giovedì 13 novembre 2014

Sul peso dell'immagine
Gangs of New York




E' strano rivedere dopo tanto tempo Gangs of New York di Martin Scorsese. E' strano perché dà l'idea di un progetto gigantesco, ambizioso e importante, inseguito appassionatamente nel corso degli anni. Basti pensare alla realizzazione irta di imprevisti, al montaggio infinito, alle svariate traversie che hanno modellato il film, tirandolo da tutte le parti, deformandolo e reinventandolo. Proprio per questo, a rivederlo, Gangs of New York mi dà l'idea di un grandioso oggetto filmico non riuscito, quasi struggente nel suo cercare di restituire un equilibrio che manca.
Ciò che si ama in Gangs of New York è il tentativo forsennato e impossibile di amalgamare il racconto, la consapevolezza della propria irriducibile fragilità. Come lampi si alternano momenti di grande cinema ad altri perfino sciatti e deboli, che perdono di vista il senso del ritmo e del racconto. Gangs mi pare tuttavia una di quelle opere cui voler bene, perché sembra addirittura il saggio visionario di chi, dopo decenni, continua ad affermare che realizzare un film è un'impresa folle e ardita, un sogno impossibile che tanto assomiglia a una guerra giusta. Proprio in Gangs, più che in qualsiasi altra opera di Scorsese, si sente il peso fisico dell'immagine: c'è una pesantezza, un senso di gravità, ma anche di missione impossibile, di follia ardita, che accompagna l'intera visione del film. Sembra quasi di poter vedere il sudore e la fatica delle riprese - e del montaggio - impressi indelebilmente su ogni singolo frame.
Tutta la cinefilia scorsesiana appare come un magma che ribolle sotto ogni inquadratura, a volte perfino intrappolandola all'interno del suo caldissimo nido. Siamo a metà, d'altronde, tra lo Scorsese feroce degli anni precedenti e quello più accademico e museale (quello che, negli anni dopo, avrebbe girato "Hugo Cabret" o "Shutter Island"): spesso Gangs of New York viene fagocitato all'interno dei suoi stessi didascalici intenti, salvo poi sollevarsi e regalare momenti alti in cui esplode un furore quasi sternberghiano dell'immagine.



Il conflitto tra William e Billy, nature sfrenate e individualiste su cui si fondano gli Stati Uniti d'America, rimane narratologicamente esemplare. E quando scoppia la rivoluzione in città, i due non fanno altro che combattere la loro guerra, completamente indifferenti alla scorrere della Storia. L'egoistica battaglia di chi non ha occhi per le svolte dell'umanità circostante appartiene al vecchio mondo. William e Billy sono quel mondo: il loro vero nemico comune, di cui non si rendono conto, è lo scorrere irrefrenabile del tempo e lo spettro imminente della Democrazia.
E' quasi deludente, del resto, la morte di Billy il Macellaio. E' una morte che non ci dà riscatto, nè soddisfazione alcuna, perché non rispetta i crismi del racconto, perché non è all'altezza di un personaggio così sfacciatamente shakespeariano. La si vorrebbe feroce, diabolica, sanguinolenta, sofferente, quando in realtà è semplicemente misera, quasi comune. Ma è questa miseria, questa tristezza infinita, quest'improvvisa, sofferta demitizzazione che rende memorabile l'intera seguenza (Il cattivo è morto, avrebbe detto qualcuno, ma nessuno se n'è accorto). Billy il Macellaio se ne va, si spegne come chiunque altro, e qui comprendi che sia proprio questa l'intuizione migliore di Scorsese. La storia del film e i suoi personaggi vengono scanzati violentemente, senza rispetto o pudore, dalla grande Storia che avanza.
Il tempo del racconto finisce, il tempo della Storia inizia.

post scriptum: è ovviamente superfluo qualsiasi aggettivo che miri a descrivere la performance di Daniel Day Lewis, su cui è retto l'intero film.

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