«Non sono triste. Io non piango, non sono triste... io non sono niente».
La terrazza come universo narrativo concluso in se stesso, dove sdraiarsi sotto la pioggia, parlare, ridere grondanti di sangue, schiaffeggiarsi, uccidere, correre e cantare mentre si guarda il resto di un mondo che non ci conosce più.
Il jazz avvolge il giorno e la notte e tra le immagini di un manga scorgiamo una foto di Roman Polanski e Sharon Tate.
Alla fine non rimangono che due cadaveri su una strada.
Girato in quattro giorni a bassissimo budget, Go, go, second time virgin di Koji Wakamatsu è il potente racconto di come la rabbia e il dolore siano diventate ormai (siamo nel 1969) le uniche forme di comunicazione.
p.s. Io non lo so, non lo so proprio che cos'è quella sensazione. Ma è magnifica, e fa piangere da morire. E visto che oggi mi son preso una cotta per il blu, allora ripenso alla sequenza bluastra e carnale sulla spiaggia. Il cinema più bello, la terra straniera, l'UFO piombato su pellicola che si è spento troppo presto, quando ancora aveva tanto, troppo da dire. In memoria di Kōji Wakamatsu.
2 commenti:
La vera violenza espressa dal lavoro di Kōji Wakamatsu è la negazione dell’essere umano. “Le lacrime che le donne versano? Quali lacrime? Quale tristezza? Non sono una donna. E non sono triste...neanche un po'. Io non piango. Non sono mai triste... Io... Io non sono per niente triste. Vaffanculo. Vaffanculo” dice Poppo guardando verso la telecamera, rivolgendosi non più ad un personaggio della storia narrata dal film, ma direttamente allo spettatore, accusandolo in sostanza di essere lui stesso colpevole per quanto di male le è capitato. Geniale!
Assolutamente. Cinema in grado di sfondare la pulsione scopica dello spettatore, il suo ruolo di testimone e causa del meccanismo stesso della visione.
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