lunedì 10 febbraio 2014
Destini archetipali: "All is Lost"
Cinema archetipico allo stato puro dal DNA visceralmente classico: "All is Lost" racconta il declino delle cose, ma non dell'uomo. Quella del talentuosissimo Chandor è un'opera straordinaria fin dalle prime battute perché, perfino nelle sequenze più tempestose, riesce miracolosamente a mantenersi scevro, essenziale e profondamente antiretorico. Il film agisce come un collirio per occhi abituati allo spettacolo del mondo piuttosto che all'intimità dell'uomo, al suo annientarsi iperbolico piuttosto che al suo incedere solitario. Qui non c'è nessun'operazione survivor decantata con far altisonante, c'è solo un vecchio lontano dagli occhi del mondo, rispettato da una macchina da presa che non vuole mai sovrapporsi a lui, ma cerca, semplicemente, di guardare più da vicino.
Ancora una volta il vecchio e il mare: un individuo solo circondato dagli abissi oceanici, infinite distese d'acqua che ci restituiscono la paura dell'ignoto, la dimensione di finitudine, l'idea di sublime di fronte alla violenza della natura. Timori e tremori lontani eppure rintracciabili nel cuore di ogni esistenza, sensazioni che superano il tempo, perché esistono prima della civiltà (e rimarranno anche dopo).
In questa dimensione di solitudine estrema "All is Lost" rammemora un uomo che è insieme il primo e l'ultimo, mentre rintraccia il desiderio strutturale di riuscire a permanere, di lasciare una traccia nel fluire incessante e indifferente della natura. Una voce naviga l'oceano: le parole son pronunciate nella speranza che ci sia qualcuno a sentirle. Mai come qui parlare ha il significato d'invocare.
L'asse portante del film è il volto ruvido di Robert Redford, uomo d'altri tempi dall'espressione contrita, dalle mani segnate dall'età, dalla capacità di possedere, dominare gli oggetti, recuperando una manualità che il mondo aveva dimenticato. Del suo personaggio non sappiamo assolutamente nulla, ma non ha alcuna importanza, perché lui è l'archetipo primo, l'individuo che conosciamo da una vita, l'uomo che è insieme tutti gli uomini: non ci sono misteri o ambiguità dal momento che, svuotato di qualsiasi sovrastruttura, rimane solo il basico istinto di sopravvivenza.
E mentre le cose materiali sono destinate ad affondare, diviene chiara l'allusione al destino dell'uomo contemporaneo: tecnologia, macchine, l'intera circolazione extracorporea, scivolano per prime verso il fondo dell'oceano. In totale controtendenza il postumano soccombe all'umano stesso. Seguono cultura, libri e oggetti: di fronte alla violenza della natura non ci sarà nessuna tecnologia a salvarci, ma solo l'uomo, con le sue mani, i suoi occhi e il suo istinto.
Finisce il film e ci rendiamo conto di aver assistitito a un'ora e mezza di cinema rigorosissimo: non c'è nulla fuori posto, nessun virtuosismo, nessun movimento di macchina spiacevole o troppo visibile, nessuna ridondanza formale, nessun sentimentalismo. Perfino la colonna sonora è estremamente sobria e non soffoca mai l'immagine, sebbene si conceda a scorci poetici che infiammano lo schermo in mezzo al caos della tempesta. E, dopo aver visto un finale di struggente, archetipica bellezza, il cuore si gonfia di gioia nell'aver ritrovato un cinema così teneramente, saldamente umano, in grado di credere ancora nell'uomo e nelle sue potenzialità.
Del resto "All is last" è quel film su un'altra fine del mondo che sarebbe bello vedere insieme a "Gravity": l'opera di Chandor non gravita ma sente, al contrario, tutto il peso dell'individuo e della materia. Questo stesso peso lo pone come ancora di resistenza (e salvataggio) in un mondo che si è fatto sempre più invisibile e immateriale.
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