cinema di Anderson. Il "gioco", la simulazione, la concessione lo trasformano anche in un film sulla recitazione, sulla sospensione d'incredulità, sull'ironia di chi, in continuazione, riesce a ridere di sé e di ogni stilema narrativo possibile.
Anderson scava nella superficie strutturale del "giallo" per offrire una sua teoria narratologica, un suo gioco di specchi, che si dispiega subito come un inno ai mondi straordinari di un cinema che non esiste più (Lubitsch e ancora Lubitsch per sempre Lubitsch). Per ricreare quel cinema Anderson ha sempre avuto bisogno di confinarlo in geometrie ossessive, di radicalizzarlo all'interno di un meccanismo di controllo perduto, consapevole della propria perdita, cosciente sconfitto - ma non disilluso - dell'oggi: il mondo extraordinario dell'illusione e del controllo si trasforma in un'illusione di controllo. Perché più che un film raccontato al passato "Grand Budapest Hotel" sembra superare il tempo, in un meccanismo di scatole cinesi che trasforma l'Hotel nel centro geografico del cinema tutto dell'autore.
E mentre si succedono una serie di irresistibili figurine cambiano i formati, cambiano i colori, e il cinema andersoniano rivela la sua matrice essenzialmente nostalgica. La ruota e la giostra sono i codici che utilizza per tracciare il suo pensiero, le manifestazioni di un gesto filmico che ha bisogno della reiterazione per resuscitare i morti: basta pensare ai movimenti di macchina, che disegnano sempre le stesse figure, che tracciano sempre le stesse traiettorie.
E lo sguardo in macchina di Saoirse Ronan è un momento brevissimo, una chimera fuggevole in grado di soppiantare qualsiasi ordine e di ritornare all'occhio e alla visione, in una parola all'affezione.
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