”Un giorno uno potrà dire: una volta in Anatolia, lavoravo in campagna. Mi ricordo di quella notte in cui accadde questo. Potrà raccontarla come una favola, non è vero dottore?”
(C’era una volta in Anatolia)
C’erano una volta degli uomini che, immersi nel buio della notte, si smarrivano fissando l’oscurità. Avanzavano con le automobili lungo le enormi distese della campagna turca, cercando di fare luce su un cadavere inghiottito dal buio.
Così si apre “C’era una volta in Anatolia” di Nuri Ceylan, come il manifesto di chi crede che fare cinema sia perdersi nell'oscurità, raccontando un’umanità dispersa, vagante ed impotente di fronte alla banalità del male. I fari delle automobili, uniche luci nel regno delle tenebre, danno voce ai pensieri non detti, al silenzio di uno sguardo e agli spettri del passato. E' possibile andare avanti solo per supposizioni e per istinto, come a ribadire che, del resto, siamo solo uomini.
Ceylan ci avvolge nel suo cinema-fiume, accompagnandoci in un viaggio lento e desolato, usando il linguaggio dell’ipnagogia e del sogno: e com’è bello nuotare sott’acqua senza mai sprofondare ma senza nemmeno poter risalire a galla. Agitiamo le braccia sospese ma scorgiamo, con un senso di quieto, flemmatico orrore, la vertigine che si agita impetuosa sotto di noi. Abbiamo tempo, tutto il tempo del mondo, per pensare e guardarci, per ricordare ed amare, ed è proprio questo a far paura: quando lo sguardo si volge in profondità gli occhi si stancano perché si abituano al buio e capiscono che un fondo proprio non c’è. Eppure, ostinati e ormai ciechi, continuiamo a guardare. Il buio non è mai buio ma vive di sfumature di oscurità: è esattamente come immergere la testa in un pozzo senza fondo. Non rimane altro da fare che perdersi in campagna, girovagare senza trovare, precari di verità e succubi del mondo. Il passato ha generato ferite che non possono essere rimarginate.
Ma nelle favole e nei miti, qualche volta, la luce irrompe nel notturno che sembra un po' più luminoso.
C’era una volta in Anatolia una giovane donna, misteriosa apparizione angelica, che illuminava una stanza con la fioca luce di una candela e riusciva a scaldare le fredde membra degli eroi presenti.
C’era una volta in Anatolia una notte luminosa o un giorno che era già notte.
Inno capovolto alla luce oscura, fino alla psicosi di un giorno che non sa più chi è, perché vede opposti dappertutto, proprio come nella poesia.
Del resto non si conoscono le risposte neanche indagando il corpo, come avviene nell’autopsia finale. Perché è vero che il cadavere viene ritrovato ma il film non è finito: rimane sempre qualcosa da cercare, un vuoto da colmare, in’insoddisfazione impossibile da superare. In piedi sul gorgo dell’incertezza la notte lascia filtrare le prime luci dell’alba. Rimane lo spazio per un’ultima autopsia: abbagliati ci affacciamo all’interno del corpo e scorgiamo l’autentico abisso che siamo noi.
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