mercoledì 14 gennaio 2015
Sotto il cielo plumbeo di Glasgow
Red Road
C'è qualcosa che non mi ha convinto nella visione di "Red Road" di Andrea Arnold. Da anni volevo recuperarlo, perché sono da sempre attratto da finestre sul cortile e pulsioni scopiche moltiplicate.
Digitale sporco, camera a mano ostentatissima, derivazioni fastidiosamente Dogma (il film è prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier), soggetto che va svelando le sue piste narrative passo dopo passo, in un clima limbico-soporifero che ben ci immerge nell'apatia del film. All'interno dell'atmosfera plumbea e asfittica che avvolge le vite di Glasgow, il lavoro della Arnold si ritrova costretto all'interno di una struttura che pare imprigionarlo - non per mancanza di ossigeno (funzionale al film) ma per la sua stessa impostazione visivo-narrativa.
La regista pare così preoccupata a risolvere ogni snodo narrativo da non lasciare alcuna percentuale di dubbio: il rischio di facili psicologismi e di un didascalismo di fondo rimane a galla, sebbene sia sempre truccato da espedienti (il look visivo, la messa in scena, la durata interna) che lo fanno apparire ben più complesso di quanto non sia in realtà.
Davanti a delle immagini a circuito chiuso, la Arnold non riesce a fare altro che sottolineare l'evidenza: se Haneke ci ha insegnato come ogni immagine, perfino la più "oggettiva", sia di per sé ambigua e menzognera, la Arnold si limita a "guardare". Se Haneke squarcia la superficie dell'immagine, in una crudele indagine autoptico/ipodermica, la Arnold rimane incastrata e attratta da quella superficie, dimenticando l'ambiguità intrinseca a ogni immagine. Ancora: se l'immagine di Haneke è sempre stravolta epistemologicamente da un fuori-campo pronto ad apportare un nuovo senso (e mai un senso ultimo), quella della Arnold si ferma alla cornice e non oltrepassa il formato. Non c'è mai un oltre che surclassi ciò che vediamo: i personaggi (la protagonista per prima) vengono ridotti a burattini mossi da fili invisibili, che agiscono come insipide funzioni narrative.
Una traccia indelebile, un fantasma, muove ogni azione della protagonista, cadendo nei facili schematismi narrativi di causa-effetto. Peccato, perché il fil rouge squisitamente bataillano che collega attrazione sessuale e morte, pulsione scopica e libidine fisica, voyeurismo e sesso, finisce per diventare un'appendice, un plus didascalico, e mai il fulcro del film. "Red Road" si fa esempio perfetto e problematico di quando un'intuizione teorica "compone" il film e non viceversa, modellandolo a suo piacimento, e non facendolo mai respirare.
L'impressione è che l'opera della Arnold non faccia altro che scorrere davanti agli occhi della protagonista. Se per tutta la prima parte lei è l'occhio neutralizzato/anestetizzato che guarda, nella seconda diviene occhio che agisce. Dal vivere la vita degli altri a essere già un altro.
E alla fine diviene il film sull'elaborazione di un lutto, sulle possibilità di una nuova luce, sul sogno di un risveglio.
Tutto questo non fa una piega sulla carta, ma, al momento della visione, "Red Road" rimanere imprigionato tra le derive opache di un'immagine che rifiuta il caso e le possibilità imprevedibili/imprendibili dell'occhio. Grave che un film come questo - dopo Hitchcock, dopo De Palma, dopo Haneke - dimentichi che le immagini mentano. Sempre. Strutturalmente.
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