venerdì 7 novembre 2014
La Storia della Principessa Splendente
Quando un film è come un haiku
Al cospetto de "La storia della Principessa Splendente" del maestro Takahata verrebbe quasi voglia di portarsi a casa ogni singolo frame, per custodirselo per sempre all'interno di quell'intima galleria personale dove far ritorno ogni volta che l'aridità minaccia di spegnerci. Ma poi ci si rende conto che è proprio il movimento a dar vita alla poesia di un tratto essenziale, che non ha bisogno di inutili orpelli o magniloquenze per poter fare del cuore dello spettatore un universo sterminato in cui entrare. Dall'inizio alla fine ci si addentra in un altro mondo, e lo si fa in punta di piedi. Nel silenzio sacro che accompagna ogni visione miracolosa, si passa dall'infanzia idilliaca all'opprimente castello in città, fino a quell'incredibile fuga in cui la figura sembra assorbire tutto il mondo circostante. Takahata racconta ogni piccolo gesto come se fosse un dolce e sereno poeta di haiku, in grado di bussare alle nostre porte con la semplicità, la dolcezza e l'ascesi appartenute solo ai più grandi. Ricorda quasi Ozu per la sua nuda composizione dell'immagine. Le sue immagini non parlano, cantano la bellezza della natura e della terra, dei fiori e delle stagioni, come nella migliore tradizione giapponese. E tu, come un bambino impreparato a tanta bellezza, riscopri nel film quel villaggio lontano e inesplorato che ti ha sempre restituito la vita. Sono film come "La storia della Principessa Splendente" che mi fanno ricordare perché ho sempre amato il cinema. Se "The Wind Rises", film-testamento di Miyazaki era la produzione dello studio Ghibli che più si avvicinava alla potenza della pittura, "La storia della Principessa Splendente" è il canto soave con cui il cinema ritorna alla poesia: nessun tramonto poteva essere migliore di questo.
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