venerdì 19 settembre 2014
Il film che "Good Kill" poteva essere
Rielaborando il cinema di Andrew Niccol: trovate geniali imprigionate in script che non osano, con l'impressione che il regista non creda mai abbastanza nel potere delle sue immagini. Opere tutte "in potenza", metafore dove ogni intuizione viene esplicitata fino al midollo. "Good Kill" ne è l'esempio più calzante: ruota intorno a un tema che non potrebbe essere più attuale, quello dei droni pilotati a distanza dagli americani per combattere il nemico. Parte con una prima parte folgorante, tutta basata sull'idea della distanza, di un "occhio che uccide" e che combatte la guerra direttamente da Las Vegas. Spunti teorici a gogò, parabola narrativa prevedibile ma funzionale che (ben) focalizza l'anestesia del guerriero digitale, di colui che uccide senza mai sporcarsi in prima persona. Alla carne del corpo vengono sostituiti i pixel dell'immagine digitale. Eppure Niccol finisce per svuotare la forza della sua immagine (e della sua idea) per urlare in faccia tutto - ma proprio tutto - al suo spettatore, e finendo per perdersi in un finale di dubbia - e pericolosa - moralità.
Si vede "Good Kill" mentre si immagina il film che avrebbe potuto essere ma che, purtroppo, non è.
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