venerdì 18 gennaio 2013
ORFANI DI REALTA' #2
"Cave of forgotten dreams"
"C'è una scimmia sulla luna!" ("Faust" di Aleksandr Sokurov)
Partiamo da dov’eravamo rimasti, dall’era della fine del cinema e delle narrazioni: “Holy Motors”. Ma soprattutto partiamo dalla scena che precede il finale, quella in cui Monsieur Oscar torna dalla “sua”(?) famiglia di scimmie. Dalla finestra di un appartamento parigino vediamo questi nostri buffi antenati mentre ci guardano. Avvertiamo subito una stranissima, anomala possibilità di scambio, come l'eco di un riflesso lontano ed ancestrale. Ma, soprattuto, avvertiamo una possibilità di riconoscimento.
Cosa vive nello sguardo di un animale che non è in noi? Ma soprattutto siamo ancora noi quelle scimmie? Ecco, il punto focale del discorso si trova proprio qui: in quegli abissi profondi che solo uno sguardo sa (s)velare, in quegli attimi di inversione prospettica in cui gli occhi languidi si riconoscono come in quel quieto, lontano primo amore.
Uno sguardo che in un solo istante è in grado di annientare il mondo, la storia e la cultura, l’evoluzione e la caduta, per ricordarci chi eravamo e chi siamo sempre stati. Per rimandarci all’interno delle nostre prime grotte, dove l’umanità diventava tale, dove tra le pitture rupestri scoprivamo e svelavamo un altro mondo proiettato all'interno della caverna.
Forse alcuni sogni sono perduti, ma quegli uomini siamo ancora noi (e del resto, verrebbe da dire, di sole caverne è fatto il mondo). Ecco “The cave of forgotten dreams” in cui Werner Herzog scopre la prima grande sala cinematografica dell'umanità: la grotta di Chauvet.
E’ d’obbligo premettere come Werner Herzog non abbia mai smesso di camminare, nel folle, insensato, meraviglioso tentativo di ricercare una continuità in un mondo che ne è privo, che vive sempre di più di isole e frammenti. Questa volta, facendo un passo al di qua dall’ignoto spazio profondo e uno al di là del paese del silenzio e dell’oscurità, guarda direttamente a 32.000 anni fa, sostenendo che il cinema, o meglio l’immagine in movimento, abbia una storia antichissima. Ennesima ipnotica sfida ai limiti del visibile e del possibile, sguardo atletico ed irresponsabile, Werner Herzog continua a guardare in affondo proponendo una perla rara e preziosa, sottraendosi dagli sguardi delle masse per finire nel limbo dei “non visti” (dove il cuore del cinema degli ultimi anni sembra pulsare).
Accompagnato da una troupe ridotta ha la possibilità di filmare l’interno della grotta di Chauvet, nel sud della Francia. Qui sono state scoperte le pitture rupestri più antiche dell’umanità che sembrano già presentare un’idea di movimento. Come a dire che l’immagine in movimento sia stata lì fin dal principio.
Il cinema non è mai stato inventato, piuttosto è stato scoperto. Già era lì, 32.000 anni fa, diretto, manipolato, perfino postprodotto, godeva di un regista e di una platea che attraversavano (e attraversano) i millenni. In questo tempo fatato e sospeso assistiamo a opere d'arte comunicanti nell’arco di secoli, avvertiamo gli spettri dei nostri antenati, sentiamo le loro voci, il loro sguardo e perfino il loro respiro che aleggia su di noi.
Opera incredibile sulla memoria, sul movimento, sulla successione e la cooperazione che non conoscono distanze temporali: è la storia dei film infiniti, privi di pellicola o durata. Intuizione straordinaria poi quella stereoscopica: restituire profondità e idea di movimento alle nostre origini vuol dire rigenerarle, come un rito magico ed ancestrale che ha la pretesa di dare nuova vita ai morti: ed ecco che i cavalli ricominceranno a correre e i bambini torneranno amici dei lupi.
Il segno diventa la misteriosa, oscura quintessenza della memoria e dell’immortalità: come quel pittore antichissimo che tracciava la grotta con i palmi della sua mano, liberandosi per sempre dalla prigionia del tempo. E ci si chiede chi, cosa siamo diventati, cos’è cambiato in trentamila anni, se siamo ancora noi gli uomini delle grotte. E poi, con sottile e caustica ironia, ecco l’immagine dei coccodrilli albini, abitanti della centrale nucleare vicino alla grotta. E, come avveniva con le scimmie di Carax, ci scopriamo di nuovo riflessi nei loro corpi a guardare i (nostri?) dipinti. Perché forse un giorno potrebbero essere proprio loro i nuovi abitanti delle caverne.
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